Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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domenica 12 aprile 2015

Critica e polemica letteraria a Carduci, Croce e D'Annunzio di Andrea Lo Forte Randi, con cenni biografici sull'autore 1845/1916


"Una testa che pensa non evoca nulla dal regno della morte che non possa servire utilmente alla vita presente e interessare quella avvenire." 
 Andrea Lo Forte Randi, pseudonimo di Francesco Ladenarda (Palermo1845 –Palermo1916), è stato uno scrittore italiano.



Andrea Lo Forte Randi 1845.1916 Introduzione qui

La Polemica lett. 1° parte qui

La Polemica lett. 2° parte qui


  • Feticisti Carduccini, ed. G. Pedone Lauriel, Palermo 1912 - vedi qui

Tratto da Lettera aperta a Benedetto Croce, ed. G. Pedone Lauriel, Palermo 1915, di FR. Enotrio Ladenarda, pseudonimo di Andrea Lo Forte Randi, critico insigne. (Dello stesso autore: Giosuè Carducci Vol.1° e 2°, Feticisti Carduccini, 1912.)

Sul Carducci, scrissi due libri per dire alle genti: L'uomo di cui avete fatto l'apoteosi fu un volgare tornacontista, ed eccone qua le prove:

— Egli cantò la bianca croce di Savoia: ma a Versailles aveva già – con l'ajuto di Emanuele Kant – decapitato un re.

— Egli, nell'Adige, celebrò il re Umberto: ma nell' Anniversario della Repubblica aveva già detto corna della monarchia.

— Egli chiamò il Giuseppe Mazzini: «Ezechiele in Campidoglio»; ma aveva già chiamato il Mazzini: «il sultano della libertà che mandava sicari ad ammazzare i galantuomini.»

— Aveva cantato il diavolo in un inno che fece andare in visibilio tutti i marinatori delle scuole d'Italia, onde era salito, di primo acchito, alla gloria di poeta di Satana; ma poscia quell'inno egli chiamò chitarronata, e ragazzacci sgrammaticanti chiamò coloro che, a causa di quell'inno, avevano strombazzato il suo nome alle quattro plaghe del mondo.

— Aveva schiaffeggiato il Galileo di rosse chiome e decapitato Dio con l'ajuto del Robespierre; ma poscia inneggiò alla chiesa di Polenta, alla dolce figlia di Jesse, a Dio ottimo massimo.

— Aveva scritto: «Io non intendo lasciare la mia fede repubblicana sulla porta della Camera, e dentro la Camera spero di non dimezzarmi; se anche dovessi nella prova soccombere, io saluterei ancora, con l'anima piena di fede, il nostro ideale: Ave, Respublica, moriturus te salutat.» – Ma poi entrò nell'altra Camera eletto dal re e giurò fede al re.

— Egli aveva strimpellato: «Per quante aule di barbari signori vigilate dal pubblico terror bisogna aver contaminati i cuori e i ginocchi, e quante volte ancor rinnegata la misera latina patria e del suo comun la libertà, per poter di diritto alla regina tener la coda quando a messa va!» Ma poi, in Bologna, si genufletteva a Margherita e scriveva l'ode Alla regina d'Italia.

— Aveva scritto : «Meglio le ingiurie e i danni della virtude in isolitaria parte che assidersi coi vili a regia mensa.» Ma poi fu a colezione in Corte.

— Aveva gridato: «I ministri hanno un bel sudare a buttare le Commende addosso alla gente che passa per la strada. Che puzzo di freschiccio di vernice da per tutto!» Ma poi fu Commendatore.

— Era salito all'alta fama di poeta della «santa canaglia» a mezzo dei vecchi ritmi dell'«usata poesia» (Giambi ed Epodi): ma poi scrisse: «Odio l' usata poesia.»

— Si era lodato scrivendo: «A me piace esser plebeo nel concetto, nella forma, nel vocabolo proprio, nell'immagine, nella lingua, nello stile, in poesia e in prosa»; ma aveva anche detto, lodandosi: «Io sono aristocratico in arte.»

— Sua unica passione sincera fu il vino: spesso s'ubbriacava sconciamente come il piu abietto beone.

— Correva dietro alle sgualdrine – testimonio il Sommaruga, che si faceva mantenere dalle cocottes e le prestava agli amici.

— Conduceva le sgualdrine negli alberghi dai quali si faceva cacciar via. – (Chiedere informazioni ai camerieri dell'albergo dell'Ancora in Milano.)

Egli aveva sbraitato: «Io non voglio elemosine dalla patria!» Ma intanto studiava la via per esser fatto segno ad elemosine più possibili: l'ode Alla Regina d'Italia gli fruttò l'acquisto della casa coi denari di Margherita e la vendita a Margherita della sua biblioteca, che rimase sua.

— Era di cuor malvagio. Una povera maestra comunale che andò a trovarlo in casa per chiedergli una raccomandazione poco ci volle che ei non la gettasse dalla finestra. Quell'atto malvagio ha una attenuante: la maestra era assai brutta.

— Era massone; era salito all'alto grado di Grande Inquisitore presso la massoneria bolognese. Con l'intervento della massoneria egli scroccò il premio Nobel, al quale altri aveva diritto, e la pensione di dodici mila lire annue.

Eccetera, eccetera, eccetera. Tutto ciò il Ladenarda ha dimostrato con prove e documenti irrefragabili; ma ciò non ostante, la sua requisitoria contro l'indegno maremmano è – non è vero? — «una sconcia diatriba». — [rivolgendosi a Benedetto Croce] Voi no; voi – lo ripeto – voi, che avete tentato di assassinare proditoriamente il Mario Rapisardi con armi invisibili, con veleni impalpabili, con giudizi sibillini e forma concia, voi non scrivete sconce diatribe. Certo è che vi hanno gentiluomini che parlano piano, misurano le parole e, intanto, barano al giuoco: ora quello che voi avete scritto dell'opera del Rapisardi è una vera e propria baratteria. Voi cangiate le carte in mano, ma non sempre così destramente che qualcuno non vi colga sul fatto.

Così egli dice al Benedetto Croce, nella seguente « Lettera aperta » del 1915 :

« Si — vi siete detto — noi che tutto questo abbiamo fatto dobbiamo abbattere il terribile avversario del Carducci e di noi.
E' lui che dall'alto ove poggia coi suoi poemi ci conficca nelle vive carni le sue ironie, ci flagella le schiene colla sua sferza di titano, ci inchioda al pilori del ridicolo, ci uccide col suo disprezzo. 

E' necessario annientare quei suoi poemi coi quali egli mette a nudo la nostra miseria morale e la nostra pedestre mentalità ».

« E poichè della camorra che ha invaso ogni angolo dell'odierna repubblica letteraria voi siete — e potete vantarvene — il capo, voi, dico, avete — nel cospetto di tutti i camorristi — preso impegno di abbattere il colosso ».

« E all'alta impresa vi siete accinto coi mezzi che vi son propri. 
In primo luogo vi siete messo ad accusarlo per colpe da lui — come dimostrerò— non commesse, ma che, commesse su larga scala dal Carducci stesso, plagiario impenitente, avete non solo scusate, ma anche trasformato — come abbiam visto — in titoli di lode! ».

« In secondo luogo avete posto mano ad ammannire una sfacciata menzogna, allorchè — a impicciolire sino agli ultimi termini l'opera del Rapisardi — vi siete messo ad inventare gli effettacci volgari da lui ottenuti sui lettori della provincia, rifugio di mode smesse ».

La provincia, si capisce, era quella di Catania; chi applaudiva a quei volgari effettacci, si capisce ancora, erano i soli Catanesi.

« Sciagurato! Oh! che erano forse catanesi il Bersezio, il Graf, il Ranfani, il Trezza, l'Ardigo, il Dall'Ongaro , il Lenzoni, il Roux, il Mestica, il Gnoli, il Bonghi, il De Amicis, il Zumbini, il Bovio, il Cavallotti, il Rovetta, l'Ascoli, l'Ellero, il Lombroso e tantissimi altri del continente italiano che a quegli effettacci volgari diedero i loro migliori applausi? Ed erano catanesi anche quei luminari della critica europea che si chiamano Karl von Thaler, Georges Brandés, Assing, Gaussinel, Siegel? Ed erano catanesi Paul Heyse e Victor Hugo che nel Rapisardi salutarono il piu grande poeta civile dell'Italia moderna? — Non erano catanesi? Proprio? No? Ed allora?...». 

Vediamo s'io bene interpreto il vostro sorrisetto.
Voi pensate che il giudizio di tutti coloro deve essere tenuto in conto di zero, per la semplicissima ragione che nessuno di essi è autore — come voi — di un'elucubrazione estetica, mastodontica come la vostra, sicchè tutti costoro — pur non essendo catanesi — meriterebbero il castigo di esserlo.
Si, avete ragione, anzi — dico io — sarebbe opportuno proporre che i laudatori del Rapisardi, sparsi nei due mondi, si chiamassero d'ora in poi tout court « catanesi ».

Così, a fil di logica, e con precise e documentate argomentazioni, il Ladenarda condusse quella sua generosa battaglia, che limpidamente mostrò l'ingiustizia, il partito preso, l'incoerenza dell'assurbo giudizio di Croce sulla poesia rapisardiana.

Queste righe furono scritte dopo la morte del Rapisardi; il che attesta l'equanimità, il disinteresse, la sincerità. 

Incipit de La Superfemina abruzzese - vedi qui

I pettegoli della «critica» hanno lungamente discusso intorno alla data della venuta al mondo di Gabriele (D'Annunzio) e intorno al luogo dal quale egli rallegrò il mondo col suo primo vagito, come se il nostro «superuomo» fosse morto. Oh! che sì preziose notizie non potevano, oh! che non possono, anzi, chiederle al «divo» stesso, anziché gittarsi e smarrirsi in così affannose ricerche?
E dire che esiste l'atto di nascita presso l'ufficio di stato civile di Pescara e che c'è anche l'atto di battesimo presso la parrocchia di San Cetteo, nel quale, a edificazione e consolazione nostra, fra altre cose, si legge che il portentoso bambino «nacque il 12 marzo del 1863 nella casa di abitazione della puerpera