Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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mercoledì 20 giugno 2018

MARIO RAPISARDI - 24 lettere ad Enrico Onufrio


L'epistolario di Mario Rapisardi, pubblicato a Catania da Alfio Tomaselli nel 1922, presenta (com'è naturale) molte lacune. Non fa cenno, per esempio, d'una corrispondenza con Alessio Di Giovanni, di cui ci occuperemo avanti. Quanto ad Enrico Onufrio, riporta una sola lettera: la quinta (ma con data sbagliata e varie omissioni) delle 24 che noi qui pubblichiamo.
L'Onufrio, spirito libero ed anticlericale, non poteva non simpatizzare col maggior poeta dell'isola, e auspicare il trasferimento di lui dall'Università di Catania a quella di Palermo. La storia di questo fallito trasferimento risulta abbastanza chiara dalle lettere n. 1, 6.
Il secondo gruppo più cospicuo di questa corrispondenza riguarda la pratica per la libera docenza, che coronò la breve vita dell'Onufrio (n. 9, 10, 12, 14, 15, 20-24).
Non mancano interessanti confessioni del Rapisardi : sul Giobbe e il suo culto della poesia in genere (n. 3, 5, 17); sulla polemica col Carducci e i carducciani (n. 7, 8, 18), contro i quali il catanese vorrebbe addirittura passare all'attacco mediante un nuovo giornale letterario (n. 13); e infine sulla infedeltà della moglie, Giselda Foianesi. Doveva amarla: al punto da ammirare « un lungo racconto » di lei e annunziarne all'amico la prossima pubblicazione nel Fanfulla quotidiano (n. 3). Quando seppe della tresca fra Giselda e Giovanni Verga, fu la « terribile sventura » (n. 16), che fin tre mesi più tardi gli bruciava l'anima (n. 19).



Trascriviamo integralmente le 24 lettere, conservando le particolarità ortografiche come publica, sodisfare,  obligatissimo, e aggiungendo qualche indicazione particolare subito dopo ciascuna lettera.

1
Firenze, 17 agosto '79
Egregio Signore,
Non credo che il Ministro della publ. istruz. sia disposto a soddisfare il desiderio della gioventù atea palermitana; ma io ricorderò sempre con piacere l'articolo ch'Ella ebbe la bontà di scrivere sul conto mio, non solo per le lusinghiere parole che mi riguardano, ma perché mi consola il pensiero che le mie buone intenzioni di artista abbiano trovato un'eco negli animi generosi dei giovani siciliani.
Per mostrarLe, come posso, la mia gratitudine, mi prendo la libertà di mandarle una primizia della mia versione del De Rerum Natura, pregandola di aggradirla e di credermi
A Lei obligat.mo M. Rapisardi.
Sulla busta: All'Egregio Signor Enrico Onufrio, Palermo.

2
All'Egregio Sig. E. Onufrio
Mario Rapisardi
in segno di riconoscenza e d'affetto.
Biglietto da visita senza data.

3
Catania 14 di giugno 80 
Carissimo Onufrio
Voi mi volete molto bene, ed io ve ne voglio altrettanto.
Vi dico, a onor del vero, che son professore ordinario da due anni per opera del De Sanctis, che, appena salito al potere, si ricordò con affetto di me.
Giselda, ch'è contentissima delle vostre cortesi parole, ha terminato un lungo racconto, che a me par fatto benino e che vedrà forse la luce nel Fanfulla quotidiano.
Io  lavoro da più mesi in un nuovo poema, nel Giobbe. Dopo l'epopea del diavolo, l'epopea dell'uomo. Amo l'arte più della celebrità (e forse anche più della gloria), e per questo non mi preoccupo, se in capo alla via che percorro ci sia il Campidoglio o il Calvario : mi bastano le selvatiche ebbrezze, che mi concede quella Divina, e il saluto di qualche anima baldanzosa come la vostra.
Addio.
M. Rapisardi.
Busta : « Al Chmo Sig. Enrico Onufrio, Palermo. « L'epopea del diavolo » adombra il poema Lucifero (1877).

4
Di villa, 14 ottobre 80
Mio carissimo Onufrio,
Il  vostro articolo mi è giunto proprio gradito, tanto più che voi, indovinando un mio desiderio, avete corretto lo strano apprezzamento di Uriel sulla natura della mia poesia.
Mi rincresce di non potervi mandare, come vorrei, il mio discorso inaugurale, perché non ne ho neppure un esemplare per me. La Rivista Repubblicana lo riprodusse nel fascicolo secondo; e il Pensiero ed Arte lo dà a centellini a' lettori come cosa prelibata; ma io vi assicuro che, tranne il coraggio ch'ebbi di leggerlo dinanzi a tutte le autorità e in questo paese e in quell'occasione solenne, non ha altro merito.
Vi manderò invece, appena vedrà la luce, che sarà, spero in novembre, un esemplare della 3* ediz. delle « Ricordanze accresciuta di alcuni versi inediti, che voi terrete in 
memoria mia, e mi ricambierete con qualcuna delle cose vostre di cui, a dir vero, non mi siete stato molto largo finora.
Prendetevi, intanto, insieme ai saluti della mia Signora un abbraccio                                                                                  '
Dal vostro Rapisardi.
Busta:  «All'Egregio Sig. Enrico Onufrio, Palermo»

5
Catania, 28 di Nov. 80 
Mio carissimo Onufrio,
Io non so nulla di nulla riguardo alla mia promozione, né credo ci sia altro di positivo tranne il desiderio di una parte della studentesca palermitana, del quale vado orgoglioso, e l'affettuosa premura vostra, di cui vi son grato paternamente. Diedi principio ier l'altro alle mie lezioni con un discorso sul Naturalismo nella poesia italiana; e lavoro, quanto posso, nel Giobbe a cui do il succo migliore del mio cervello. Spero con esso finalmente avvicinarmi a quell'ideale, da cui mi par d'essere ancora cosi lontano, e poi mi vivo solitario come in una perpetua nostalgia.
Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem!
Addio, carissimo Onufrio, se io dovessi mai venire a Palermo la mia prima stretta di mano sarebbe per voi. Salutatemi gli egregi Paresce e Ragusa Moleti e ringraziatemi il primo della legnata che diede nell'ultimo Pensiero ed Arte sul groppone di quel cotale Bragaglia e dite all'altro che gli scrissi ier l'altro per ringraziarlo del Baudelaire. Abbiatemi intanto per vostro
M. Rapisardi
e gradite i saluti della Giselda.
Busta:   «All'Egregio Sig. Enrico Onufrio, Palermo».

6
Catania, 22 Dic. 80 
Carissimo Onufrio,
Fui invitato dal Ministero ad insegnare lett. ital. in codesta Università per quest'anno, in qualità di comandato.
Essendo già aperto il concorso a codesta cattedra, e non parendomi conveniente di tornarmene qui dopo d'essere stato un anno ad insegnare alla studentesca palermitana, che mi ha dato publiche prove di simpatia, né avendo ragioni di espormi ad un concorso ho creduto bene di rifiutare l'offerta. Spero che gli amici miei di costi, fra' quali voi siete primo, non abbiano a disapprovare questo mio rifiuto.
Vi stringe la mano
Il vostro Rapisardi.
Busta: «All'Egregio Sig. Enrico Onufrio, Palermo». La risposta dell'Onufrio, che qui segue, conferma l'accortezza del Rapisardi nel sottrarsi al « comando » palermitano : a Bernardino Zendrini, infatti, titolare di lettere italiane all'università di Palermo dal 1876 al 2 agosto 1879 (giorno della sua morte), succederà, nel 1881, Giovanni Mestica.

Carissime Signor Professore,
La Sua risposta fu quale conveniva alla Sua dignità che non deve ammettere, come non ha ammesso giammai   tra sazioni di sorta,
Lei non aveva bisogno di domandare il mio parere su tal riguardo.
Il Ministero le offerse l'incarico per un anno in questo Ateneo non per proprio impulso, bensì spinto da la stampa periodica e da le manifestazioni della scolaresca universitaria di qui, E Lei ha fatto bene a dire di no : o tutto, o nulla
S'immagini con quando dolore io Le dica codesto; in mancanza di meglio, io mi sarei contentato di averLa qui un anno. Ma la dignità anzi tutto.
E, sa nulla? Come del probabile successore di Zendrini ho già inteso profferire un nome: quello di un certo Mestica. Dico un certo, perchè non bastano le sue noiosissime prose a renderlo meno ignoto.
Mi dicono che cotesto Mestica sia un... ranalliano.
Insomma, di bene in meglio!
E ora non mi rimane che ringraziarLa dell'affetto e della stima che Lei nutre per me. Grazie, grazie infinite.
I miei ossequi a la Signora Giselda. Un abbraccio affettuosissimo dal suo
Enr. Onufrio

7
Carissimo Onufrio,
Catania, 21 aprile 81
Mi credo in dovere d'informare i miei amici di quanto è accaduto in questi ultimi giorni fra me e il sigr Carducci.
Nel N. 6 del Fanfulla domenicale costui ha parlato di un arcade cattivo soggetto etc. che stima lavori d'arte le proprie ribalderie etc. etc. Queste parole son sembrate a taluni allusive alla mia persona; ma finché il sigr Carducci non osava pronunziare il mio nome io non dovevo, per rispetto a me stesso, risentirmi dell'allusione. Ciò che non osò lui, l'osò un certo Luigi Lodi in uno scritto su Lorenzo Stecchetti stampato dallo Zanichelli. Egli parlando ingiuriosamente di me dice fra l'altro un arcade cattivo soggetto etc.
Mi son creduto in dovere di rivolgermi al sigr Carducci dicendogli : O dichiarate che non alludevate a me; o pubblicate i documenti che possano giustificare le vostre parole; o voi siete il più vigliacco e miserabile calunniatore. Risponde che alludeva a me; minaccia di tornare sull'argomento come e quando gli piacerà; dichiara ch'è una questione di morale letteraria e di buon gusto; e che non attende alle mie ingiurie. Tirandosi così in disparte, mi sguinzaglia contro un suo cagnotto, il sigr Luigi Lodi; il quale non contento d'avermi insultato in pubblico, mi scrive una lettera piena di sgrammaticature e d'ingiurie così plateali da fare arrossire un facchino di porto, e mi chiede una riparazione!!! non senza minaccia di venire fino a Catania a bastonarmi!!!
Come potete immaginare, io non posso, né devo raccogliere il fango che mi schizzano contro le zampe di cotesto mulo. Né mi meraviglia che ci siano uomini tali nel mondo; ma mi amareggia e mi sbigottisce il pensiero che le nostre lettere siano cadute in mano di questi masnadieri; e coloro che si strombazzano apostoli della morale letteraria, si valgano di cotal canaglia per sostenere il decoro dell'arte ed il proprio onore.
Mi vendicherò del Carducci fra poco, pubblicando un sonetto che lo schiaccerà, e di cui vi mando una copia; ma vorrei che la stampa onesta ed indipendente levasse la voce contro questi scandali e contro la condotta scellerata di un uomo stimato ed idolatrato da tutti coloro che non lo conoscono, stimabile per l'ingegno e per la dottrina, ma vituperevole pe'l carattere dell'animo.
Eccovi intanto il sonetto insieme ai più cordiali saluti
del vostro
Rapisardi.

Giosuè Carducci.
Testa irsuta, ampie spalle, ibrida e tozza 
Persona, in canin ceffo occhio porcino, 
Bocca che sente a un miglio il fiele e il vino, 
Se biasma, onora, quando loda, insozza.

Mevio da un soldo, Orazio da un quattrino, 
Che ad arte di mosaico i versi accozza; 
Or Cerbero, che i re squarta ed ingozza, 
Or di gonne regali umil lecchino.

Tal è costui, che la musa baldracca 
Sbuffando inchioda ed inquinando ammazza 
Sopra a latina prosodia bislacca.

La Fama, che con lui fornica in piazza, 
Posto il trombon fra l'una e l'altra lacca, 
Ai quattro venti il nome suo strombazza.
Mario Rapisardi.

8
Catania, 25 aprile 1881 
Carissimo Onufrio,
Avete ragione: non stamperò il sonetto, salvo che il sig. Carducci non mi voglia mettere proprio con le spalle al muro.
Nel Giobbe, ch'è lavoro d'arte sereno, non ci sarà posto per cotesti masnadieri.
Ricordatemi al Ragusa Moleti e prendetevi una paterna stretta di mano dal vostro
Mario Rapisardi
Biglietto da visita. Busta c. s.

9
Catania, 18 Febbr. [1883] 
Egregio Sig. Onufrio,
Bisogna ch'Ella chieda al Ministero di poter fare gli esami in questa Università. Se il Ministero non troverà difficoltà, questo Rettore sarà officialmente incaricato di proporre la commissione esaminatrice. Accettata la proposta, Ella manderà i suoi titoli al Rettore; e noi commissari faremo il resto.
Ringraziandola d'essersi ricordato di me e di porgermi l'occasione di provarle quanto la stimi, con tanti saluti le confermo
. aff.mo Rapisardi.

10
Di Catania, il 6 di Marzo [1883] 
Caro Sig. Onufrio,
Mi voglia anzi tutto scusare se non Le ho risposto subito, come avrei voluto e dovuto; ma creda, tanti impicci e fastìdi mi son capitati di questi giorni, che m'è stato impossibile.
Ho parlato di nuovo al Rettore il quale mi ha ripetuto ciò che mi aveva detto l'altra volta e che io Le scrissi: cioè, esser necessario ch'Ella mandi al Ministero i suoi titoli, dichiarando in quale università vorrebbe ella esporsi agli esami per la libera docenza. Il ministro potrà allora o convocare la facoltà letteraria dell'Università la Lei scelta, o rivolgersi al Consiglio Superiore perché esamini esso il valore dei suoi titoli.
Questo m'ha ripetuto il Rettore, ed io ho ragione di credere ch'egli s'intenda bene di queste cose.
Quanto a ciò che potrebbe fare questa facoltà nel caso che fosse chiamata a giudicare della opera di Lei non se nedia briga, perché essa tanto conosce il suo ufficio e i suoi doveri quanto io son certo di volerle bene.                             
Gradisca intanto i saluti e una stretta di mano
dal suo aff. Rapisardi.

11
[Cotanta, 2 maggio 1883] 
Caro Sig. Onufrio                                                                  
Mario Rapisardi
vi raccomanda l'editore Niccolò Giannotto, che vi porterà questo biglietto insieme con tanti saluti.
Biglietto da visita,  che non fu recapitato a mano:   la busta porta il bollo postale «Catania, 3-5-83».

12
Sta Maria di Gesù 26 luglio [1883] 
Carissimo Onufrio,
Ebbi i suoi titoli or è circa un mese; li conoscevo quasi tutti — li passai subito ai miei colleghi i quali pare non abbiano avuto ancora il tempo di leggerli. Fra' miei colleghi, tanto per saperlo, ci sono due canonici! Li ho sollecitati più volte; ma fanno i sordi. Non potrebbe scriver Lei una lettera al preside? Questo Le scrivo perché Ella non sospetti ch'io trascuri o faccia con troppo comodo i miei doveri d'ufficiale e d'amico.
Le stringo intanto la mano.
Suo Rapisardi.
Busta: «All'Egregio Sig. Enrico Onufrio, fermo posta, Napoli». Ecco una lettera precedente dell'Onufrio sul tema in parola :

Palermo, 11 giugno 1883 Caro Professore,
Il Ministero spedisce i miei titoli per la libera docenza (destinati a codesta Facoltà di Lettere) col solo indirizzo «Catania». Alla Posta di Catania viene aperto il plico, si constata che è roba mia, e si rimanda a me. Io, alla mia volta, oggi stesso, mando questi miei titoli vagabondi alla Facoltà di Lettere dell'Ateneo Catanese. Io mi auguro che il Ministero avrà mandati a codesta Facoltà qualche lettera esplicativa intorno a questi miei poveri titoli e all'uso che la Facoltà dovesse farne; ma caso mai questa lettera non esistesse, per carità, caro Professore, dica al Preside: — Non facciamoli più viaggiare codesti documenti, che hanno viaggiato abbastanza; attendiamo piuttosto spiegazioni dal Ministero —.
D'altronde al Preside oggi stesso ho mandato una lettera dove ho spiegato ogni cosa.
Io non Le chiedo scusa di queste mie seccature, ma l'autorizzo, in un Suo futuro poema, a inchiodarmi fra i tormentatori dell'umanità.                                Con affetto il Suo
Enr. Onufrio

13
Sta Maria di Gesù 7 Ott. 1883
Carissimo amico,
Le manderò il Giobbe nelle bozze di stampa, ma quando saremo agli ultimi fogli; ora, siamo appena al sesto e a leggerlo a pezzi e bocconi non ci proverebbe gusto né potrebbe formarsi un'idea esatta dell'intero. Farò questa eccezione per lei, che son certo non lo farà vedere ad anima nata: ella sa che si scrive piano fin d'ora la Balossardiana, e mi rincrescerebbe molto che il poema fosse veduto prima d'uscire in luce.
Sa che i miei amici, i pochissimi che mi son rimasti fedeli fra tante burrasche, intendono fare un giornale letterario di elementi in massima parte siciliani?  L'edit. del Giobbe ci
farebbe le spese, ricompensandoci dopo qualche mese di
prova. Non Le pare che sia tempo di farla finita co' camorristi
di tutte le gradazioni e le sfumature?
La sua collaborazione e quella dell'ottimo Ragusa Moleti non ci mancherà, ne son sicuro; anzi, guardi, porto la fiducia
a segno da non dubitare ch'Ella ci farà avere uno scritto entro il prossimo novembre: che il giornale al più tardi vedrebbe la luce in Dicembre. E qualche cosa ci manderà anche il Ragusa, a cui, per suo mezzo, mi rivolgo io e gli amici sin da ora, e al quale, se occorre, scriveremo direttamente; sebbene io creda che il gentile poeta non tenga molto alle formalità, e questo invito amichevole gli basti. Me lo ringrazi a ogni modo della poetica prosa su le tradizioni popolari, ch'ebbe la gentilezza di regalarmi; ed ella, egregio amico, s'abbia una cordiale stretta di mano dal suo
Rapisardi.

14
Sta. Maria di Gesù 13 Nov. [1883]
Perchè tante scuse e tanti complimenti, mio caro amico? Io son lieto quando posso esserle utile. Gli esperimenti sono tre come sa. Al più presto, in settimana, spero, farò adunare la commissione; e il tema da trattare in scritto Le sarà mandato officialmente. Non si muova ella dunque di costà; che per questa volta può risparmiarsi il fastidio di venire.
Tra quindici giorni le manderò le bozze dell'intero Giobbe. Addio, e voglia bene al suo
Biglietto da visita.
Rapisardi.

15
Sabato, 19 dicembre 1883 
Caro Onufrio,
Domani alle 11 a.m. si adunerà la commissione esaminatrice. Spero ch'Ella possa venire. In caso contrario ci avvisi. Biglietto da visita.

16
Sta. Maria di Gesù 
Caro ed egregio amico,                                        25 Dic. 83
Non ostante una terribile sventura che ha colpito il mio cuore, in momenti che avrei bisogno di coraggio e di calma, vi mando oggi i fogli del Giobbe, appagando cosi il desiderio vostro di averlo prima della publicazione. Fatene quell'uso che vi parrà migliore, ma non lo fate vedere ad anima viva. Addio, mio caro Onufrio; addio: l'animo mio è più forte della mia sventura, ma il mio corpo è debole e la salute vacilla.
Vostro Rapisardi.
La sventura rapisardiana del Natale 1883 consiste nella scoperta (mediante una lettera) della tresca fra la signora Giselda e Giovanni Verga : i due non solo tradivano la fiducia del marito e dell'amico, ma complottavano con gli autori della Balossardiana e gli altri nemici del Rapisardi contro di lui. Nel gennaio 1884 il poeta scrive ad Arturo Graf : « ho dovuto mandar via di casa la donna a cui avevo dato il mio nome e confidato la mia felicità»; e a Lida Gerracchini: «dalla lettera si rileva chiarissimamente la tresca durata e continua; e (lo crederebbe?) le pratiche fatte da costei per mezzo del suo amante perché essa entrasse nelle buone grazie dei miei amici... Cotesto individuo era andato a Roma, aveva trattato, combinato l'affare e, per tirarseli dalla loro (parole testuali della lettera) aveva confidato il loro secreto alla signora Serao ».

17
Sta. Maria di Gesù 
18 dell'84
Egregio Sig. Onufrio,
Le mandai, per sodisfare a un suo gentile desiderio, i fogli del Giobbe, non ancora publicato. Li ebbe? Il suo asso luto silenzio me ne fa dubitare. Mi scriva e mi abbia
per suo M. Rapisardi.
Ecco la risposta dell'Onufrio :
Palermo, 21 gennaio 1884 Carissimo amico,
Grazie della cortese premura. Ricevetti il « Giobbe » che sarà per me presto argomento di uno studio largo e coscen-zioso.
Riguardo, poi, al poeta del « Giobbe » vorrei sapere ch'egli ha riacquistato la completa serenità d'animo in seguito alla sventura, qualunque ella sia stata, che l'ha colpito.
Addio, anzi a rivederla. Verso la fine del mese manderò il mio scritto, e pregherò il preside della facoltà di far di tutto onde gli altri esami non si protraggano a lungo, ma, possibilmente, si facciano entro il mese di febbraio o al più tardi ai principi di marzo.
E' un desiderio che potrà essere facilmente appagato: non è vero?
Nuovamente addio. Con affetto inalterabile
Suo Enr. Onufrio

18 Sta. Maria di Gesù [30, gennaio 1884]
Dicendo che io non mi sarei mai insudiciato nella volgarità, voi avete detto il vero, mio caro Onufrio, avete mostrato di conoscere intimamente l'animo mio e d'apprezzare giustamente il mio carattere. Ed al carattere, sapete, io tengo molto più che all'ingegno e al sapere. Lasciate ch'io vi abbracci.
M. Rapisardi.
Biglietto da visita. Si fa riferimento ad una lettera indirizzata dall'Onufrio al «Giornale di Sicilia» di Palermo, 27 gennaio 1884.

19
Sta Maria di Gesù 10 Marzo [1884]
Egregio Amico,
O che razza di sospetti Le vengono in capo? Che io non Le abbia più scritto perché non mi sia piaciuto l'Orazio! Via, ne convenga, l'ha detto grossa. Non me Le son fatto vivo, mio caro, perchè my soul is dark, per dirla col Byron; oh, molto dark, gliel'assicuro. Scapperò al più presto da questo paese, dove molti mi vogliono bene, lo so, ma tutti si studiano diligentemente di non mostrarmelo; ed io, guardi umana debolezza, ho bisogno (da circa 3 mesi, ed ella sa perché) di sentirmi e di vedermi amato. E' strano che la cura tonica di disinganni non m'abbia ancora, guarito della scrofola sentimentale; e peccato, che il tempo, unica medicina infallibile, sia cosi lento a operare su' miei visceri. Ma tanto s'invec-chierà, se dio vuole!
La proposta della sua nomina fu fatta, e con uno splendidamente dal prof. Bruno, che vale un Perù. E al Giappone ci va? Prima di partire mi scriva un rigo. E se da quelle parti troverà una donna metastasianamente fida e costante, ne porti il seme in Europa. Altro che bachi da seta!
Addio, caro Onufrio, e voglia bene
al suo Rapisardi.
My soul is dark (La mia anima è affranta) è il titolo di una lirica di Byron (Hebrew Melodies, 1815).

20
Sta. Maria di Gesù 22 Maggio [1884] 
Egregio e caro sigr Onufrio,
Ho avuto la vostra lettera ed ho raccomandato al Bruno di rifare al più presto il verbale. Bastoni fra le gambe! Ma che ci si vuol fare? La colpa non è certo del vostro aff.
Rapisardi.

21
Sto Maria di Gesù 8 Agosto [1884] 
Caro Onufrio,
La seconda relazione, scritta dal Maugeri (la prima era del Bruno) ci è stata anch'essa rimandata indietro, con quanta mia sodisfazione, immaginatelo, avendola anch'io firmato per semplice deferenza al mio preside. Pazienza! Ne scriveremo un'altra, e questa volta ci metterò io lo zampino.
Voi intanto vi disponete a traversare un'altra volta l'oceano. Oh beato voi! La terra è così piccola e così noiosa!
Vi stringo la mano e vi abbraccio.
M. Rapisardi.
Busta: «All'egregio Sigr Enrico Onufrio, Hotel du Vesuve, Napoli ».

22
Sta. Maria di Gesù 10 Nov. [1884] 
Carissimo Onufrio,
Non può immaginare quante arrabbiature mi son prese per questa benedetta relazione del suo esame! Il Ministero, mi pare ch'ella lo sappia, la rimandò indietro la prima e la seconda volta; e fece benissimo, perché scritta co' piedi e pensata col sedere. Il Can. Bruno si prese la briga di rifarla, ma finora non ha trovato né il tempo né il modo né il verso di scriverla. Gli ho parlato, gli ho scritto, mi gli sono raccomandato, l'ho sollecitato in tutte le maniere, ma tutto è stato inutile.
Il Sig. A. Abate intanto, non ostante la mia astensione dal votare, è stato subito approvato, proposto, nominato: ché il merito d'avere scritto de' libelli infami contro di me non è di poco momento appresso a questi miei onorevoli colleghi. I quali al Minist., che del mio non votare si meravigliava, ebbero il tuppè di scrivere, a mia insaputa, che fra me e il sigr A. c'era stata una torte diatriba. Io che non m'ero mai fatto né in qua né in là a' morsi di questo ciuco idrofobo, non mi son degnato di spiegar la cosa al Minist., che il parlare e scrivere di certe miserie e parlarne a lei mi repugna tanto, che mi ci vuole ora tutto il bene ch'io voglio a lei e il dispiacere dì non aver potuto esserle utile in nessun modo, per farlene cenno in questa lettera.
Da questo ella capirà che io ho dovuto astenermi dallo stendere da me la relazione: che sarebbe parsa una parzialità, e questo sospetto avrebbe offeso la sua e la mia delicatezza.
Prima di rivolgersi al Minist. io Le consiglierei di scrivere quattro parole secche secche a questo Rettore, perché veda lui di finir la cosa prima ch'ella sia costretto d'informare il Ministero. Questa minaccia, farà forse effetto, che qui non si ha tanto amore alla giustizia e alla dignità propria, quanto si ha paura dei Superiori.
Gradisca intanto i miei rallegramenti per la sua racqui-stata sanità e mi creda sempre suo affmo
Rapisardi.
Busta:  «All'egregio Sig. Enrico Onufrio, Palermo».

23
Sta. Maria di Gesù 7 Dic. [1884] 
Carissimo Sig. Onufrio,
Sono ammalato da più d'un mese, e non so nulla di nulla... il Rettore non m'ha dato segno di vita.
Mi faccia un piacere: mi mandi al più presto che può un sunto non molto secco del suo scritto e della sua lezione; io metterò gli apprezzamenti e i giudizj, e poi piglierò per il collo questi signori e li farò firmare. Creda, sono indigna-tissimo.
Addio.
M. Rapisardi.
Busta :  « All'egregio Sig. Enrico Onufrio, Palermo ».


24
Sta. Maria di Gesù 18 Dic. 1884
Carissimo Onufrio, 
Ho scritto, fatto firmare e mandato la famosa relazione. Non sarebbe inutile ch'ella scrivesse al Minist. per sollecitare la nomina.
Le stringo la mano.
R.

di Gino Raya - ed.1960 - 800 inedito


lunedì 18 giugno 2018

Enrico Onufrio - Un dimenticato dell'ottocento Siciliano







UN   DIMENTICATO   DELL'800   SICILIANO 
1. Ventisette anni di vita

E' merito di M. E. Alaimo l'avere additato questo scrittore palermitano dell'Ottocento, sfuggito anche al Croce, ed aver assicurato alla Biblioteca Comunale di Palermo, da lei diretta, il suo prezioso carteggio. Che si tratti di un grande dimenticato, noi certamente non diremmo; ma d'un dimenticato senza l'aggettivo sì : ed è quanto basta per stimolare il dovere d'uno studioso.
I ventisette anni di vita di Enrico Onufrio (nacque a Palermo il 14 novembre 1858 e morì ad Erice il 28 settembre 1885) sono troppo brevi e tumultuosi per farci sperare in un'opera degna del suo ingegno. A diciannove anni, già lo troviamo a Milano fra lo scapigliato e il realista. Giusto in quell'epoca Angelo Sammaruga trasferiva la sua Farfalla da Cagliari a Milano, e cercava un socio per dividere la direzione, la proprietà e soprattutto i debiti del giornale: l'impulsivo Enrico era il tipo indicato.
La doppia direzione della Farfalla cominciò nel dicembre 1877, e fu un inverno attivissimo per l'Onufrio. Scriveva, voleva far l'editore stampando un romanzo del Dossi, promoveva banchetti per i Cavallotti e gli Arrighi, faceva lunghe passeggiate notturne con Giovanni Verga. Con tutto ciò, nel marzo '78 non è più a Milano, è in Grecia.
L'insurrezione dell'Erzegovina contro i Turchi lo esalta, gli suscita versi guerrieri che son presi in celia da qualche amico. Da siciliano e da poeta, Enrico paga di persona, si precipita a Brindisi, salpa per Corfù, partecipa ad una operazione infelice sulle coste epirote, né trascura qualche corrispondenza giornalistica.
Sospese le ostilità, il nostro si reca a Palermo, dove intensifica la sua produzione e preparazione letteraria. Nel settembre '78 esce Momenti, una sua raccolta di liriche fra il Musset di Rolla («Mamma, noi siam corrosi dal vizio e dalla noia») e il Rapisardi ribelle (« trovare una fanciulla...

E ai suoi piedi deponere, ancor caldo e fumante, Il core dispregevole dell'ultimo birbante, Quel dell'ultimo re! »).

Qualche frecciata anti-carducciana, e un articolo elogiativo per il Rapisardi, stimolano la simpatia del vate etneo, che procura all'Onufrio la libera docenza in letteratura italiana all'Università di Catania. Il diploma, dopo molte lungaggini, fu rilasciato il 3 gennaio 1885, ultimo anno che la tisi concesse ad Enrico.

Eliminati, dunque, i versi e gli scritti d'occasione, che cosa varrebbe la pena di leggere, ancora, dell'Onufrio? Due suoi scritti di prosa del 1882: La conca d'oro e La spugna d'Apelle; e un romanzo del 1885 : L'ultimo borghese.

2. « La conca d'oro »

La conca d'oro, pubblicata dal Treves per il sesto centenario dei Vespri, si presenta, modestamente, come un « Guida pratica di Palermo», divisa in quattro parti (La città, La vita, I monumenti, I dintorni). In verità, eccezion fatta per il Museo, del quale vien riprodotto un secco inventario, un po' tutta la materia viene rielaborata dall'autore, con tocco svelto ma incisivo, con affetto che non fa velo alla verità, con dosatura perfetta fra notizie e impressioni, paesaggi e psicologia, storia e folklore. Il tono costante non è quello di una comune guida turistica, sì d'un giornalista consumato; e a un giornalista, talvolta, che sa alzarsi a scrittore. L'accento sociale, benché caro all'Onufrio, evita le Grazie petroliere delle sue poesie da diciannovenne, e traspira moderatamente dalle pennellate sull'Albergheria o il Foro Italico. I cortili dell'una «son quelli stessi che gli arabi abitavano nove secoli addietro; ma quante miserie, quanti dolori essi nascondono, nonostante le loro fontane ricche di pregi »... Sulla spiaggia dell'altro, « i pescatori neri e seminudi, asciugano o intessano le reti; o accoccolati sulle gambe, con la pipa in bocca, a testa bassa, ciarlano formando un circolo, o, distesi a terra, dormono profondamente con la fronte al sole ».
La sicurezza del colore trionfa a proposito della Vucciria: «Mille odori nauseabondi t'ammorbano il naso; mille voci, alte e fioche, t'intronano le orecchie. Il selciato è sparso di pozze e di rigagnoli »...
Col colore, il calore dell'anima isolana. Oggi non si entra più con dieci centesimi ai Teatri di marionette; ma si può ancora controllare il pubblico osservato dall'Onufrio:
« conversazioni animatissime : si condanna il traditore Gano di Maganza, si suggerisce quale avrebbe dovuto essere il suo modo di procedere, si discute se Orlando è più valoroso di Rinaldo o viceversa, si fanno delle accurate indagini intorno alle virtù del corno di Astolfo; e tutto ciò con la massima serietà, col più profondo convincimento, mentre il rosticciaio e l'acquaiolo van girando fra le sedie vendendo le bruciate e l'acqua fresca ».
Né sono ancora del tutto scomparse feste pasquali di questo genere :
«il mercoledì santo in qualche chiesa si celebra quella cena famosa in cui Cristo accenna ad un traditore fra i suoi apostoli. E gli ' apostoli ci sono tutti e dodici e c'è Cristo in mezzo a loro. E' una bellezza a sentire, fra un boccone e l'altro, quei loro dialoghi, giacché i seguaci del gran Nazareno, e il Nazareno medesimo sono tutt'altro che dei fior di letterati; sicché parlano una specie di dialetto che essi credono di rendere pulito ed elegante a furia di stramberie linguistiche, e lo parlano con la massima serietà, sollevandosi all'altezza della situazione. Ma se assisterai a qualcuno di cotesti spettacoli, e sarai assalito da una gran voglia di ridere, procura di uscir dalla chiesa; se no Cristo medesimo, che in fin dei conti è un popolano della più bell'acqua, si alzerebbe dal suo posto per consegnarti una coltellata ».
L'oggettività della scena non toglie che l'autore sorrida sotto i baffi dei riti religiosi; ma il sorriso, alla sua volta viene non di rado assorbito dalla suggestione folkloristica :
« il nostro ciaramiddaru va girando lentamente per le viuzze e i cortili, e trae dietro a sé tutta la gente al suono della sua cornamusa: un suono dolcissimo e mesto, che sembra qualche volta un lamento e pare che ridesti nell'animo gli echi di lunghi dolori e di lontane angosce ».
Il nostro, infine, ha concetti criticamente precisi, ma tradotti in parlanti quadretti. Se dicesse che Cuba o la Zisa o San Giovanni degli Eremiti sono « costruzioni di gusto esclusivamente arabo, quantunque innalzate sotto i Normanni » nessuno gli presterebbe attenzione. Ma la capacità evocativa dell'Onufrio avvince la nostra immaginazione :
« Quel San Giovanni, con quelle sue cinque cupolette emisferiche, non è un tempio cattolico, è una moschea. Da qualcuna delle finestre sottostanti al cupolino della torricella ti sembra che da un momento all'altro debba affacciarsi il muezzin ad annunciare la preghiera. Là, nella calma dove sorge il tempio, tu subisci a poco a poco il fascino dell'Oriente: vedi spiegarsi sui tronchi diritti i robusti pennacchi delle palme; vedi nella lontananza azzurra disegnarsi il profilo gibboso del dromedario; senti languire nell'aria tranquilla e tiepida la cantilena del beduino ».

3.   « La spugna d'Apelle »

Intorno alla festa di Santa Rosalia, patrona di Palermo, l'Onufrio rimanda ad un suo articolo pubblicato nella Nuova Antologia dell'anno precedente. Lo ritroviamo tra i racconti della Spugna d'Apelle, a modo d'una inchiesta giornalistica divisa in quattro paragrafi (la leggenda, il santuario, le ossa, il festino). Parte culminante, la peste di Palermo del 1624, durante la quale la cittadinanza porta in processione ora sant'Agata, ora santa Cristina, esalta santa Ninfa e santa Oliva, disillusa si volge a san Rocco, poi che questo « ta orecchie da mercante » implora san Sebastiano; beatificato il padre Andrea d'Avellino, « coglie la palla al balzo » ed elegge anche padre Andrea protettore della città; e così via, in una ridda travolgente di compassione e superstizione, finché si crea il mito delle ossa ritrovate di santa Rosalia. Chi ricerca le pesti illustri di tutte le letterature, scriva ancor questa, ch'è forse il saggio migliore dell'Onufrio.
L'inventiva a tutto tondo non è fatta per lui: la sua Spugna d'Apelle, « tutta intrisa di diversi colori », è senz'altro preferibile ai versi, ma non fonde in impasto omogeneo quelle diverse tinte romantiche e realistiche: non si salva che il colore del bozzetto parlermitano, cui abbiamo accennato.
Leggiamo, ad apertura di libro :
« La mia finestra sporgeva in un vicoletto cielo, lungo e sudicio, che si smarriva, come un budello, tra due file di case. Durante il giorno, quand'ero stanco di sgobbare sui libri, m'affacciavo qualche volta sul davanzale, e, con la pipa in bocca, stavo a sentire le ciarle delle comari. Povere donne! Quando un po' di sole riusciva a guizzare su quella straducola, esse rimanevano per lunghe ore aggruppate al calduccio, felici nella loro miseria. Passavano il tempo facendo la calza, spidocchiando o allattando i bimbi, ciarlando di mille cose. E i loro cenci brillavano più del solito con quella matta allegria di raggi; e la fanghiglia del selciato, l'umidore delle mura, i cani secchi e allampanati vagabondi di soglia in soglia, i gatti magri di amore e di fame, tutto pareva scaldarsi sotto quella striscia di cielo che scorgevasi su gli altri oggetti. Ma lo spettacolo era ben triste, sapete! Quelle donne allattavano i bimbi, ma erano poppe magre e vizze che porgevano a rachitica prole; e, quand'esse si chinavano su i loro pargoletti, ohimè!, erano baci fetidi di cipolla, che scoccavano su quelle fronti ingrommate di scrofola » (La gastima).

Si vede subito la mossa zoliana, mossa che coincide con l'orientamento sociale proprio dell'Onufrio, di viva simpatia per le classi umili. Ma l'oratoria populista, alla sua volta, si sposa ad un abito di commiserazione romantica, che inceppa il discorso. Dopo il complesso felice del primo periodo, ecco l'autore — stanco dalle sudate carte — affacciarsi sul davanzale; e dunque lo stacco fra lo scrittore e le cose, e quella leggera aria di condiscendenza, che i primi ottocentisti ostentavano quando dovevano trattare temi plebei. Il «povere donne» annunzia le esclamazioni seguenti, i sapete! e gli ohimè! di assoluta inconsistenza creativa. Il sole che guizza sulla straducola rinvigorisce la scena, la quale, però, finisce in una frase di maniera: «felici nella loro miseria». Il resto alterna la nitidezza della scena con una compassione piuttosto ostentata (« ma eran poppe magre e vizze che porgevano »...) e persino con un arcadico pargoletti.
Come questo capoverso, così tutto il libretto sembra un fiumicello incerto e accidentato, che tuttavia raggiunge il suo mare e in definitiva il suo volto. Gl'intoppi dello stile e degli atteggiamenti, dopo quanto s'è detto, potrebbero avere una lunga quanto superflua enumerazione. Lo stesso bozzetto della Gastima culmina nell'imprecazione contro Dio (« Se non aiutate noialtri che stiamo così in basso, voi siete un infame! ») da parte d'una «donna discinta e scalza, nella bionda gloria delle sue chiome sparse, ginocchioni sul lastrico » ecc. Quella bionda gloria è peggio d'un pugno nell'occhio. La terra dei Feaci, il secondo bozzetto, contiene, in una stessa pagina, fiorentinerie del tutto estranee al gusto del nostro. « La si può dire una donna di mondo »...; « l'era per me una festa »... E Gl'incerti del mestiere (l'ultimo) si trascina in maniera troppo fiacca, eccezion fatta per la scena conclusiva del duello, per dirsi veramente leggibile.
Lo stile, tuttavia, non è una vana parola per l'Onufrio. I lunedì della contessa ne danno forse la misura più sorvegliata. Ecco, dapprima, una descrizione volutamente pigra del palazzo De Griseis, dei suoi ospiti, del salotto e persino dei dipinti stile impero, che meritano una trascrizione :
« L'artista dipinse della Grazie ignude, delle ninfe fuggenti al furore dei satiri, e sirene e nereidi cullate dall'onda azzurrina; né dimenticò il giudizio di Paride, né le scappatelle di Giove, quand'egli, candidissimo cigno, sedusse Leda nelle acque tranquille dell'Eurota, o quando, toro furioso, involò sul suo dorso la figliola di Fenice, leggiadramente smarrita ».

La voluta del periodo seconda e canzona l'ellenismo bastardo dell'età canoviana, e incornicia — soprattutto — la falsità dell'attuale ambiente, la quale esplode nell'episodio del contino che travolge sotto le ruote del suo phaéton il figlioletto della popolana da lui sedotta mentre gli gridava, con le braccia aperte : papà... Da qui all'offerta di cinquanta franchi da parte della contessa alla popolana, il cui rifiuto scandalizza gli ospiti del salotto, o alla frecciata finale che fa della contessa la presidente della Società protettrice degli animali, la finezza evocativa scivola nell'oratoria sociale.
      Dove, invece, manca per l'Onufrio la tentazione ad ingrossar la voce, è negli argomenti religiosi, in quanto radicati nell'anima popolare; ché — amando questa — egli può canzonare, ma non disprezzare quelli. Tale disposizione si traduce in quadretti deliziosi, quasi sempre immuni da stonature passionali. Viva la Madonna! respira l'ambiente ver-ghiano di guerra di santi, e disegna con piena simpatia un vecchio ciabattino organizzatore disinteressato e zelante della festa. Un passo sulla banda potrebbe dirsi esemplare, anche per i costumi odierni.
« Ed ecco apparire la banda, fitta, serrata, in ordine. Sono dieci bravi giovanotti, forti e robusti che è un piacere a vederli, e soffiano, soffiano nei loro strumenti con quanto fiato hanno in corpo. La gran cassa brontola come un temporale; squillano sonoramente le trombe; rulla il tamburo; tintinnano i piatti; il flauto manda gorgheggi d'usignolo; il clarinetto ha lo stridìo d'un'anitra nell'acqua; il bombardino russa come un gigante addormentato. Oh, la bella, la lieta fanfara! ». E la folla, da Lisa innamorata d'un suonatore alla comare d'un cortile rivale, dalle zuffe agli applausi, dalle invocazioni di miracoli alle dense pennellate sulla stanchezza finale, è veramente parlante, una e diversa.

4.  Altri racconti

Alle novelle della Spugna d'Apelle si aggregano, idealmente, quelle pubblicate in periodici vari e non raccolte in volume. In 14 appendici del «Capitan Fracassa» dell'ottobre 1882 uscì, per esempio, L'adultera del cielo, «scene indiane del XII secolo av. Cristo ». Questa Sahagianma lascivetta è un po' il limite delle concessioni dell'Onufrio ai gusti della platea; ma la sua indole anticlericale traspare, invece, e con un certo impegno, nell'asceta Arhat, il quale persuade il marito a farsi sostituire dal fratello nel talamo coniugale scopo di assicurarsi la prole. Il poveraccio consente, ma non regge alla vista di quei «due corpi ignudi, spasimanti d'a more», e li pugnala senz'altro. La sua anima, perciò  piom berà «nel tetro naraca, dove impera Yama, il dio terribile e malvagio » :  e con questa pennellata finale di colore locale par di sentire un respiro di sollievo per un impaccio superato alla meno peggio.
La  morte  di Francesco  Pecora,  dell'anno  seguente   è molto significativa per l'impaccio stilistico del nostro (e di quanti suoi contemporanei?). Il Pecora è un « masnadiero » che assale Torretta, nel palermitano, in odio del conte Guglielmo, che un giorno lo aveva schiaffeggiato. Impostazione a tinte forti e plebee, ma che non sa fare a meno d'un classico ricordo: il brigante che s'aggira minaccioso attorno al vallo pareva, nientemeno,  «Turno rutulo, quale il descrive Virgilio, aggirantesi intorno al campo di Enea, e chiamante alle armi, con aspre offese, i futuri latini ». E quanta convenzionalità  nelle figure!   Il  conte  ha  la   «lunga  barba  candida fluente sul petto,  con la posa del vinto  che non rinuncia all'antica fierezza»; sua figlia Gemma è una «fanciulla ventenne dalle forme statuarie, dalle pupille nere e languidissime, dai leggiadri pallori ». Quando il brigante allunga la mano verso Gemma, il conte lo colpisce « al ventre, sotto il giustacuore»;   e  l'ultima  pennellata   scandisce   tale  sforzo, che dà un senso di pena : « Un raggio di sole, penetrando da un'alta ogiva, guizzò su quel volto bruttissimo di agonizzante, e ne illuminò la rude cicatrice infiammata ed i grigi e irti mostacci ».

5.   «L'ultimo borghese»

Chi, un giorno, volesse ristampare il meglio dell'Onufrio, potrebbe scartare senza rimorso racconti come questi due del «Capitan Fracassa», ma dovrebbe accogliere molte pagine della Conca d'oro e della Spugna d'Apelle e, per intero, L'ultimo borghese, sia perché un romanzo si presta meno all'opera antologica, sia perché si tratta del maggiore sforzo narrativo del nostro. Quelle cinquantacinque puntate del « Giornale di Sicilia » del 1885, che lo stesso Enrico ritagliava e costellava di correzioni man mano che uscivano, fino all'ultima che precedette di poco la sua morte, sprigionano una muta implorazione per riunirsi in volume.



L'ultimo borghese è un giovane, Luciano Rambaldi, capace di qualche fiammata generosa, ma infiacchito dalle abitudini signorili, dallo scetticismo, dalla società: perciò affronta un duello per una cavallerizza, tradisce l'ingenua Rosa per una signora tedesca, diventa deputato senza convinzione, sposa Rosa che incontra per caso mentre la poveretta chiede l'elemosina, comincia a tradirla di nuovo in Roma « bizantina », finché un giorno, alla Camera, soffocato dalla nausea parlamentare, improvvisa un discorso contro la borghesia («casta come qualunque altra: essa ebbe un principio e avrà una fine »), che deve interrompere per una emottisi mortale : gli si era riaperta la ferita al polmone, ricevuta in duello sette anni prima.
Che il protagonista impersoni la borghesia, è un'ambizione superiore alle forze dello scrittore. Che la fine di Luciano anticipi di poco quella di Enrico, è cosa toccante, ma anch'essa di scarso peso per valutare il romanzo. Il quale si raccomanda per motivi più limitati, ma concreti : la misura dell'impostazione, la freschezza dell'idillio, la precisione di tanti particolari. L'Onufrio, pur sfiorando in Luciano il tipo byroniano, lo sgonfia talmente delle consuete affettazioni e turgidezze da avvicinarlo, se mai, ad un tipo tutto opposto e ben più moderno, ch'è quello dell'abulico. Altro tipo romantico — quello della divina fanciulla — fa capolino in Rosa : « Rosa era un angelo, un angelo bello, un angelo buono, tutta amore, tutta candore »; ma questa reminiscenza valga ad indicare non ciò che l'Onufrio ha fatto di Rosa, ma ciò ch'egli ha saputo evitare. E la donna fatale, finalmente, che fa capolino in Ester, si dimensiona nella visita alle miniere di Girgenti e nei maneggi perché l'amante venga eletto deputato.
Delle due parti in cui è diviso il romanzo, eccelle la prima. Lo sboccio dell'idillio fra Luciano e Rosa affronta con mano felice la trasformazione della fanciulla in innamorata e avvolge i due giovani in un alone passionale, senz'ombra di lubricità. La maniera (e precisamente una maniera alla Tigre reale) subentra, ma sempre con discrezione, nell'amore fra Luciano ed Ester.
Ma dovunque le figure minori balzano con evidenza e intonazione: dall'impiegato che comunica alla moglie e alla madre di Francesco Rambaldi la crudele morte di questo, al frate sonnambulo; da mamma Caterina a donna Peppina l'usuraia; dai minatori ai parassiti elettorali. E tocchi paesistici — sobri, sicuri, suggestivi — completano l'impressione d'un giovane tutt'altro che povero di qualità narrative : d'un giovane che, se non poté lasciarci quanto la sua indole sicuramente prometteva, rimane tuttavia degnissimo del nome di scrittore. Tra il saggista e il giornalista, l'O. sa tradurre le proprie osservazioni e i propri sentimenti in pagine pertinenti e comunicative; da narratore, non si estranea dal suo mondo morale né dai problemi del tempo suo, imposta e distribuisce la trama con mano sicura, gioca la sua carta letteraria senza barare con quella politica o pornografica.

di Gino Raya - ed.1960

6. Nota bibliografica

a) Scritti di Enrico Onofrio

1)  Checchina. - Uno scherzo  al marito, racconti siciliani, Tip.  de « L'avvenire di Sardegna », Cagliari, 1877.
2)  Le formule del Bello e dell'Arte, Palermo, Losnaider, 1877.
3)  Barbarie, Palermo, Gaudiano, 1877.
4)  Momenti, Palermo, Gaudiano, 1878.
5)  Metrica e poesia, Palermo, 1878.
6)  Albatro, versi,  Roma, Sommaruga,  1882.
7)  P. Vergilius Maro, Palermo, Losnaider, 1882.
8)  La conca d'oro, Guida pratica di Palermo, Milano, Treves, 1882.
9)  La spugna d'Apelle, Milano, Quadrio, 1882.
10)  L'adultera del cielo, novella indiana del XII secolo a. C, in 14 appendici del « Capitan Fracassa », Roma, dal 7 al 23 ott.  188-.
11)  La morie di Francesco Pecora, ivi, 24 giugno 1883.
12)  Altri scritti nel « Cap. Frac. » : l piccoli poemi del mare, 30 sett. 1883 (sottotitoli: L'addio, Il battesimo dell'oceano, La danza dei diavoli, Amici ignoti, Sgomento; riproduzione nel «Progresso italo-americano», 16 ott. 1883); I suoi capelli!, 9 nov. 1883.
13)  Scritti in «Cronaca bizantina», Roma: Marta, 30 giugno 1881; In grembo a San Francesco, 1 giugno 1883.
14)  Il sentimento della natura nel Poliziano, Palermo, Sandron, 1884.
15)  L'ultimo borghese, app. del « Giornale di Sicilia », Palermo, 1885.
16)  Guida di Palermo e dintorni, Palermo, Sandron, 1886.

b) Scritti su Enrico Onufrio

17)  G. Pipitone-Federico, Saggi di letteratura italiana contemporanea, II serie, Palermo, Pedone-Lauriel, 1888, pp. 433-455 (riproduce un articolo pubbl. nel « Giornale di Sicilia » nell'ottobre 1886, primo anniversario della morte di E. O.).
18)  M. E. Alaimo, Avanguardismo letterario dell'800, « Giornale di Sicilia », Palermo, 4 gennaio 1950.
19)  Gino Raya, Il Romanzo, Milano, F. Vallardi, 1950, cap. IX, 3.
20)  Giuseppe Squarciapino, Roma bizantina, Tor., Einaudi, 1950.
21)  M. E. Alaimo, Malumori anticarducciani e spigolature rapisar-diane inedite, « Letterature moderne », Milano, sett.-ott. 1953.
22)  Gino Raya, Quattro lettere inedite di G. Verga a E. O., « Letterature moderne », Bologna, luglio-ag. 1957.
23)  M. E. Alaimo, Presenza della Sicilia nelle battaglie letterarie della terza Italia, « Politica e cultura », gennaio 1958.
24)  Id., Palermo ignora E. O. « Giornale di Sicilia », 23 nov. 1958.

DUE  LETTERE  AI  GENITORI 
Raya, 800 inedito

Della scarsa corrispondenza rimastaci fra Enrico Onufrio e la famiglia, scegliamo le due seguenti cartoline dei suoi vent'anni, dedicate: la prima al padre, da Milano; la seconda, alla madre, da Corfù. Si tratta, dunque, dei due primi voli : a Milano, con le sue cene artistiche; e in Grecia, dove l'impulso dell'eroe romantico in parte si mescola, in parte si nasconde per pudore da smaliziato, in «affari di giornale». Toccante, in entrambe le paginette, l'amore per i genitori, cui Enrico dà del lei come usava allora, e che vuol  convincere, soprattutto, della sua «salute di ferro», ben conoscendo il punto di maggiore preoccupazione per quelli.
Trascriviamo integralmente. L'indirizzo di entrambe le cartoline è «Al signor Andrea Onufrio, Palermo, 80, via del Celso»; la data si rileva dal bollo postale.
1
Carissimo papà                             Milano 21 dicembre 1877
Fa freddo, ma io sto benissimo. Non soffro niente affatto, anzi vo sempre più migliorando in salute. Domani sera ci sarà una cena artistica promossa dalla Farfalla — a cui prenderanno parte romanzieri, giornalisti, musicisti, ecc. Basta nominare Verga, Auteri {l'autore della Dolores), Righetti, Scontrino, Franconi, Cavallotti ecc. ecc. Sarà un avvenimento. Daremo un resoconto sulla Farfalla. Ciò ci farà immensamente réclame.
L'abbraccio caramente insieme alla mamma, Totò ed Elvira. Abbraccio tutti. Saluto i parenti.
Enrico
2
Corfù, 2 marzo 1878 Carissima mamma
Speditami da Milano ricevetti la sua carissima lettera. Mi son dovuto fermare per affari di giornale altri pochi giorni a Corfù. Dopodimani mi recherò ad Atene. Spero fra un mese, al più tardi fra quaranta giorni, d'essere a Palermo. Conservi dunque il suo cuore di pasta reale, che lo mangeremo insieme. Io sto benissimo, anzi godo una salute di ferro. L'abbraccio caramente insieme al papà, Totò ed Elvira.
Abbraccio la nonna, le sue sorelle, la zia Carmela, lo zio Turillo, lo zio Nino, ecc.
Suo Enrico

sabato 28 gennaio 2017

EMILIO PRAGA



Povero Praga! Oggi si fa ancora del chiasso attorno alla sua tomba, si agitano i campanellini e si battono le mani al richiamo della sua memoria e si tenta di soffocare, coll'applauso, l'ultima bestemmia che potrebbe uscir di sotterra. A lui vivo si porse il tributo dell'imprecazione e della calunnia — la sua anima fu punzecchiata a colpi di spillo — furono derisi i suoi affetti — fu inzaccherata di fango la sua aureola di poeta. Gli uomini seri si degnarono financo di sputare nella sua ultima  tazza   d'assenzio.
Ma al giorno d'oggi il vento spira cattivo per tutti coloro che in arte adoperano la squadra e il compasso e hanno il cuore imbottito di lardo e le vene ricolme di siero — per tutti coloro che vanno a passo di lumaca; col capo chino,  per non inciampare nei sassi — e domandano alla maggioranza dei grulli la casacca ad usum delfhini - e misurano co lo sguardo il cammino prima d'andare innanzi - e accostano di continuo al naso una boccettina d'essenze per non venir meno lungo la via. 



Al giorno d'oggi la bohème letteraria ha presa la sua rivincita; essa è rientrata nel mondo a tamburo battente e a bandiere spiegate — può spendere due soldi per tenere gli stivali inverniciati e venti lire per portare un cappello nuovo — è ammessa nei ginecei — rispettata dai parrucconi — applaudita dalla folla — e man mano va conquistando la posizione coi suoi volumi in elzevir.
Povero Praga! Anch'egli lo voleva il suo volume civettuolo ed elegante; e, parlandone cogli amici, non sapeva esprimersi bene e muoveva le mani come se accarezzasse una statuetta greca. Quasi quasi egli presentiva questa piccola rivoluzione in elzevir!

Nondimeno non c'è ancora da fare molte illusioni. La mia divagazione un po' azzurra sulla nuova èra che si va schiudendo per l'arte, serva di conforto ma non accenda troppo la fantasia di coloro che fanno presto a correre in groppa a mille seducenti chimere. La Bohème è eterna e nel suo grembo si ascondono e si asconderanno sempre i disillusi e gl'impotenti — coloro a cui manca il terreno sotto i piedi, quegli altri che tentano invano di strappare una scintilla dal cervello insugherito. La posa qualche volta soffoca in sul nascere dei giovani  ingegni che sognano il poema o il romanzo dai banchi del liceo. La posa spessissimo apre delle vie che hanno la funesta attrazione dell'abisso. E allora al poeta, al pittore, al musicista sfuggono il ritmo, il colorito e l'armonia e i loro pretesi capolavori fanno ridere la  gente!
Questa benedetta posa che noi rimproveriamo acerbamente ai droghieri arricchiti e ai farabutti in guanti gialli lasciamola stare al posto che merita. L'arte scevra d'artificio e di convenzionalismo e i suoi militi devono avere per essa un culto sincero, senza quei fronzoli che luccicano al sole ma che poi in sostanza sono calta dorata. Preferisco il calice di legno dei primi papi che celebravano la messa nelle catacombe, ai calici tempestati di gemme della basilica vaticana. Il povero Praga che beveva dell'assenzio e bestemmiava alla vita, sapeva scrivere anche il Canzoniere del bimbo e le Memorie del presbiterio. Quel tipo d'angelo avvizzito non osò mai far tacere nell'animo quelle note d'affetto che bastano a caratterizzare i suoi sentimenti e i suoi ideali da  tanti bistrattati.
Nei suoi versi infatti s'indovina l'uomo insieme al poeta. È proprio una rivelazione quella sua lirica spontanea senza veli e senza ipocrisie. Una rivelazione di patimenti e d'angosce, di gioie e di desideri — uno strano e confuso miscuglio di risate e di lacrime, di bestemmie disperate e di sogghigni beffardi — una musica stupenda che colpisce il pensiero e penetra nel cuore. Nei versi del Praga c'è l'arte e c'è la vita — quella folla di pensieri che albergarono nel cervello del cantore di Bella e di Serafina, quante volte hanno albergato nel nostro  e lo hanno  vellicato  come la ca rezza  d una  mano gentile  o lo  hanno sconvolto  come le  chiome  d un  bosco  fra  cui sibila il vento!

È proprio di certi uomini il far vibrare tutte le corde dei sentimenti — di quegli uomini che s'avventano alla vita baldi e speranzosi, pieni di cuore, d'ingegno e di fede, e che della vita vogliono assaporare le ebbrezze senza i dolori, e della gloria i trionfi senza gl'inciampi, e dell'arte i fascini senza gl'insulti e le amarezze — e vogliono andare innanzi, colla fronte sempre alta e la pupilla sempre gaia — e ad ogni difficoltà si turbano e cadono nell'affanno e si afferrano ad ogni oggetto colla disperazione del naufrago e giungono al termine della loro carriera moralmente suicidi, fisicamente affranti — se per caso un lembo di cielo si scopre al loro sguardo, esso lo salutano come l'ubbriaco che vede spuntar l'aurora, dopo aver passata la notte nell'orgia.  Ma oramai del Praga non rimane che l'artista. Non turbiamo più la pace di quel povero morto. Noi sappiamo anche di Praga che bordellava avvinazzato a notte; ma sappiamo anche di Praga che si fa prestare da un amico due lire per regalarle ad una povera mendicante affamata e tremante di freddo assieme a due figliuoletti. Noi sappiamo di Praga che parlava di suo figlio coll'entusiasmo febbrile di una giovane sposa — noi sappiamo di Praga che sognava perennemente una casetta  in campagna,  mezzo nascosta tra gli alberi ed allietata da primavere e da canzoni. Sicché nelle Trasparenze, insieme allo scetticismo che ribocca da una Camera ammobiliata, insieme all'acre voluttà che spirano i versi Alla Sultana, insieme al mezzo cinismo delle Veglie, abbiamo anche In Pace, Il bimbo malato, A Enrico Iunk. È proprio allora che si manifestava un altro Praga; il Praga che amava i bambini, la pace, il cielo sereno, i vecchierelli, la campagna, la solitudine, tutto  quanto  possiede  il  fascino  del  puro  ideale.

Amo   sedermi,   quando   spunta   il  sole
Fra queste blande  aiuole,
Nel   silenzio   infinito.
Nella  pace  profonda
Che  il buio  orbe  circonda.

E nel Bimbo malato

Bimbo,  non  tossir più!   Son  tanti e  tanti
Gli error di questa vita!
Perché farmi tremar come un pusillo?
Dormi, guarisci, la coltre è pulita,
Tepida   è  l'aura   e   tutto   è  pace   intorno...
Sai che per te vo' comperar domani
Un famoso  gingillo?

La poesia A Enrico Iunk è una delle più belle delle Trasparenze :

Della  città, madre d'inganni e toschi
Sei stanco, amico, e aneli ai verdi boschi
E a un pò d'acqua corrente;

A  un po'  d'acqua corrente in cui si specchia 
La   ricciuta   fanciulla oppur la vecchia 
che  ti   guarda  ridente.

Aneli   alla  mestizia  solitaria 
Per   cui   l'arte   respira   insieme   coll'aria 
Coll'aria  imbalsamata!

Vuoi della vita frivola l'oblio 
E da lontan già senti il brulichio 
Di un'allegra borgata!

Di  una  borgata  allegra  e faccendiera 
Dove   si   ciarla   da   mattina  a  sera 
Di   cento   mila   cose;

Dove  a  ogni  angol di  muro  il sol rischiara 
O  ombreggia  qualche imaginetta  cara: 
O   bimbi,   o   cenci,   o   rose.

Dove il paffuto oslier li accoglie umano, 
E la   cuoca  stringendoti la  mano, 
Par  che  un bacio  ti  scocchi.

Dove ti sveglia all'alba il bue che mugge 
O la  giovenca,  che il figlio che sugge 
Contempla   coi   grandi  occhi.

Questo Praga, ch'è sì buono e sì affettuoso, non insultatelo, per dio!   e s'egli dice

quest'etica Musa 
Che  m'apparve  matrona ed era ganza, 
Che   il  poema  promise ed ora  ricusa 
Perfino   una   romanza.

lasciatelo bestemmiare senza arricciare il naso. Povero giovane, non aveva torto!

Come dissi più sopra, si giudichi l'artista — l'uomo si lasci in pace. Quella pace ch'egli sospirava nei suoi versi, l'ottenne là, nel cimitero di Porta Magenta, dov'egli in vita, soleva spesso recarsi insieme a Tarchetti, l'instancabile visitatore di tombe. — Lasciatelo in pace; egli nemmeno vi disturba più coll'incomodarvi a leggere un solo rigo d'epitaffio. Sulla sua fossa non si legge neppure il suo nome e cognome. Vi è solo incastrata una croce di ferro — il lugubre simbolo della sua vita che lo perseguita fin laggiù, nell'eterno nulla...
Povero  Praga!



***
Il volume di versi inviatomi dall'editore Casanova vale proprio la pena di svolgerlo e di leggerlo attentamente.   Sono  i  versi   di  un poeta lombardo, notissimo per suo ingegno e le sue sventure divenuto celebre  dopo morto, e della cui bizzarra indole, della cui fine tristissima e immatura s'è tanto e si diversamente  parlato.
Voi sapete già ch'io accenno ad Emilio Praga di cui il Casanova aveva pubblicato un postumo volume di versi, le Trasparenze, e ristampato le Penombre, cupo e forte canzoniere, e stampato anche le Memorie del presbiterio blando romanzo, che il Praga lasciò interrotto e scucito, e che si prese la briga di finire, curandone l'edizione, un altro scrittore, amico di Emilio, anima squisitissima di artista, oggi morto — Roberto Sacchetti.

Il volume che adesso ci presenta il Casanova — Tavolozza — al quale precede uno studio biografico di Ferdinando Fontana intorno al poeta lombardo — è il primo volume di versi che avesse pubblicato il Praga, allora  ventenne,  ricco  e  felice.
Ricco! ecco la grande e magica parola. Giacché, questo bisogna dire anzi tutto: Emilio Praga cominciò ad essere infelice allorquando nella sua casa finirono le agiatezze. Di gracile corporatura, di salute un po' cagionevole, sensibile, voluttuoso, animo delicato e ingegno fine di artista, il nostro Emilio viveva bene dipingendo paesaggi, scrivendo versi, viaggiando ignorando  affatto le  difficoltà  e le asprezze della vita
La Tavolozza, da lui pubblicata a vent' anni fa fede di tale suo benessere.  Da codesto libro, infatti,  spira come un'aura di giovanile freschezza e di tranquilla felicità. Il poeta canta le cose belle e i miti affetti, canta qualche volta gli umani dolori, ma da uomo che non conosce gl'intimi recessi della sventura, senza bestemmiare, senza disperarsi, come farà in seguito in qualche tetra lirica delle Penombre. La Tavolozza, infine, è un canzoniere gentile di un gentile poeta. E a Milano, a quel tempo, piacque. Emilio Praga frequentava i salotti eleganti, e le signore stesero la mano inguantata al giovine artista, che rompeva la tradizione degl'Inni Sacri e delle liriche dal rumoroso decasillabo, ed i cui versi mandavano fresche folate di letteratura francese — di quella letteratura che aveva già illuminato di fugaci bagliori il trono borghese di Luigi Filippo.
Ma la felicità di Emilio Praga durò poco. A ventidue anni egli perdette il padre, ricco industriale, che possedeva una florida conceria di pelli a pochi chilometri   da  Milano.
Poco tempo dopo, l'industria delle pelli fu colpita da una crisi, e la fabbrica dei Praga andò in rovina. Ed il povero Emilio, in un attimo si vide a tu per tu con  le mille  difficoltà   della vita.
Tutto il rimanente si comprende. Emilio Praga non era nato per lottare, e in quella sua lotta asprissima soccombette. La sua debole fibra si spezzò ai primi urti. Ed egli cadde, cadde irremissibilmente, per non più rialzarsi, il suo cuore fu dilaniato dall'angoscia, il suo intelletto offuscato vide il mondo e gli uomini attraverso un grigio velo densissimo, e la sua musa ub briaca  d'assenzio, suggerì spesso alle nemiche labbra dell'infermo poeta la bieca rampogna o il lugubre inno nella  desolazione.
Ma, in mezzo a tanta tetraggine di vita e di pensiero, quante volte il suo animo si schiuse dolcemente al sorriso! Allorché la sua mente snebbiavasi dei fumi del verde liquore, com'egli tornava ad essere il buon Emilio, l'amico dei bimbi e dei vecchi, il poeta sospiroso della pace idillica e degli odori freschi dei prati!
Conducetelo un po' in campagna, di buon mattino, ed il suo animo esulta in quella festa di fiori, di profumi e di canti. Parlategli un po' del suo bambino e nel suo occhio  stanco  tremola  una  lacrima  di  tenerezza.
È appunto per questa sua istintiva bontà d'animo, che qualcuno, rievocando gli ultimi anni della sua vita privata, ha voluto difenderlo ad ogni costo, gittando magari qualche parola amara sulla moglie del poeta, una buona signora, che a certo punto, si vide costretta a separarsi  dal marito.
Or io non posso seguire codesti difensori in tale scabrosissimo compito; io non difendo, né accuso Emilio Praga; solamente dico ch'egli mi desta commiserazione. Ma non posso ammettere il panegirico ad ogni costo. Non posso vilipendere una povera signora, la quale a certo segno disdegnò la compagnia di un poeta, che a notte tarda, ritornava in casa ubriaco, e, annaspando nel letto coniugale, bruttava di vomito la moglie.
Sono tristi verità, dolorose a dirsi — ma valgono almeno a calmare gli artificiali entusiasmi di qualche inesperto letteratucolo, che vuol fare della scapigliatura a buon mercato, e chiama volgare pregiudizio tutto ciò che la società ammette come onesto, come doveroso, come gentile.
Le chiacchiere son belle a farsi dinanzi a un tavolino da caffè, col sigaro in bocca, in mezzo a un crocchio di amici che ti danno ascolto; ma i fatti son fatti. Sta a vedere che un poeta, solo perché è poeta, può permettersi di essere un porco. Sia porco finché gli piace,  ma lontano  mille  miglia  dalla gente pulita!
E questo non lo dico io soltanto; lo dicono tutti coloro che hanno un briciolo di buon senso. Ferdinando Fontana, amicissimo di Emilio Praga, nel suo studio biografico premesso alla Tavolozza, inveisce contro i falsi boemi, adulatori ad ogni costo della memoria dell'infelice poeta lombardo; ed il Fontana fa bene; e, tanto per mettere le cose a posto e placare cotesti entusiasmi a freddo, ricordando gli ultimi anni del Praga, accenna al ludibrio del talamo nuziale insozzato bestialmente, alla « depressione del senso morale fino al punto di riscuotere del denaro per conto d'un amico (che patisce la fame) e andarlo a sprecare in una notte... e l'amico crepi! fino al punto di amare teneramente e di cantare meravigliosamente il proprio bambino, e poi di cadérgli al fianco, ubbriaco fradicio sulla pubblica via ».
Ed  il  Fontana, che fu intimo del Praga ed abitò qualche tempo insieme a lui, può discorrerne con piena coscienza di causa. Anzi, se volete saperla intera, quel vago accenno ad un amico che patisce di fame si riferisce al Fontana medesimo, ed al seguente aneddoto che  adesso vi  racconterò.

Il Fontana ed il Praga abitavano insieme, lottando contro la miseria che li assaliva spietatamente. Lavoravano come negri per guadagnare qualche soldo: insomma,   una  vita   infame!
Una notte, vegliando fino all'alba, erano riusciti a finire un libretto d'opera, che, per un magro compenso, avevano promesso ad un editore. Ci avevano lavorato entrambi, e, nella speranza di quel po' di denaro, si erano rassegnati a rimanere tutta la notte a stomaco vuoto.
l domani di buon'ora il Praga esce col manoscritto, promettendo di tornare subito coi quattrini. Il Fontana resta in casa ad aspettare — ed aspettò tutto il santo giorno. La sera, tardissimo il Praga ritornò ubbriaco da fare schifo e...  con le scarselle vuote.
Notate:   trattavasi   dell'amico   affamato!
Ma lasciamo questo doloroso argomento. Io però non mi pento di averlo trattato; anzi insisto su ciò che ho detto, perché è bene che la verità si sappia, e intera, anche a costo di vedere svanire qualche entusiasmo che bolle di soverchio. Le peripezie della vita mi hanno insegnato ad andare un po' cauto e di non lasciarmi far trascinare troppo facilmente dalle lusinghiere parvenze.
E adesso lasciamo stare l'uomo, e torniamo al poeta, la cui Tavolozza io ho riletto con piacere e interesse grandissimo. Certamente da qualche anno in fatto di poesia si è progredito non poco, e la forma della lirica italiana ha andato riacquistando quella pulitezza e quella grazia e quella eleganza e quella concisione a cui non eravamo più abituati; sicché riesce più notevole nelle liriche del Praga il lor maggior difetto: la scorrettezza. Nondimeno quanta ispirazione, quanta freschezza,   quanta  ingenuità   di  poesia!
Sentite, per esempio, questa prima strofe d'una bella  lirica:   Il poeta ubbriaco:

Datemi un nappo, datemi dei versi; 
Le imposte aprite, entrino i venti e il sole; 
Quanti fantasmi nel cervel dispersi! 
Che musica di forme e di parole!

Il lettore finisce per sentirsi un po' ubbriaco anche  lui. 
E sentite queste altre due strofe d'im'altra bellissima poesia, I pescatori notturni. Par di leggere dei versi del Carducci :

Portan  la   vela  lacerata  ai  venti, 
Come  stendardo  che in battaglia errò; 
Portano   remi   e  canapi   stridenti. 
Che il nerbo delle braccia affaticò;

E nella  tolda  silenziosa  e  bruna 
Restan   le   lunghe   notti   ad   aspettar, 
Ad  aspettar   sotto   la   fredda   luna 
Che  il  pan  dell'indomani  apporti  il  mar!

on è vero che sembrano versi del Carducci? Ma il Praga li scrisse nel 1860, e a quel tempo Enotrio era presso che ignoto.
Ciò che prova? Prova che se il Praga fosse vissuto ancora, avrebbe dato più splendide prove del suo grande ingegno di quelle che gli riusci di dare. Ma egli invece preferi di morire poco dopo i trent'anni, bruciato dall'assenzio.   Tutti  i  gusti  son  gusti!

* « La Meteora »,  Cagliari,  4 marzo   1878.  E. Onufrio