Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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mercoledì 1 febbraio 2017

GIUSEPPE VILLAROEL "la vocazione del giornalista"



Fra i catanesi nati negli ultimi due decenni dell'Ottocento e il primo Novecento, molti i letterati che diedero manifestazioni inequivoche del loro ingegno nei diversi generi letterari, e che al di là della validità attuale dell'opera (dell'ampia produzione di alcuni si ricorda solamente il titolo di una silloge poetica o di un romanzo), per necessità di vita (condensata nel lati-netto «carmina non dant panem») svolsero un'altra attività professionalmente — ossia con continuità e costanza — fino al pensionamento.
L'attività svolta quasi clandestinamente — rimasta celata alla maggior parte dei lettori — fu per molti l'insegnamento, per pochi l'inserimento in un'amministrazione locale (con preferenza per il Comune o per la Provincia, ma anche per la Camera di Commercio), ma alcuni all'insegnamento o alla routine dell'impiego aggiunsero l'attività giornalistica, espletata come collaboratore o redattore o direttore di un periodico, anzi — come vedremo — immersi nel giornalismo inteso come professione, fatto di un certo numero di ore al tavolo di redazione di un quotidiano cittadino. In mezzo ad essi, perfettamente integrati, gli scrittori e i letterati che, artisti per temperamento, furono giornalisti per mestiere.
Sono un nutrito manipolo e di essi, senza sottili e discriminanti distinzioni, ricordiamo alcuni con rapidissimi cenni (con il rammarico di ometterne molti): Gesualdo Manzella Frontini (1885-1965), Ottavio Profeta (1890-1963), Giacomo Etna (1895-1963), Vito Mar Nicolosi (1901-1948) e, ancora, altri elementi rappresentativi del giornalismo intorno agli anni Venti: Mauro Ittar, Enrico Cardile e Gioacchino Di Stefano (Giornale dell'Isola), Salvatore Russo Schyros e Salvatore Frazzetta (Corriere di Catania) e il gruppo che a Catania, sempre in quegli anni ruotava nell'orbita di Giuseppe Villaroel e del Giornale dell'Isola letterario: «Da quel giornale vennero fuori Aniante, De Mattei, Patti, Brancati, Patanè, Etna e molti altri giovani del primo novecento catanese» (G. Villaroel, Il secolo dei panni al sole, Milano, 1959 p. 282). E ancora due a noi più vicini: Salvatore Lo Presti (1903-1980), segretario di redazione, e Antonio Prestinenza (1894-1967), direttore, che diedero a  La Sicilia, il nostro quotidiano, alcuni decenni della loro passione e dedizione e delle loro energie vitali.

*   *   *
Vogliamo ricordare, a vent'anni dalla morte avvenuta a Roma il 10 luglio 1965, Giuseppe Villaroel (nato a Catania il 26 ottobre 1889), giornalista multiforme per quasi sessant'anni, che con penna intinta nel'inchiostro nero o viola riuscì a dare — con prosa lucida e incisiva — un taglio moderno agli elzeviri e agli articoli polemici (i personaggi e le macchiette di allora, con i vizi e le virtù, inseriti in articoli di terza pagina dopo la partenza da Catania, raccolti successivamente nei volumi: Gente di ieri e di oggi; Via Etnea; Il secolo dei panni al sole, pubblicati dal 1954 al 1959, conservano i tratti vividi e le caratteristiche essenziali di molti letterati-giornalisti di provincia).
Molto precoce in Villaroel la passione per la carta stampata, se, a diciotto anni, con l'amico poeta Salvatore Giuliano fondava nella primavera del 1909 Matelda, con sottotitolo ambizioso «rivista della poesia italiana», che segnava l'esordio poetico con la pubblicazione, nel numero di dicembre, di 10 sonetti intitolati collettivamente «Dal mare al bosco», datati «Tarderia 22 settembre 1908». Non è che la prima di una lunga serie di testate, che non è possibile in questa sede censire e collocare in ordine cronologico, del quindicennio catanese che finisce nel 1923. Poi si susseguono con contributi poetici: Prometeo, rivista quindicinale d'arte (1910); l'Amore siciliano, settimanale (a. 1, n. 1, Catania, 3 novembre 1910); La vita letteraria di Roma (1911); Settimana Siciliana, settimanale di Messina (1912); Rassegna siciliana. Vita e arte, quindicinale diretto da Ignazio Ferro, sospeso nel 1915 per il richiamo alle armi del direttore; Pick-wick (1915) e, ancora, Novissima Siciliana, rivista letteraria e artistica, di cui fu direttore e che visse nel biennio 1915-1916, editore Giannotta.

Le riviste, tuttavia, hanno dei limiti: diffusione limitata e periodicità varia (settimanale o quindicinale o mensile e ancora più estesa); ossia non sono lo strumento giornaliero di circolazione delle notizie e delle idee, come è la funzione precipua ed insostituibile del quotidiano. A Catania si stampavano dopo il 1910, due quotidiani: il Corriere di Catania (dal 1879) e la Sicilia (dal 1901). Occasionale e marginale, e quindi di scarsa evidenza (anche per l'inesistenza di una terza pagina), la collaborazione del giovane Villaroel ai due quotidiani, dal 1911 al 1914.
Tuttavia, la sua firma nel Corriere di Catania nel biennio 1914-1915 è già apprezzata; il 2 febbraio un denso articolo di apertura con titolo «Il Risorgimento italiano» recensiva l'opera I mille di Francesco Guardione, e il 28 successivo Adelaide Bernardini Capuana dedicava, sempre nella terza pagina, una lunga recensione alla seconda silloge del Nostro Le Vie del silenzio (Milano 1914).
Ad essi, nel 1915, si aggiungeva come terzo quotidiano, Il Giornale dell'Isola, il cui primo numero usciva sabato 13 marzo, affidato dalla proprietà, rappresentata dal barone Nicola Anzalone, alla direzione degli avvocati Carlo Carnazza e Giuseppe Simili. Esso fu la grande palestra per Giuseppe Villaroel: l'aureola di letterato e l'amicizia di Carlo Carnazza, rimasto dal 1916 unico direttore, gli diedero ampio spazio e molta autorità. Ben presto, dalle cronache anonime e quasi clandestine, passò ad una fioritura di firme apposte agli elzeviri, alle poesie, alla serie di articoli — nell'estate del 1915 — su Giosuè Carducci (poi raggruppati in Carducci e l'Italia, Teramo, 1915, pp. 26), dalle recensioni alla letteratura di attualità, alla rubrica «Fra libri e riviste». Ampio il contributo per la morte di Luigi Capuana (Catania, 29 novembre), anche nei giorni successivi. In questo scorcio d'estate affiorano in terza pagina: le delicate novelle di Antonio Bruno e, a fine anno, le raffinate traduzioni delle novelle di Edgar Allan Poe; i pezzi di Gioacchino Di Stefano dedicati all'olocausto di Guglielmo Oberdan o alla melodia del sogno di Debussy e, ancora, quelli di Enrico Cardile e «L'elogio della caserma» di Giovanni Centorbi.
Se questo è l'apprezzabile contributo al quotidiano, di cui è redattore letterario, Villaroel non cessa la collaborazione alle riviste catanesi e non catanesi, come La Via ed Aprutium di Teramo. Non basta. Nell'autunno del 1915, iscritto nella Facoltà di Lettere, ma già dal novembre del 1912 laureato in Giurisprudenza, otteneva dal Provveditore agli Studi Giuseppe Menotti De Francesco (e l'incontro avvenne, come scriverà il Villaroel nel 1964, nei saloni della prefettura di Catania) la nomina a supplente per l'insegnamento di lettere italiane e storia nell'Istituto tecnico «C. Gemmellaro», dove prestò servizio fino al 1922-23 (dal 1917-18, dopo la laurea, fu incaricato annuale).
Il triennio che va dal 1916 al 1918 trascorreva lungo i moduli dianzi riferiti, con una produzione sempre più intensa. Nella primavera del 1918 usciva la terza silloge poetica La tavolozza e l'oboe. I rapporti con l'amico Antonio Bruno, collaboratore del medesimo quotidiano e poeta, si guastano. Dal 1915, Bruno è corifeo della poesia futurista a Catania: Fuochi di Bengala, del 1917, segnavano l'acme; la polemica con Villaroel (antifuturista) diventava man mano feroce con articoli da sponde opposte, fino a «Buffonate cerebrali» di Villaroel (Giornale dell'Isola, 29 maggio 1919). Poi la riconciliazione, precaria, e dopo, nella primavera del 1919, la rottura definitiva, con il successivo pamphlet di Bruno Un poeta di provincia (Milano, 1920), stroncatura della poesia e della concezione giornalistica dell'antagonista, ma interessante per la cultura soda e pluridirezionale e lo stile di una prosa non provinciale.
Numerosi i motivi della filiazione dal quotidiano di un quindicinale (ben presto mensile) Giornale dell'Isola letterario, il cui primo numero reca la data del 1° febbraio 1919 (nel Giornale dell'Isola del 30 dicembre 1918 nell'annunzio relativo, fra l'altro, si leggeva «la compilazione è affidata al nostro redattore letterario Giuseppe Villaroel»). Caldeggiato fin dall'anno precedente da Villaroel, il direttore Carnazza lo affidava al collaboratore fidato e ben sperimentato, con il ruolo di redattore e supervisore di un supplemento letterario, autonomo ma con il direttore in comune con il quotidiano, durato quasi sei anni e rimasto unico nel panorama della stampa catanese per la formula nuova e aperto fin dall'inizio ai contributi più vari (Croce e Gentile, ma anche Francesco Guglielmino e Luigi Russo). L'organo di stampa, nelle mani di Villaroel divenne uno strumento di penetrazione, di collegamento e di scambio di collaborazione, e — a volte — una cassa di risonanza della produzione propria con la rassegna della stampa favorevole.
Antonio Bruno fu nei quattro numeri iniziali, di febbraio e di marzo, collaboratore e recensore nell'ambito della rubrica «Libri, riviste e giornali», ma dopo — ignoriamo i motivi — ruppe definitivamente. E nel volume contro Villaroel poeta, iniziato a scrivere a Biancavilla nel maggio del 1919, lancia un siluro di rancore nei confronti del periodico, che nel «Notiziario» del marzo (a. 1, n. 4) aveva annunziato in termini lusinghieri l'imminente uscita del volume di poesie cinesi dal titolo Palazzi di Giado: «L'Isola letterario fu il polpettone ad usum siculorum, pretesto al ragù d'una gragnuola di pareri, notizie, delucidazioni ed annunzii, esplosi o propinati all'inclita e al colto che s'allumaca tra Villa Bellini e piazza degli Studi».
Dal 1916 in poi diventano man mano alcune dozzine le riviste alle quali Villaroel prestava assiduamente la collaborazione; ne indicheremo, oltre aìì'Aprutium, alcune: La Diana, rivista di Napoli, con poesia nel fascicolo speciale per la morte di Guido Gozzano (1916); Il fatto nero (1916); Il compendio, rassegna letteraria romana; Noi e il mondo, mensile; Poesia ed Arte, rivista mensile di Ferrara; Le Fonti, rivista mensile di lettere e d'arte di Roma; Le lettere, giornale letterario di Roma; Cronache d'attualità, rivista di Roma diretta da Anton Giulio Bragaglia; Novella; Il Sagittario, rivista pubblicata a Viareggio e molte altre che si omettono.
A Catania quasi tutte le riviste e le rivistine richiedono preventivamente ed annunziano in caratteri vistosi la collaborazione promessa (o strappata) da Villaroel. Con riferimento al decennio 1911-1920 condividiamo quello che scrisse nel 1923 Giacomo Etna « Collabora a tutte le riviste del tempo, fonda giornali che durano un mese, scrive sonetti satirici in dialetto, si forma nello stesso tempo una cultura moderna». Indichiamone alcune: La scalata (1917); La fonte (1917); Rivista delle signorine (1920); Rivista di Sicilia (1921); Rivista d'oggi (Palermo, 1921); L'ascesa (1921); Sinagoga (1921); Haschisch (1921); L'Albatro (1923); Farfalle (1923); e anche La rinascenza scolastica, rivista pedagogica didattica letteraria, quindicinale, nel 1921 e nel 1922. Non è possibile distinguere nel bailamme, se la scelta ubbidiva all'impossibilità del diniego o al gusto della novità o al desiderio di permanere costantemente in orbita.
In questa fase della vita letteraria, prima della partenza per Lodi (1923), Villaroel fu certamente «il jolly della cultura catanese» (come lo definisce con proprietà icastica la studiosa Rosa Maria Monastra).
La sua fama aveva varcato i confini d'Italia, se già nel 1921 La Piume, una delle più autorevoli riviste letterarie che si pubblicavano a Madrid, non dimenticava — dopo la menzione delle attività di Verga e di De Roberto — di mettere in risalto il contributo artistico ed intellettuale del Giornale dell'Isola letterario.

*   *   *
L'anno 1923, ultimo della permanenza a Catania, fu denso di progetti e di prospettive lusinghiere. Un'iniziativa prettamente giornalistica va segnalata: il Giornale dell'Isola avrebbe avuto il settimo numero, un settimanale con titolo Lunedì dell'Isola, con inizio delle pubblicazioni il 17 settembre, direttore Giuseppe Villaroel. Purtroppo, l'annunzio dato il 15 settembre veniva smorzato (anzi spento) il giorno dopo, con un comunicato di sospensione della pubblicazione, in quanto «le autorità locali hanno fatto conoscere che tale pubblicazione verrebbe considerata in contravvenzione alla legge sul riposo festivo» (Giornale dell'Isola, a. IX, n. 219, domenica 16 settembre 1923, p. 5).
A trentatrè anni Villaroel è un giornalista-scrittore di primo piano, organizzatore e promotore di cultura nella sua città; è il più noto della sua generazione e il più discusso. Il segno inconfondibile dei titoli acquisiti e riconosciuti e della notorietà consolidata è costituito anche dalle pubblicazioni a lui dedicate: Un poeta di provincia di Antonio Bruno nel 1920 (e aveva allora trent'anni) e Villaroel Ai Giacomo Etna nel 1923; all'inizio dell'anno, inoltre, annunziato un profilo a cura di Giacomo di Valbruna nella collana «I contemporanei» dell'editore napoletano Gaspare Casella. Nella primavera era uscita, a Milano per i tipi di Mondadori, la quarta raccolta poetica La Bellezza intravista, che ebbe allora e dopo apprezzamenti dalla critica e dal pubblico.
E la partenza di Villaroel fu messa in grande evidenza dal quotidiano, in cui lavorava da oltre otto anni, e in termini esaltanti (anzi trionfalistici): «Al vittorioso poeta della 'Bellezza intravista', al redattore letterario del 'Giornale dell'Isola' quotidiano, al redattore capo del 'Giornale dell'Isola letterario', giungano gli auguri trionfali...» (Giornale dell'Isola, 9 ottobre 1923, p. 3).

*(La Sicilia, 10 luglio 1985) di Sebastiano Catalano

mercoledì 23 maggio 2012

Mario Rapisardi - di Giuseppe Villaroel

Gente di ieri e di oggi - di Giuseppe Villaroel


Mario Rapisardi
In alcuni temperamenti c'è una forma di timidezza spirituale e psichica che reagisce con espressioni verbose e modi aggressivi puramente fantastici; una forma orgogliosa, e vorremmo pur dire letteraria, di spavalderia. Certe volte si tratta di rare e irrazionali impulsi istintivi che sfociano in traslati iperbolici, come, per esempio, nel caso Leopardi (« l'armi, qua l'armi — combatterò, procomberò sol io »);e certe volte, invece, di soprastrutture culturali e mentali, che finiscono per deformare la personalità e il carattere di un artista. Ecco il caso Rapisardi.
Il poeta, che cantò « Lucifero », la ribellione, l'anarchia e scrisse i più feroci versi dinamitardi e rivoluzionari dell'età sua, il poeta, che ebbe immagini grasse e truculente nella satira, nella polemica e nell'invettiva, era, di converso, il più mite e bonario e morigerato uomo del mondo. Già, bastava guardarlo in viso. Con quella sua chioma molliccia e ondulata di antico bardo, con quegli occhi languidi, quasi svenevoli, con quel nasetto petulante e femineo, con quei mustacchi pènduli, ovale di volto, èsile ed alto di statura, non dava sicuramente l'idea di un temerario sanculotto o di un temibile regicida. Ebbe, inoltre, il gusto di aggeggiarsi in nero, con cravatte lugubri e svolazzanti, colletti alla robesbierre, berretto bicorne e babbucce con fibbia: un modo tetro e romantico d'acquistare rilievo sulle folle, che parve geniale bizzarria ai fanatici e manierato esibizionismo ai nemici. Molti credettero, insomma, ch'egli si concedesse alla platea. Era rimasto, invece, casalingo e borghese quant'altri mai; e, tòlti siffatti paramenti, l'uomo viveva in esemplare e modesta semplicità. Tanto è vero che alla moglie (la Giselda), venuta in Sicilia dai climi eleganti e leziosi del nord, risultò trascurato e borghigiano. Forse, così, la donna volle attenuare, dopo il distacco, una colpa, che, ad esser sereni, non può avere altre attenuanti se non quelle della fragilità e della leggerezza di certe nature femminili. Giudizio dispettoso e ingiusto, dunque; e mal rispondeva agli accenti di gentile malinconia e di umana pena che il poeta ebbe per lei. Perché, diciamolo ad alta voce, Rapisardi fu di cuore sensibilissimo, generoso e indulgente. Ma, ironia della sorte, sembrò del tutto l'opposto. Sembrò gravido di rancore, selvatico e grossolano. Ed era, viceversa, un timido e un buono, cui spesso l'ira toglieva il senso della misura; più nelle parole, che nei fatti. E, se difetti egli ebbe, altri non furono che quelli di un eccessivo orgoglio e di un'ombrosa suscettibilità. « Poetae irritabile genus ». In fondo, la polemica con il Carducci nacque da ciò. Se il maremmano si fosse attenuto alle buone regole di cortesia (allora in uso), e non avesse ricambiato col silenzio i primi omaggi del catanese, probabilmente quel duro, spiacevole scontro non sarebbe avvenuto. Il Rapisardi cadde nella scatologìa, com'ebbe a scrivere il Carducci. Già, già; ma il Carducci non aveva tolto, mica, termini e immagini dal « Florilegio per le educande ». Ed è lecito, al sentir dire che la propria arte ha « le brache puzzolenti », che un uomo possa rispondere, come rispose il Rapisardi:

La fama che con lui fornica in piazza, 
posto il trombon tra l'una e l'altra lacca, 
ai quattro venti il nome suo strombazza.

*  * *

Del resto, prima che movesse decisamente all'assalto del Carducci, il Rapisardi tentennò alquanto e agì in modo da mettersi dalla parte del torto, mentre, in sostanza, aveva ragione; aveva, cioè, i suoi buoni motivi per dolersi della inciviltà del Carducci. Agì insufflato dal Fanfani: il famoso Fanfani delle « postille ». E, se, da un canto, volle far vedere al suo dotto amico di Firenze, che non risparmiava le frecce contro l'« idrofobo cantor, vate da lupi », dall'altro, sperò che il Carducci non si accorgesse del coperto strale. Ingenuo ! Si mise in moto la scuola bolognese, e il Carducci, avvertito, chiese perentoriamente al Rapisardi l'esplicita conferma dell'allusione. Il Rapisardi negò (ecco l'errore, ecco il timido) e fece la figura dell'insidioso e dello sleale.

* * *

Usciva di casa, difilato verso l'Università, dove — dicono — svolgeva le sue lezioni con grave e dotta modestia. Nessuna aria, nessuna albagìa, nessun tono aggressivo. In casa, passava i suoi giorni ad elaborar poemi e canti, deambulando, nelle buone stagioni, lungo la balconata prospiciente sull'ultimo tratto della via Etnea, là, in alto, nei quartieri del vecchio borgo. E, di là, con la fantasia, costruiva quei mondi farraginosi, di personaggi, simboli, mostri, scene, profezie, cavati dalla Bibbia, dal mito, dalla classicità, dalla filosofia, dalla storia; di là, abbatteva nemici, avversari, tiranni, troni; di là, evocava Satana sulla terra e prediceva l'avvento del proletariato.
Era il tempo delle rivendicazioni popolari.
A Catania: i socialisti al potere. E Mario Rapisardi, solitario, chiuso, lontano da ogni pratica della cosa pubblica, aveva dovuto subire, suo malgrado, il ruolo di cantore e interprete delle nuove ideologie.
Il primo maggio, i lavoratori, in tumultuose colonne, assiepavano la casa del poeta, con canti, evviva e spiegamenti di bandiere rosse, e richiedevano, a gran voce, un discorso d'occasione.
Negato all'oratoria di piazza, scontroso, impac-ciatissimo, sospinto dai soliti scalmanati, terreo, funereo, con quel suo tradizionale berretto nero, in bilico sulle chiome agitate dal vento, Mario Rapisardi si sporgeva dalla ringhiera e, senza mover labbro, rientrava precipitosamente in camera.
Ecco, nella sua realtà, l'uomo che le beghine superstiziose credevano posseduto « dalle dimonia ».
Questa contraddizione fu, secondo noi, il dissidio segreto (e, forse, inconscio) della vita e dell'arte di Mario Rapisardi. Egli non si accorse che, sul suo vero mondo spirituale (che era di natura elegiaca, idillica e meditativa) si attaccarono incrostazioni dottrinali, politiche e filosofiche di carattere problematico e programmatico. In altri termini: egli era nato lirico e volle fare l'epico, proprio, quando l'epica, come genere letterario, era già morta e sepolta da un pezzo. L'annuncio funebre l'aveva pur dato il Carducci. Ma il Rapisardi non vi credette. Sugli schemi dei grandi e dei piccoli poeti classici, pensò, lo stesso, di potere immettere nella poesia lo scìbile, senza riflettere che, come la storia aveva sostituito i poemi eroici, la scienza e la filosofia avevano sostituito ormai, per sempre, i poemi didascalici, gnomici e parabolici. Entrò in questa immane fatica senza riuscire a districarsi dalle ri-miniscenze e dai modelli, anche dal punto di vista prosodico e linguistico. In questo senso i richiami del Croce sonò inoppugnabili. Per fortuna del Rapisardi, quando la vitalità lirica del suo mondo interiore, superato il gravame delle costrizioni sociologiche, dialettiche e speculative, riuscì ad aver libero sbocco nel sentimento e nella fantasia, ecco il poeta ritrovar se stesso e consegnare al tempo, qua e là, nelle « Religiose », nei « Poemetti » (e persino in alcuni brani dei suoi pletorici poemi) un'arte durevole. È questo il Rapisardi elegiaco, desolato e scettico (ma di uno scetticismo che non si essicca e ripone fede nelle forze eterne e nel mistero della natura); è questo il Rapisardi nostalgico. Allora il poeta coincide con l'uomo; e i suoi tristi occhi stupiti interrogano la vita, le stelle, l'infinito. Allora le chiome lunghe si addicono alla sua grande solitudine spirituale e le parole combaciano col suo temperamento di trasognato amante della libertà e della giustizia umana.

* * *

L'ultima volta che lo vidi era infermo da tempo. Affondato nella poltrona, con una coperta sulle gambe, pisolava. Cèrea la faccia smagrita, grigi e radi i lunghi capelli riversi sulle spalle, scarne e ossute le mani. La Poniatowski (l'affettuosa compagna che lo assisteva) entrò piano piano, gli pose sul tavolinetto, ingombro di libri e carte, una tazza fumante;   e   scomparve.
Il poeta sollevò le palpebre e le richiuse. Era abituato a sentir gente attorno. Quando si svegliò, del tutto, sorrise e cominciò a sorseggiare la bevanda.
« Come  state,   maestro? ».
« Parliamo d'altro —, disse. — Oggi, sfogliando alcuni miei vecchi appunti, ho trovato questa nota. Leggete ».
Era un biglietto lógoro e gialliccio. Di sbieco, con calligrafìa nervosa, v'era scritto: « Incontro a Firenze, all'angolo di via Tornabuoni, Giosuè Carducci... ».
« Vi sembra una postilla oziosa, è vero? ».
« Oziosa, no; ma non c'è nulla di strano ».
« Nulla di strano? Era solo. Ci siamo quasi strisciati spalla contro spalla. Procedeva borioso, massiccio,  duro.  Finse di non vedermi.  Ed io mi son sentito salire il sangue al cervello. Frugo, convulsamente nelle tasche. Per fortuna non trovo più il mio solito coltello-tempera-lapis. Dico: per fortuna. Glielo avrei  conficcato  nel cuore... ».
Salto su, sbalordito: « Maestro, voi non lo avreste fatto. Non era possibile ! ».
Mi osserva, stanco, esangue, con l'occhio opaco, lontano. Strappa in minutissimi pezzi il cartoncino e sospira: « Sto male. Molto male; bisogna distruggere questi brutti ricordi. Avete ragione, amico. Non era possibile... ».