Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

mercoledì 18 marzo 2015

Federico De Roberto 1861/1927 "Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti ..."



"Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti è senza dubbio indizio della sua civiltà; ma, quando si pensi che molti di quei magnanimi a cui s’inalzano monumenti furono perseguitati e calunniati e odiati in tutte le maniere mentre durarono in vita, vien quasi voglia di conchiudere che molte che paiono manifestazioni di animi generosi non sono altro che misere ipocrisie, e gran parte di ciò che diciamo civiltà non è che industria d’inganni, onde un popolo si studia apparire quel che non è, non solo al giudizio degli altri ma di sè stesso.
Sarebbe perciò desiderabile, a decoro di una gente e ad onor vero dei grandi trapassati, che non ci si affaccendasse troppo a commemorare, a statuare, a monumentare coloro che furono grandi, e si guardasse invece di conformare i pensieri e le azioni nostre a quelle dei magnanimi, dico di coloro che tali furono veramente, non di tanti che prima e dopo morte usurparono tal nome, e fama e gloria ebbero di grandi non per fatti propri, ma per capriccio di fortuna che li pose in alto, e per adulazione di servi, che più adorano la fortuna che non rispettino la virtù.
Questa sarebbe da vero opera di nazione civile; ma i popoli, quantunque si dicano civili, seguiteranno probabilmente a far pompa di morti per coprire le miserie dei vivi: chè, inalzar marmi e bronzi costa soltanto danari, quando l’ingegnarsi di imitare i grandi costa tali sagrifici che, tranne pochissimi, nessuno è capace, non che di sostenere, d’immaginare". Mario Rapisardi

Convinto d'essere uno "scrittore fallito" ("Nulla resterà di me! Nulla"), De Roberto trascorrerà gli ultimi anni, specie dopo la scomparsa del Verga, preda del male oscuro dei nervi, di una desolata sconsolatezza.
[Catania,] Domenica, 6 [luglio 1902]
Ti scrissi ieri, Nuccia mia, ti dissi ieri la ragione del mio lungo silenzio, grave a te, grave a me altrettanto, e forse più, perché volevo e non potevo far molto per romperlo. Qualche cosa io vorrei pur fare per oppormi a questa lenta mina del mio spirito, della mia volontà; ma non ci riesco. Tutto mi pare inutile e vano. Non credo in niente, non spero in niente. Non ho che fare della mia vita, del mio pensiero. Sono un uomo che annega, sono un uomo perduto. Come descriverti ciò che accade in me, la confusione della mente, lo svanire della memoria, lo sfasciarsi dell'energia, le improvvise, irragionevoli, impeccabili irritazioni, le idee pazzesche che mi traversano il cervello, i silenzi che mi cuciono le labbra, le ansie, i furori impotenti, gli abbattimenti mortali? Spaventevole è che io abbia coscienza di queste cose, che io misuri a grado a grado questa rovina. Perdonami, compatisci, non mi rimproverare. Che posso fare? Io non ho saputo mai distrarmi al modo della folla: ora mi è tanto più impossibile. Del lavoro sono incapace. Le letture brevi non servono a niente; le lunghe mi confondono la testa. Questa città, questa gente, questi costumi mi sono odiosi ed esecrabili. Tu sei troppo lontana ed inarrivabile. Non posso far altro che piangere, come ho pianto, di me stesso, quasi fossi morto. Non posso far altro che guardare nel vuoto, immobile, con le mani in mano, come un fachiro come un mentecatto. Nuccia, fammi parlar d'altro; perché ti farei e mi farei troppa pena.   Che tu venga in Sicilia non lo credo: sarà una delle solite fantasie di quel tale. Ma se dovessi realmente compiere il viaggio, non venire a Catania con una compagnia odiosa e detestata. No, così non ti voglio vedere, qui, presso mia Madre. Avvertimi, piuttosto, e verrò io a trovarti, cioè a trovarvi!: Ma no: vedrai che non verrai: già tu stessa mi dici che la cosa è poco sperabile. E poi, è forse meglio non vederci niente che vederci così. - Sai quanto tempo ho impiegato, Nuccia mia, a scrivere questa paginetta? Un'ora e mezza; ho qui dinanzi l'orologio che misura lo scorrere del tempo omicida. - Non dire, Nuccia mia, che temi d'avermi dispiaciuto: lo vedi: tu sei la sola che riesci a trarmi da questa mia agonia: ne esco per troppo poco, è vero; non riesco ad altro che a fartene vedere l'orrore, è vero; ci ritorno subito, è anche vero; ma se non fossi tu, a chi aprirei il mio cuore, a chi mi confiderei? [Federico]
"La storia di un amore segreto dello scrittore è interamente conservato in un epistolario rimasto inedito per quasi un secolo, fra il De Roberto trentaseienne e la trentunenne Ernesta Valle, gentildonna residente a Milano, assidua habitué di elitari salotti (da Vittoria Cima a donna Virginia dei Borromeo, alla stessa Ernesta), moglie dell’avvocato siciliano, Guido Ribera. Fra sotterfugi, stratagemmi, astuzie, la corrispondenza si snoda dal 1897, periodo in cui iniziò la sua collaborazione al Corriere della Sera, fino al 1916: un carteggio che permette di seguire passo passo le tappe dell’itinerario scrittorio di De Roberto, negli anni più tormentati della stagione milanese, penetrando la sua officina nascosta, nella camera oscura dell’ispirazione, svelando progetti, fervori, traguardi, e soprattutto ansie, inquietudini, sconfitte". 

"Non è Nuccia che si prende questi chicchi; è Rico suo che glie li mette con la bocca nella bocca".



  • "L'artista si sente solo. Singolare ed aristocratico, vive a disagio in mezzo alla società democratica ed uniforme. Si sente da essa odiato come inutile, come superbo; e la disprezza. Pertanto le opere sue non si rivolgono ai più, ma ai pochi iniziati". F. De Roberto

Altro : 

Bibliografia di Federico De Roberto (1879/1955)