Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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martedì 26 giugno 2018

MARIANNINA COFFA - LA CAPINERA DI NOTO


Raya, 800 inedito



1. La vita
La vita di Mariannina Coffa Caruso è stata narrata, in un libro del 1900, come la Storia d'una martire. Togliamo alla parola quel che di agiografico o di melodrammatico vi è incrostato; e, specialmente al lume dei documenti che mezzo secolo fa non erano conosciuti, potremmo accettarla senz'altro.
Questo martirio è tanto più toccante, in quanto si svolge senza manifestazioni appariscenti, in un cuore di donna che, fino ai vent'anni, lasciava presagire un destino assai più propizio. 

Nata a Noto il 30 settembre 1841 dall'avvocato Salvatore Coffa Feria e da donna Celestina Caruso, Nina era come la pupilla della casa; e certi segni precoci d'una sua vocazione poetica le davano, già sui quindici anni, e non ostante una venatura melanconica, un alone tutt'altro che funesto.
Aveva frequentato, decenne, il collegio Peratoner di Siracusa, dove aveva trovato il suo primo maestro di versificazione in Francesco Serra Caracciolo; ma nel settembre 1852 conosceva, in Noto, un precettore ben più zelante, il sacerdote poligrafo Corrado Sbano, che la consiglierà e assisterà per tutta la vita. E prendeva lezioni di piano da un giovane venticinquenne (lei di quattordici), che segnerà senz'altro il suo destino: Ascenso Mauceri.
Ascenso (allora firmava Ascenzio) tornerà a darle lezioni di musica nel '59, l'anno di stampa dei Nuovi canti della diciottenne poetessa. Egli ha già soggiornato a Napoli, a Firenze, nel continente favoloso, e possiede tutti i numeri per ; appassionare la sbocciante creatura : poeta, musicista, dignitoso e sensibile di carattere, biondo alto piacente d'aspetto.
La vigilanza familiare, la fiamma che ormai divora l'anima di Nina. il contegno e la padronanza di Ascenzio, risaltano con mirabile immediatezza in una lettera del 9 marzo 1870, oltre dieci anni dopo la stagione felice :

«Avete mai pensato, Ascenso mio, a quel giorno in cui eravate in mia casa, quando il cielo divenne nero e i tuoni ci facevano paura?... Io ricamavo un cuscino, che dovevo donarvi: lo ricordate?... Quelle ore della tempesta furono le più belle del nostro amore, perché mai, mi fu concesso stringere la vostra mano e aprirvi l'anima mia. Ma quel giorno ebbi un istante di felicità, ed oggi l'ho scontata con perenni lacrime. Eravamo soli; voi avevate scritto un sonetto, che cominciava Demone o spirto... Voleste che facessi la risposta sulle stesse rime, e mi posi a scrivere. Eravate in piedi, dietro la mia sedia, e posaste la mano sulla carta, che avevo innanzi, e su quella mano appoggiai le mie labbra ardenti »...

Perché un amore così intenso non fu coronato dal matrimonio, che entrambi i giovani avrebbero desiderato? Per l'opposizione, prima larvata, poi alimentata da insinuazioni denigratorie nei confronti del Mauceri, infine aperta e ostinata, da parte dell'avvocato Coffa e signora. Ascenzio aveva avuto una relazione con una signora Raeli : l'aveva ancora? ne aveva altre? era un debosciato? Mariannina conobbe appena cosa fosse la gelosia, che se ne sentì divorata; eppure non smentì il suo amore, anzi cominciò ad associarlo al pensiero della morte, con frasi logore dall'uso («dovesse l'amor tuo costarmi la sventura e la morte » : 20 settembre 1859; « ti sarò fedele sino alla morte » : 1 novembre 1859...), ma riscattate, nelle sue lettere, dalla fermezza della decisione, dalla lucidità del presentimento.
La soluzione della fuga, proposta da Ascenzio, sarebbe stata forse la migliore, e comunque di uso comunissimo in Sicilia. Ma la poveretta non voleva dare un dolore alla madre :

«Ti pregherei [scriveva all'amato il 26 novembre 1859] di non venire a messa alla mia chiesa, io non voglio, non devo vederti. Se sapessi quanto mi costano queste parole! La tua presenza in quel luogo mi farebbe per un istante felice, ma mia madre!... oh, ella si affliggerebbe ».

Di fronte a un animo così generoso e leale, non c'era che l'insidia, e specialmente la speculazione sulla sua indole generosa, che potesse indurla ad accettare un marito scelto dai genitori; i quali architettarono il loro piano tra la fine del '59 e i primi del '60, mentre Ascenzio si trovava in continente. Le fecero sussurrare, da un'amica intima, che Ascenzio, partendo, avesse detto : « Poco m'importa di chi resta; io parto, né tornerò così facilmente; in Italia non mancano donne ». Le fecero udire, al collegio Peratoner, battute di gravi personaggi sulle donne « molto istruite » che ci sono « in Italia », delle quali « tutti gli uomini » si innamorano... Premettero in altri modi più ignobili. Mariannina, dopo il 1° dicembre 1859, non scrisse più al suo Ascenzio, per circa tre anni. L'8 aprile 1860, infatti, era divenuta sposa d'un signor Giorgio Morana, da Ragusa.

Ed ecco, per diciassette anni, il martirio di questa donna nata per la poesia e per l'amore, e invece sbalestrata in un rigido interno dell'isola, accanto a un marito e a cognate di educazione e indole differentissime dalla sua, in una casa soggetta ad un suocero scostumato e violento, capace di umiliare la nuora perché meno ricca di quanto si presumeva e di sorvegliare la corrispondenza. Ecco, soprattutto, il pensiero dominante di Ascenzio.
Lei vorrebbe, soprattutto, giustificarsi agli occhi dell'amato, che sa sdegnato per la debolezza di lei. Questo complesso di colpa non l'abbandonerà mai, e sarà uno dei temi più suggestivi delle sue lettere. Recatasi in Noto nel gennaio 1863, implorerà invano un abboccamento con Ascenzio; il 1° febbraio riprenderà la via del ritorno col proposito di uccidersi appena arrivata a Ragusa e abbracciate le sue « due orfane creature ».
L'amor materno, soprattutto, le fa superare la crisi, ma non le attenua il rimpianto del suo paradiso perduto. E le lettere ad Ascenso, dopo o insieme a pretesti letterari, rivelano l'intensità dei suoi ricordi, la fedeltà dei suoi sentimenti, la grettezza dell'ambiente in mezzo al quale deve soffocare ogni suo anelito. La corrispondenza infittisce nel triennio 1869-71, tra il divampare dei ricordi di Mariannina e il vano sforzo di Ascenso per non oltrepassare i temi culturali. A tanta, gelida dignità dell'uomo, che a un certo punto passa dai voi al lei, la penna cade di mano alla donna, nel maggio 1872.
La passione di Mariannina non si effonde soltanto nelle lettere: essa trabocca, per esempio, nelle manifestazioni d'isterismo dell'autunno 1864. Ne fu scintilla la morte della sua terza creatura, di appena dieci mesi, avvenuta il 4 settembre, mentre la madre si trovava nuovamente.incinta. E il medico Pennavaria rimase così colpito da quelle crisi di dolore, che vi pubblicò sopra un opuscolo, nel 1878.
La Coffa, a detta del medico, vedeva telepaticamente quanto avveniva nella stanza della morticina, ripeteva le frasi che venivano pronunziate là dentro, preannunziava la venuta di altre persone, e vedeva... « una luce grande quanto tutto il mondo... Uno grande, con le ali bianche... gli occhi di sole » ecc., e cioè Ascenso, l'uomo che anche nei versi appare come l'Angelo dei sogni, l'uomo adombrato in una lettera allo stesso dottor Pennavaria del 28 giugno 1865 :

« Almeno il mio buon Angelo pensasse a me qualche volta, mi avrei un momento di calma e presentirei quella gioia che mi annuncia il Cielo, ma pare che quest'Angelo mi abbia abbandonato; o è forse troppo grande e celeste per abbassarsi alla terra ».

All'epoca di quest'ultima lettera, Mariannina si piegava teneramente sulla nuova culla: quest'altra figlioletta, concepita durante la lunga malattia cui s'è accennato, non reggeva oltre i quindici mesi di vita, e — a distanza di due anni — raggiungeva nella tomba la sorellina (luglio 1866). Della nuova depressione in cui cadeva la madre, tentavano di confortarla il canonico Sbano e il poeta Emanuele Giaracà, venendo da Noto intorno al settembre 1868, e visitando frequentemente la povera signora insieme al comune amico che li ospitava in Ragusa, Giambattista Lupis.
La seconda metà del '68 addusse due altri lutti alla Coffa : quello della cugina Concettina Melodia e quello del nonno materno, il dottor Caruso; e il pianto per essi è pianto anche per un passato irrevocabile :

« Non è l'amica, non è la congiunta che io piango, è la compagna della mia infanzia e dei miei primi trastulli, l'essere che mi ridesta le più care e dolorose memorie» (lett. al Can. Sbano, 22 agosto 1868); « Povero vecchio! la mia casa materna è rimasta vuota, deserto il giardinetto da lui coltivato ed ove io giocava fanciulletta ; tutto è mutato col' cadere d'una esistenza! Se mai rivedrò la mia patria, io non incontrerò che un amaro silenzio in tutti quei luoghi tanto amati e diletti » (lett. al prof. Antonio Scorsonelli, 30 novembre 1868).

Proprio lui, Ascenso, l'essere che riassume quel passato, viene a Ragusa, come ispettore scolastico, sulla fine del gennaio 1869. Visiterà la concittadina? Il desiderio e il terrore inchiodano la poveretta dietro le persiane, finché, il 1° febbraio, sente il rumore d'una carrozza che certamente si porta via il suo angelo : « Partito! partito senza vederlo, senza poterlo rivedere mai più! Oh la morte! come deve essere soave a chi tutto ha perduto, a chi tutto ha patito sulla terra ».
Non ostante un segno così chiaro dell'indole di Ascenso, Mariannina continua a scrivergli sino agli ultimi barlumi di tolleranza : cessata la quale, non le resta che la morte. « Una forza interiore mi distrugge », ella scrive — con la consueta lucidità di presentimento — all'amico Sbano. Il dottor Penna-varia definisce la malattia che affligge la poetessa nell'ultimo triennio della sua vita come neoginoplasia : ma quei flussi sanguigni e purulenti non sono che un aspetto delle miserie che l'infelice ha dovuto subire.
Sventurata nelle traversie fisiche come in quelle morali, la Coffa non può usufruire neanche d'una cura continua e serena, ma passa — anzi fugge — dalla clinica Bonfanti, di Noto, alla casa del fratello Giuseppe, in Modica, di qui di nuovo alla clinica Bonfanti e infine alla casa materna. Il dottor Migneco, di Catania, aveva prescritto di «allontanare rigorosamente tutte le persone che le riuscissero moleste, qualunque fosse la loro condizione, e respingere indistintamente qualunque visita sino al suo totale risanamento ». Come il dottor Bonfanti eseguiva tale disposizione — della quale noi, ora. possiamo capire tutta l'opportunità — i Coffa fecero una scenata, di cui così Mariannina dava notizia al fratello Vincenzo :

«La mattina del 19 ottobre 1875 la nostra affettuosa madre, dopo avere insultato Bonfanti dal balcone, venne a me con le mani alzate e mi disse: — Figlia sacrilega, noi, noi stiamo riparando al tuo onore. — Dopo ciò il nostro affettuoso padre mi urtò con tale violenza contro il letto, che poco mancò non mi ammaccassi le costole; e, non contento di tanta barbarie, mi andava gridando : — non muoverti di là, scellerata, altrimenti ti ammazzo a legnate — ».

In tanta amara ironia contro i genitori, che spinge l'ammalata alla fuga verso Modica, non c'è solo il risentimento occasionale, ma trema tutto un processo morale, che giungerà fra poco al suo culmine. E' la trasformazione dell'amore nell'odio : l'indole mite e affettuosa, l'istinto atavico di obbedienza e rispetto verso i genitori, l'educazione cattolica, ritardano per anni la terribile metamorfosi, che cova nell'animo della malmaritata almeno dalla Pasqua 1860. Se a ciò si aggiungano le ferite dei suoi ultimi mesi di vita, quando — giacente nella casa materna — ella avvertiva la riluttanza della famiglia a sostenere spese che si addicevano al marito di lei, si capiranno i due ultimi biglietti, indirizzati dalla moribonda al dottor Bonfanti « sopra due pezzetti di carta senza data » (così il Genovesi Caruso) :

« Mandatemi L. 5 ... ora con Ninuzza — aspettava lettera da Ragusa come mi si avvisa nel telegramma — stamattina mandai e non vi era lettera »;
 « Fatemi un favore se potete. Mandatemi L. 25 e poi ve ne rimetterò 30. Stamattina mi sono accorta che tutta la mia ricchezza consiste in 20 centesimi... Ah, Cristo! Sola, abbandonata da tutti, senza un cane che mi guarda, ridotta in uno stato da far pietà, lasciata anche da coloro che hanno finto di amarmi, ed ora mi fuggono perchè sono moribonda... e di più... di più si vorrebbe farmi morire di fame e di miseria?... Io non posso reggere a tanta infamia. Maledetto il giorno in cui nacqui, maledetta la mia esistenza, maledetti i r... che si dicono padre e madre... Ah! se arriverò a non morire!... ».

Morì, invece, all'alba del 6 gennaio 1878 in età — curiosa corrispondenza numerica — di 36 anni, 3 mesi e 6 giorni, contemplando una immagine dell'Addolorata. Lasciava, in Ragusa, il marito e tre figli (Celestina, Gaetano e Salvatore). Della famiglia netina, il primo a seguirla nella tomba fu il padre, che morì di apoplessia l'8 febbraio dello stesso anno. Ascenso, cavaliere e direttore del R. Ginnasio di Noto, si spense, sessantatreenne, il 13 aprile 1893. Accanto a un suo immenso ritratto giovanile, sulla parete della Biblioteca Comunale di Noto, oggi ne pende uno, piccoletto e tremebondo, di Mariannina Coffa, che pur non brama di più.

2. I versi
La cupa disperazione dei due ultimi biglietti citati è il punto di arrivo della vita terrena di Mariannina (e ha qualche eco conturbante nei suoi ultimi versi dedicati a Giuseppe Migneco o a Filippo Santocanale), non quello di partenza, e neanche il suo tono abituale. La sua sensibilità può renderla incline alla melanconia; solo le brutture umane deformeranno quest'ultima sino al terribile grido finale. I segni di questa parabola, che diventa presto calvario, sono i versi e le lettere, soprattutto le lettere ad Ascenso.
Con otto quartine sul Calvario, quasi a funesto presagio, si apre appunto il primo volumetto di Poesie della Coffa, pubblicato nel 1855. A dodici anni, nel marzo 1852, la bambina aveva appena appreso le norme della versificazione, che scriveva endecasillabi e settenari di argomento sacro, e varava un Natale di sapore manzoniano : « Ecco è già nato un pargolo, Pari a ridente giglio » ecc.
L'onomastico del padre, il buon capodanno ai genitori, la monacazione d'un'amica, la morte d'un'altra, erano altrettante occasioni di versi. Le note a qualche componimento (« Il tema fu dato dai signori Alessandro Caruso e Giuseppe Miceli... »; « Questo sonetto fu scritto a penna corrente alla presenza delle giovinette convittrici »...; «Scritto alla presenza di varie persone che diedero il tema e le rime ») aprono uno spiraglio su quelle fugaci soddisfazioni mondane; una, riguardante Il trovatore (una canzone dal mesto ritornello : « Ahi che troppo sventurato Solo al pianto sono nato! »), contiene il nome-destino della fanciulla : « A questa composizione fu apposta la musica del sig. Ascenzio Mauceri giovane notinese » ecc.
L'influenza (e fors'anche, qua e là, lo zampino) del precettore canonico è evidente anche nel secondo volume, i Nuovi canti del 1859, che la giovinetta vorrebbe indirizzare a Dio, alla patria, ai giusti. Per un centinaio di pagine, spesseggiano le rime improvvisate; ma la canzone Ai posteri siciliani, leopardianamente intonata, ha una nota decisa: «la gentile autrice... ha dimesso interamente il pensiero di dettare componimenti estemporanei ». E l'impegno per componimenti più seri giunge fino all'ambizione d'un poema in terzine, tre canti su Vittoria Colonna. Traluce, ogni tanto, qualche pennellata meno inesperta del solito (come La madonna della Scala, « solitaria in valle bruna Al riflesso della luna ») o qualche timido accenno lirico (come nell'ultima poesia A lontana amica : « Gemevan l'onde in suon d'amico pianto, Mandava il monte l'eco del dolor, E lungi, lungi, s'ascoltava il canto Che mormora dolente il pescator»).
Un'educazione letteraria del genere, radicata in un mite temperamento femminile, può raggiungere un dettato più decoroso o pensoso, ma non comporta sorprese: né le poesie pubblicate da qualche amico vivente l'autrice, né il volume antologico a cura del Municipio di Noto, apparso nel 1882 con un breve evasivo giudizio di Francesco De Sanctis, presentano novità sostanziali sugli schemi precedenti. Le mie ispirazioni vogliono essere, ancora, «l'amor, l'umanità, l'Italia, e Dio». Ed ecco le ottave A Maria Vergine Addolorata o S. Giovanni Battista alle sponde del Giordano. Gli sciolti de L'arpa la croce e la spada arieggiano i Sepolcri : Galileo intese « tremar la terra, e l'una e l'altro polo Rotar confusi, e l'astro animatore Dall'ampio circo irradiarli immoto ». E l'umanità, simboleggiata in Psiche, non sa cominciare senza un pomposo « Datemi l'arpa »...
L'amore, veramente, è la nota nuova della poesia della Coffa; ma così avviluppato dal pudore e dalle mezze frasi, così impacciato da immagini convenzionali, da servire appena all'indagine biografica. 
Il sonetto Ad un fanciullo ha versi che soltanto chi conosce le lettere può integrare :
« Sai tu perché sospiro, e quanto, e come 
E' triste il cor, che t'ama e ti desia ? »
La lirica Ad una amica si apre con un accenno alle ore notturne, predilette per scrivere ad Ascenso :
« E' notte... ed io nella diserta stanza . 
Chiudo ai profani l'agonia del core»...
E il Canto notturno gorgheggia sopra un contrasto, che soltanto nella verità delle lettere diventa straziante:
« Tu dormi ed ami - nel tuo pensiero 
Ferve la possa d'un mondo intiero; 
Sogni una cara - gioia romita, 
Cinta di luce - t'appar la vita.
..........
Solo il mio core - che al pianto è nato 
Solo il mio core - dovea languir ».
Qualche rara volta, il sentimento riscalda la parola paludata o circospetta, e nasce l'invocazione All'angelo mio
(« Angelo mio, che i sogni innamorati 
Soavemente riconforti e bei, 
Che sorridi pietoso a' lagni miei, 
E ridesti la mente ai dì beati »...),
il vagheggiamento-terrore di quei suoi « bruni occhi ispirati... Fissi, immoti, tremendi, addolorati» (Sara); l'incanto della fanciulla che « con pudico tremito Cinge di sposa il vel », ma solo in Un sogno che precipita in catastrofe; il pianto sul gelsomino appassito, di Ricordi fantastici:
« Or se ti veggio - pur da lontano, 
Mi trema il core - mi struggo invano;
Non so rivolgerti - amico un riso, 
L'occulto foco - m'arde nel viso: 
Vorrei fuggirti - ma piango e gemo; 
Se a me ti appressi - deliro e temo; 
Se mi favelli - del tuo dolor, 
Mi struggo invano - mi trema il cor ».
L'occulto foco è davvero il motivo dominante di Mariannina Coffa: un motivo ch'essa comprime nei versi, per non offuscare la propria reputazione di sposa e di madre, o al più accoglie nelle forme vaghe e cantabili consuete alla sua lira.

3. Le lettere
Ma la notte, quando la casa dorme e i doveri di famiglia sono stati assolti, quando Mariannina scrive per lui solo, Ascenso, l'Angelo dei suoi sogni, sicura' che occhio profondo non scruterà le sue lettere, libera da ogni modello letterario e schema metrico, quando la sua cultura e il suo brivido poetico formano tutta una cosa con il grido dell'anima, la notte quell'occulto fuoco divampa con tale pienezza di sentimento da raggiungere quella della forma, con tanta immediatezza fra parola ed affetto da commuoverci ancora, a distanza d'un secolo, mentre i versi ormai giacciono in legittimo oblio. Come Gaspara Stampa riversava la sua passione nelle rime, così la Coffa — con penna più pudica ma non meno efficace della padovana — fa nelle lettere : né le une né le altre, a rigore, sono opera di poesia, ma schiudono mirabilmente, e proprio con scintille poetiche, tutta una storia d'amore e di dolore, tutta una vita di donna.
L'importanza psicologica, letteraria, e anche per la storia del costume, dalle lettere di Mariannina Coffa risulterà piena quando (superata l'avversione o l'apatia nostrana per tutto ciò che non è già consacrato dalla fama o scandaloso o pornografico) sarà pubblicato quanto resta del carteggio tra la poetessa e Ascenso Mauceri, il canonico Sbano, Giambattista Lupis, Filippo Pennavaria, Carmelo Pardi, ecc. Ma anche le sole trentanove, integrali lettere ad Ascenso da noi pubblicate nel 1957, dovrebbero bastare per accrescere d'una voce il patrimonio del nostro Ottocento letterario.
Questa voce è, soprattutto, sincera. Basta appena ambientarsi nello stile corrente verso la metà del secolo (abbondante di lineette, puntini, punti esclamativi, oh, ah, obliare, celare, ecc.), basta appena familiarizzare con le peculiarità ortografiche e lessicali di Mariannina (che scrive Zabbro e dubbio anche con una sola b, e publicare, affligere, febre, alcerto, e qualche sicilianismo come ordinaria eloquenza per grossolana, ritirarsi per rincasare, travagli domestici per faccende, superbia per fierezza o dignità morale, alienare e alienazione per distrarre e distrazione, esser spiegato per esser deciso, lagnata per offesa, una mostra per un campione, per accidente invece di per caso), per avvertire un incanto che talvolta si cerca invano anche in sommi maestri della penna : la trasparenza, il respiro dell'anima.
Bruciante, in Mariannina, non il desiderio dell'amato, ma l'idea ch'egli la disprezzi, il bisogno di chiarirgli che i giuramenti rivoltigli da fidanzata non erano bugiardi, ch'ella non è stata dal vel del cor giammai disciolta, la suprema speranza di fargli leggere il memoriale delle sue sventure o addirittura di parlargli, « piangere un istante ai suoi piedi... piangere per una colpa non sua... e udirgli ripetere una parola di perdono ». Questa parola, dalle labbra e dal cuore di Ascenso se non dalla sua penna circospetta, Mariannina non l'impetrò mai; e ciò accrebbe il suo senso di colpa, che la farà sempre rivolgere al suo nume, anche per argomenti banali, con un tremito che ricorda i santi della Sistina.
Sarebbe ozioso e malsano l'ipotizzare quale corso avrebbe preso la passione e la condotta della donna, se Ascenso l'avesse secondata. Certo è che, così come si effonde nella realtà, questa passione rimane tanto profonda quanto estranea a qualsiasi velleità adulterina e carnale («ho io speranza, dubbio, desiderio di vedere la mia sorte unita alla vostra?... No, Ascenso : nulla di tutto ciò mi attraversa la mente anche per poco»). 11 suo regno si estende ben oltre le situazioni che, a lungo andare, rendono monotoni gli epistolari amorosi : si estende a ricordi freschissimi dell'adolescenza innamorata, ai primi e sempre risorgenti brividi di gelosia, alle amarezze e umiliazioni subite, a scene momenti ricordi tutti parlanti eppur modulati da un gemito sommesso, filtrati da un velo di lacrime che digrada da un'ombra di sorriso a disperati singhiozzi.
«E voi senza scrivermi? aspettavate forse la mia colle ottave? Or bene; non vi dirò mai più quando dovrò mandarvi qualche cosa : così almeno penserete a rispondermi ». Questo sorriso così dolente e innamorato diventa magari ironico sotto la sferza della gelosia; ma non regge né sotto una forma né l'altra : o esplode in tenerezza, o si spegne in un gemito : « Voi non farete mai dono di gelsomini ad alcuna donna ».
Tanta verità sprigiona poesia senza che la poesia sia cercata, per sintesi fra la cultura di chi scrive e l'impeto sorgivo della confessione. La scena, avanti ricordata, del bacio sulla mano concentra il chiaroscuro temporalesco proprio su quella mano che prima si vorrebbe stringere e poi si vede appoggiata sul foglio quasi a calamita delle labbra, e infine si bacia con un ritmo ch'è sigillo per sempre : « appoggiai le labbra ardenti ». La rievocazione del matrimonio (nella stessa lettera del 9 marzo 1870) assorbe senza residui, cosa mai avvenuta nelle liriche della Coffa, movenze dantesche («Io non potei piangere»...), manzoniane («Guardai... guardai...»), leopardiane (« Ove eravate voi, o mio diletto? »); spoglia il dolore della malmaritata d'ogni posa lacrimogena, tuffandolo nei particolari più ovvi con una tecnica che diremmo pre-ver-ghiana; costruisce, d'istinto, periodi brevissimi e rotti come la sua esistenza; trova un ritmo trasognato in chiave di cronaca.
Il paesaggio di Mariannina, che nella lirica sbiancava fra il Berchet e il Prati, assume ora due poli tanto ben definiti geograficamente, quanto impregnati di due stati d'animo: Noto, con la nostalgia del giardinetto del nonno, del « verone ove solevo spesso sedermi le belle sere di maggio e di ottobre», dalla «finestra che dà sul giardino», dalla quale si poteva scorgere l'abitazione del Mauceri, e perciò la giovinetta vi passava «tante ore» nei «dolci giorni d'està»; Ragusa, col suo cielo « che opprime l'anima », la sua neve da Siberia, i suoi « alberi ritti come spettri », le « alte montagne biancheggianti». Il raccordo fra i due paesaggi passa, leopardianamente, dal gusto del rimembrare alla contemplazione degli astri : « quando le lunghe sere guardo estatica il cielo »...
Altre sfumature meno appariscenti si sveleranno a chi avrà notato il pudore e la misura delle espansioni della Coffa. Allora si capirà il biglietto del 31 gennaio 1863, dove le lacrime si vedono ancora e non soltanto nelle macchie del foglio; l'erompere della parola « amore », o dell'aggettivo mio accanto al nome di Ascenso, in pochissime fra le lettere post-matrimoniali; l'assurda e commovente implorazione perché Ascenso non faccia un viaggio in continente (« Partire! andare così lontano, lasciare tanti amici, Ascenso!... quasi che non fosse bastante il terreno che ci divide. Ma perché dirmelo, Ascenso mio...? »); il « muoio di gelosia » del 29 gennaio 1870; la domanda verso la fine della lettera del 9 marzo 1870, lasciata cadere come per caso, ma di sconvolgente rivelazione sui pensieri dell'innamorata (« la sera andate a conversazione? — uso una parola antica »); l'eroismo del consiglio perché Ascenso prenda moglie; il gemito delle due ultime lettere sul voi di Ascenso che si è mutato in lei...
E frasi, scritte magari di sfuggita, magari per inciso, ci fermeranno e forse offuscheranno lo sguardo, per la loro carica di dolore e di concisione, di verità e di bellezza : « Non ho veduto il sole, ma ne ho inteso il calore »; « io sono sposa e madre: ho perduto il dritto di lamentarmi»; «l'anima mia era destinata a vivere del proprio alito, e incenerirsi nel proprio fuoco»; «piangere io posso, ma non mai accusarvi»; « come il cieco che ama i caldi raggi del sole senza poterne ammirare le splendide bellezze »...; « se è solo la pietà che vi muove a scrivermi, fate che io non lo sappia mai, non umiliate me e il mio amore, non mi costringete a disperare della Provvidenza ».
Oltre che un dramma vissuto fino alla morte, e in gran parte rivissuto  letterariamente,  il carteggio  di Mariannina Coffa ci dà testimonianze di costume che — almeno in Sicilia — non sembrano ancora fuori stagione. Questa creatura che pur sembrerebbe suscettibile (e lo è realmente per qualche aspetto secondario) d'una certa liberazione dalla soggezione connessa al fatto di nascer donna, è realmente convinta, l'abbiamo visto, di aver «perduto il dritto» di lamentarsi perché ormai « sposa e madre ».
Già a diciannove anni si accorge che i genitori la feriscono senza pietà, ma non osa cessar di adorarli (testo d'una sua lettera ad Ascenzio, del 24 novembre 1859 : « ho amato, ho adorato sempre coloro che senza pietà mi ferivano, perché i doveri di figlia li ho scolpiti nell'anima, né può cancellarli l'amor tuo ») : solo all'orlo della tomba sarà capace di scrollarsi dalle spalle un'adorazione così mal riposta.
Benché sposata da nove anni, il padre non esita a scriverle che Ascenso sta per venire da Noto a Ragusa, che dunque ella lasci subito la città e rimanga a Modica fin quanto l'antico fidanzato non sia partito da Ragusa (« Mio Padre mi pregava, anche a nome dello Zio Melodia, di partire al più presto»...). La poveretta scrive ancora con lettera maiuscola Padre e Zio, li rasserena senz'ombra di indignazione; e anche noi comprendiamo che la loro lettera non ha altro movente che il presunto bene di Mariannina : ma non è meno villana e coercitiva per questo.
Qual campione di civiltà, però, diventa l'avvocato Coffa in confronto del suocero di Mariannina? Don Gaetano Morana ha « diritto di vita e di morte » su tutta la casa, apre la corrispondenza della nuora, vi cancella qualche frase che non gli garba prima d'impostare, e si vanta di non aver fatto studiare le sue figlie « perché lo scrivere rende le donne disoneste»; «è causa di danni». In Chatterton di Vigny, John Bell dice qualcosa di simile alla moglie : « Depuis quelque temps vous lisez trop; je n'aime pas cette manie dans une femme »... Mariannina rivendica la libertà della sua corrispondenza, ma non potrà mai viver tranquilla neanche su quel tema. In casa, all'ufficio postale, presso i familiari di Ascenso, ovunque c'è pericolo di perfidie, indiscrezioni, maldicenze.  E allora non si fida d'altro che della balia, scrive ad Ascenso per tramite del canonico Sbano, dall'uno e dall'altro si fa indirizzare presso il « Sig. Giambattista Lupis, con doppia soprascritta », e finalmente, il 3 aprile 1871, ossessionata dal timore che il suocero, anzi « il demonio... apra con una chiave falsa » la cassettina delle lettere, rimanda queste ultime ad Ascenso.
Gelosa della sua corrispondenza, Mariannina non soffre tuttavia del divieto perché una signora non vada sola a far visite o gite di sorta. Il marito d'una sua amica è mortalmente ammalato, ma lei non può che mandare a chieder notizie : « non vidi più la Lucia, né potei visitarla perché mio marito era a Siracusa ». Ascenso si costruisce una villetta alla Scala : « ma credete ch'io possa vedere il vostro asilo campestre? E chi mi condurrebbe in quei luoghi? Non ne sarei piuttosto allontanata, sapendo che ci siete voi? ». Né solo la persona, ma neanche la fotografia dovrebbe circolare! Una notizia del genere sconvolge la signora, le dà tema di venir « compromessa ».
Mite anche innanzi ai pregiudizi del suo tempo, Mariannina si stacca e solleva per il dolore di non aver potuto vivere la vita che quelli le consentivano, anzi le promettevano. Questo dolore logorò e accorciò un'esistenza, ma le dettò, insieme, le lettere ad Ascenso. Le quali non bestemmiano né imprecano né maledicono, eppure toccano il cuore con l'evidenza delle cose. Non indulgono a frasi e situazioni tese o risonanti, anzi seguono movenze dimesse, eppure rivelano una mente classicamente educata, un'indole ardente e pudica oltre ogni dire. Di contro a tanta letteratura moderna, che parte proprio dall'impudicizia col pretesto di realizzare maggiore sincerità e passionalità, Mariannina Coffa effonde la sua passione senza alcun velo ipocrita, ma con tale ripugnanza di ogni stimolante afrodisiaco, con tale compenetrazione spirituale ad ogni sua frase, che il pudore diventa lo stesso respiro delle sue pagine, la poesia della sua passione anche quando non è la poesia della sua parola.

4. Le due capinere
A definire Mariannina Coffa « capinera ferita », con evidente rapporto alla Storia di una capinera di Giovanni Verga, fu primo lo Sgroi, in un saggio del 1931. L'ambiente siciliano, l'epoca, l'analogia degli avvenimenti e dei sentimenti, legano in verità le due creature più che due sorelle, al punto che qualcuno ha creduto di ravvisare nel romanziere la conoscenza della poetessa. Il romanzo usciva nel 1871, mentre Mariannina, sposa infelice, languiva a Ragusa da un decennio: ma nessun legame consapevole, neanche genericamente culturale, esisteva fra lo scrittore catanese e la poetessa netina. Il legame era soltanto nel sangue siciliano. Verga non faceva che battezzare un complesso psicologico : ma a nessuna creatura, meglio che a Mariannina Coffa, si potrà ormai attribuire il nome di capinera.
Il confronto tra le due capinere ha questo punto di partenza: quella reale, Mariannina Coffa, è separata dal fidanzato da un matrimonio impostole dai genitori; quella immaginaria, la Maria verghiana, è separata da Nino dalla monacazione, impostale dalla matrigna. Le lettere dell'una sono indirizzate ad Ascenso, le lettere dell'altra s'immaginano rivolte ad un'amica.
Cos'è, anzitutto, l'uomo amato per una «capinera»? E' un angelo; non simile a un angelo, ma un angelo in piena regola. Della Coffa conosciamo la lirica All'angelo mio e le crisi isteriche durante le quali vede « Uno grande, con le ali bianche». La Maria verghiana pensa al suo Nino «con tale tranquilla dolcezza che le pareva essere fra gli angeli, ed uno di questi che si chiamava Nino la avesse preso per mano, la chiamasse per nome, e guardassero entrambi le stelle ».
E la casa dell'angelo? La poetessa non fa che ricordare la propria casa natale «e il verone ove soleva spesso sedersi le belle sere di maggio e di ottobre », contemplando la vicina dimora di Ascenso. La capinera verghiana, «qualche volta, all'alba, quando è ben sicura che nessuno potrebbe sorprenderlo, apre pian piano la finestra per vedere laggiù, in fondo alla valle, la casa dove egli [Nino] abita, dove egli dorme forse a quell'ora, per vedere il suo tetto, la sua finestra, quel vaso di gelsomini, quella vite che ombreggia la sua porta».... Un ballo, che per tante ragazze moderne è cosa di ordinaria amministrazione, sconvolge la poetessa già sposa : « Una sera... mi si costrinse a ballare... Oh me infelice! e fra tante mani, di gente che appena conoscevo, io dovetti stringere la vostra mano, tremando per tutto il corpo»... A maggior ragione Maria avanti la monacazione: «Ho ballato!... intendi? ho ballato!... con lui».
Tanto al matrimonio dell'una, quanto alla monacazione dell'altra, non la madre o la matrigna, ma il padre piange. L'avvocato Salvatore Coffa « pareva invecchiato di venti anni», piangeva «come un fanciullo»; il padre di Maria « piangeva. Perché piangeva? ». I due momenti culminanti del sacrificio sono accumunati da questo sentimento di dolore e di rimorso da parte del genitore.
Dopo, Ascenso avrà altre donne, Nino sposerà Giuditta, sorella della povera monaca. « Muoio di gelosia », geme la poetessa. E l'altra si contorce all'atroce spettacolo degli abbracci fra Nino e Giuditta.
« Come vivo io, Ascenso (chiede la Coffa il 3 aprile 1871), come sono vissuta undici anni fra il sospetto, la malignità, il disprezzo, la cupidigia e l'interesse? » E come in un canto amebeo risponde Maria : « Quei due cuori felici avranno pensato qualche momento... a questa povera donna che si muore qui, sola, derelitta? ».
Una volta Ascenso viene a Ragusa per una ispezione scolastica : la donna segue i suoi movimenti « nascosta dietro le persiane», finché si accorge che quello è partito, «partito senza vederlo... senza poterlo rivedere mai più! ». La creatura verghiana ha un grido analogo: «E' partito!... è partito!»; e più avanti, quando sarà rinchiusa in convento, anche lei vedrà-non vista il suo uomo, in tutto simile ad Ascenso : « Egli passava insieme ad altri amici suoi... Non ha levato nemmeno gli occhi... Non si è forse rammentato che in questo convento ci doveva essere la sua Maria»...
Le due capinere non si pongono neanche il problema dell'amore sensuale, tanto è il pudore connaturato alle loro indoli verginali; ma amano con una intensità che spaventa, fino a temere la pazzia. La Coffa avverte il « fuoco nell'anima e il ghiaccio sulla fronte » (9 febbraio 1870), la monaca sente un serpe « fitto nel cuore », l'una intuisce di non poter « durare a lungo in simile stato », l'altra « ha paura » d'impazzire.
La crisi finale e mortale strappa alle due sventurate un grido di maledizione, tanto più toccante in quanto contrapposto (e legato insieme) a tutta una vita di rassegnazione esteriore ai voleri o pregiudizi altrui. Scrive la Coffa al suo medico: «Maledetto il giorno in sui nacqui» ecc. Grida la monaca : « Maledizione! maledizione su me, su lui, su tutti!».
Crisi tanto violenta quanto episodica : le due creature rimangono, nel nostro ricordo, vittime della loro stessa mitezza. E l'analogia del loro destino può sorprendere solo chi non conosca quel volto della donna siciliana, che resterà ormai sotto l'insegna della capinera. Capinera è la giovinetta per la quale il primo amore, quali che siano i contrasti della famiglia o della società, quali che siano gli atteggiamenti dell'uomo amato, si svolge e sublima nel chiuso della propria anima, sino a morire con lei.
Non diciamo che tutte le donne di Sicilia amino alla capinera, né che donne non siciliane non possano amare allo stesso modo; diciamo che il Verga — sia pure sotto forma letterariamente immatura e convenzionale — ha indovinato un segreto di molte donne della sua terra. Il confronto fra le lettere di Mariannina Coffa e il romanzo giovanile del Verga fa meglio apprezzare la bellezza delle prime e la verità del secondo.
Gino Raya

BIBLIOGRAFIA
1. Scritti di Mariannina Coffa

1)  Poesie in differenti metri di M. C. C. da Noto, Siracusa, Stamperia Pulejo, 1855, pagg. 80.

Dedica : « A voi miei amati genitori » ecc. Prefazione di Giuseppe Miceli Di Blasi, datata 30 dicembre 1854. I primi tre componimenti (Il Calvario, S. Luigi, Il Natale) appartengono al 1852. Rec. di Carmelo Pardi, «La Favilla», Palermo, 16 ottobre 1856.

2)  Nuovi canti di M. C. C, da Noto, Noto, Stamperia Spagnoli, 1859, pagg. 192.

Precedono due pagine dell'« Editore incaricato » (certamente Corrado Sbano) sull'« arcana potenza di un fenomeno ideologico psicologico », sulla « non lieve soma » che « grava su coloro che attorniano questa peregrina giovanetta », e sui futuri meriti di lei « appo la patria, appo gli uomini, appo l'Eterno ». Segue un corsivo dell'autrice Alla patria : « A te dunque, Italia mia,... non sarà discaro » ecc. 1 componimenti appartengono al biennio 1855-56: molti sono improvvisati, ma all'inizio delle Canzoni, dedicate allo Sbano, si legge che « la gentile Autrice, dopo i vari consigli di persone culte e sue amiche, ha dimesso interamente il pensiero di dettare componimenti estemporanei ». Con ciò, purtroppo, non si cancellò mai nella C. l'abito della improvvisazione alla Giannina Milli.

3)  Nuovi canti di M. C. in Morana da Noto, Torino, Stamperia dell'Unione Tip. Editrice, 1863.

Edizione curata (oltre che da G. B. Lupis e C. Sbano) da Michele Bertolami (avvocato, letterato, deputato al Parlamento), il quale « tro-vossi venuto in Ragusa e... conobbe e ammirò [M. C] da stupore rapito » (Sbano, Memorie cit. al n. 26, pag. 42). Dedica allo stesso Bertolami. Componimenti distinti in Affanni e voti patriottici (Le mie ispirazioni, 1858; Un volo sulle Alpi; a Garibaldi; A Vittorio Emanuele; In morte di Cavour; ecc.) e Memorie ed affetti {Ad un fanciullo; A mio padre; Sara, ecc.). Parecchi son riprodotti nell'edizione del 1882 (n. 12). Rec. di Carmelo Pardi, « La Favilla », Palermo, 1863, pagg. 560; dove viene trascritto un biglietto del Tommaseo (« Ricevo il libro della M. C. Caruso, dal quale a me pare che venga all'illustre Isola onore grande. E non dubito che del libro con le debite lodi parlerà la Favilla »).

4)  M. C., San Giovanni Battista alle sponde del Giordano,  La donna e la famiglia », Genova, 1866, vol. V, pag. 262.

Riprodotto nell'ediz. del 1882  (n. 12).

5)  M. C, Versi sciolti all'Accademia universale di Scienze ed Arti di Parigi, «La donna e la famiglia», Genova, 1868, pag. 647.

D 10 aprile 1867 la C. era stata nominata socia di quel sodalizio: gli sciolti che ne scaturirono commossero « sino all'entusiasmo delle lacrime » gli accademici « del Progresso », di Palazzolo-Acreide, i quali acclamarono la C. loro socia corrispondente il 7 aprile 1868.

6)  M. C, A Maria Vergine Addolorata, «La donna e la famiglia», Genova, 1868, vol. VII, pag. 275.

Datato 23 novembre 1867. Riprodotto nell'ed. del 1882 (n. 12). Il Pennavaria (n. 21) riporta, in proposito, una lusinghiera lettera del Tommaseo alla poetessa, del 15 aprile 1869.

7)  M. C, Ode in morte di Adelaide Cairoli-Bono, in Raccolta di versi e prose d'illustri signore italiane, 1871.

Rec. entusiastica nel «Motto d'ordine», Napoli,  1871, n.  127.

8)  M. C, Ode a Giuseppe Migneco, « La donna e la famiglia», Genova, ottobre 1875.

Inizia l'ultimo nucleo della poesia della C, denso d'uno sconforto che sfiora la disperazione :

« Ben io talor vorrei 
Tentar la mesta voluttà del canto; 
Ma confuso è lo sdegno ai versi miei 
E l'arpa offesa non può dar che pianto! »;

oppure :

« Dolor sì fero, inaspettato, immenso 
Ha distrutto il mio core a parte a parte; 
Quando in me stessa mi racchiudo e penso, 
Io non credo all'amor, non credo all'arte.
Ogni legge sprezzando ed ogni affetto 
Io vorrei dentro al nulla inabissarmi, 
E gridare al Signor dall'imo petto: 
Perché, perché crearmi? »

9)   Versi inediti di M. C. C. in Morana da Noto, pubblicati per cura dell'affezionato ammiratore F. Santocanale, Palermo, Stab. tip. Lao, 1876, pagg. 14.

Dedica : « Al D.r Giuseppe Migneco - Al D.r Lucio Bonf anti -i soli che con amore paterno - vegliano pietosamente sulla mia vita -affranta da lunga e crudele malattia - offro questi versi - troppo tenue attestato - della mia eterna riconoscenza - Noto, 15 ottobre 1876 ». Segue l'unica lirica Luce e tenebre, datata 5 maggio 1873, e riprodotta nell'ediz. del 1882 (n. 12).

10)  Ultimi versi di M. C. C. in Morana, Palermo, Tip. Virzì, 1878, pagg. 20.

24 quartine A Filippo Santocanale, datati 24 novembre 1877, e dunque a una quarantina di giorni dalla morte. Canto del cigno di chi si « appresta all'ultimo viaggio », non vede più alcun « compenso all'anima ferita » che possa ancora legarla alla terra, ricorda come ha dovuto « a giorno, ad ora ad ora. Fra morta gente mendicar la vita », senza « patria, amici, congiunti », senza un'« alma pietosa » che versasse una lacrima sul suo « diserto capezzal », presaga che non rivedrà più il suo maggio prediletto, ma. « stanca d'una inutil guerra », poserà « nella natia vallata », trovando quella pace che consiste nel sottrarsi alla « volubil torma » dei malvagi;

« e un dì. povero amico, a te fian vanto, 
più che le glorie mie, le mie sventure; 
farà pianger di me le età venture, 
questo ch'io ti rivolgo ultimo canto ».

L'accorata lirica (che si trova riprodotta nelle Poesie scelte : n. 12) fu pubblicata a cura dello stesso avvocato Santocanale, il quale « da immenso, quasi paterno affetto era stato invaso per Lei [M. C], e, vecchio venerando, era da Palermo venuto in Noto per vederla, confortarla, ed indurla a trasferirsi in Palermo; ma tal pio desiderio non venne adempito; e forse le sarebbe giovato il consiglio e la preghiera » (Sbano. Memorie cit. al n. 26, pag. 60). L'opuscolo contiene altresì la canzone dello Sbano, descritta al n. 23.

11)  Un sogno, versi inediti di M. C. C. per cura di Giuseppe Conforti, Noto, Zammit, 1878.

Riprodotto nell'ediz. del 1882. « Un sogno è l'espressione di un ideale non materializzato» (G. Conforti). Sulla stessa lirica, un art. del D.r Filippo Pennavaria, « La veglia », Noto, 6 ottobre 1878.
11 bis) Lettera della poetessa M. C. al Sig. Miceli Di Blasi, Noto. Zammit, 1879.
La lettera è del 1863.

12)  M. C, Poesie scelte a cura del Municipio di Noto (edizione postuma), Noto, Off. tip. di Fr. Zammit, 1882, pagg. 294.

Il volume si apre con un giudizio di F. De Sanctis (« L'autrice di questi versi non osò esser donna, e cullò tutta la vita ne' sogni e ne' desìi vaghi indefiniti della prima età. Ti giungono susurri, mormorii, melodie, e non sai onde vengono e dove vanno. Martire della sua anima rimasta vergine e quasi infantile, passò sulla terra, guardando al cielo, dove cercava la patria sua, e dove sperava quiete. Questi versi raccolse la sua città natale con pietosa cura, e onorando lei onorò se stessa. Napoli 1883 ») e rapide Notizie biografiche. I 52 componimenti raccolti non portano alcuna data. Fra i membri della commissione incaricata della pubblicazione era Ascenso Mauceri.

13)  Lettera inedita dell'illustre poetessa netina M. C. C, diretta ai Deputati del Parlamento italiano,  «Aurora», fa scicolo ricordo in occasione della riapertura del R. Liceo di Noto, Noto, Tip. Cavarra, 1898.

Il governo italiano, nel 1862, trasferì il capoluogo di provincia da Noto a Siracusa. M. C. interpretò la reazione dei suoi concittadini, e tentò di scongiurare il provvedimento, in un indirizzo « A ciascuno dei Deputati » italiani, datato 6 giugno 1862, e rimasto inedito presso il fratello di lei, Vincenzo Coffa. Il ms. fu poi regalato da Vincenzo alla Bibl. Comunale di Noto; e, infine, pubblicato da Francesco Genovesi-Caruso nel numero unico in parola.

14)  Lettere inedite di illustri scrittori a Concettina Ramondetta Fileti, Palermo, 1911.
Contiene due lettere di M. C.

15)   M. C, Lettere ad Ascenso, a cura di Gino Raya, Roma, Ciranna, 1957, Collana di «Narrativa», pagg. 184.

Scriveva il Cassone nel 1896 (n. 28) : « Dove le intime carte, dalle quali, senza ombra di dubbio, uscirebbe illesa la memoria della sua vita pura e incontaminata? » (pag. 18). E il Genovesi-Caruso, nel 1900 (n. 33), non era meno rammaricato d'ignorare il contenuto della « famosa cassettina in cui la Coffa teneva i suoi scritti più intimi ». Qualche lettera inedita, pubblicata posteriormente, riguarda la corrispondenza con lo Sbano o con altri; ma le intime carte (conosciute, ma non adeguatamente apprezzate dallo Sgroi: v. nn. 37 e 38) vedono solo ora la luce. L'edizione comprende, integralmente, 39 lettere di Mariannina ad Ascenso, fra le più significative delle 86 che rimangono, e corredate di note che riportano, principalmente, frasi correlative delle lettere di Ascenso a Mariannina, le quali ammontano anch'esse ad una ottantina. L'introduzione è uno svolgimento degli scritti ricordati ai nn. 40 e 41.

venerdì 8 aprile 2011

La poetessa Mariannina Coffa 1841-1878

Una poetessa maledetta dell’Ottocento


La poetessa Mariannina Coffa Caruso, detta “La capinera di Noto”, “La Saffo netina”, nacque nel 1841 a Noto (Siracusa), dove morì nel 1878, a 36 anni, 3 mesi e 6 giorni. Fu una bambina sensitiva e precocemente ispirata che il padre, noto avvocato patriota, impegnato nelle rivoluzioni del 1848 e del 1860, si compiaceva di fare esibire nei salotti e nelle accademie con le sue poesie improvvisate su temi dettati estemporaneamente.
Dopo qualche anno di collegio in cui imparò versificazione e un po’ di francese, mentre solo i suoi fratelli poterono apprendere anche il Latino, le fu messo accanto come precettore Corrado Sbano, un canonico zelante, allo scopo di istruirla e disciplinare insieme gli slanci del carattere indipendente e dell’estro focoso.
A 14 anni, cominciò a prendere lezioni di piano dal 25enne Ascenso Maceri, diplomato al Conservatorio S. Pietro e Maiella di Napoli, politicamente vicino all’ambiente del Ministro Matteo Raeli (l’estensore della Legge sulle Guarentigie), autore di drammi storici che saranno rappresentati alla Fenice di Venezia. E fu subito innamoramento, malgrado la differenza d’età! Ascenso era biondo, bello e di gentile aspetto, un intellettuale giramondo di sicuro avvenire, cicisbeo delle Raeli madre e figlia, il più esclusivo salotto della città.
Ma, dopo un breve fidanzamento ufficiale, la famiglia le impose di sposare, a 18 anni, il giorno di Pasqua del 1860, un ricco proprietario terriero di Ragusa che la recluderà nella casa del padre, un uomo rozzo e meschino, di nascosto al quale dovrà scrivere le sue poesie e le sue lettere, al lume della candela nelle interminabili notti in cui Giorgio, il marito, per un po’ sindaco di Ragusa, la lascia sola.
Per suo suocero, infatti, “lo scrivere rende le donne disoneste”, ragion per cui non aveva permesso alle proprie figlie di apprenderlo.
Intanto, tra continue gravidanze che tormentavano il suo gracile corpo, il dolore per la morte di una figlia, la cura dei altri figli e i pesanti lavori di casa, intreccerà una relazione epistolare con l’orgoglioso fidanzato di un tempo, che non le perdonerà, però, mai la resa supina al volere dei genitori e il rifiuto della “fuitina” da lui propostale, e rifiuterà l’appuntamento che lei, già donna sposata e più volte madre, rischiando grosso, gli darà nella stessa Ragusa.
Mariannina sarà così costretta a vivere una vita sdoppiata, iscrivendosi ad associazioni ed accademie italiane e straniere e pubblicando per riviste nazionali, specialmente “La donna e la famiglia” di Genova.
L’amicizia con un dotto medico originario di Augusta e poi residente a Catania, Giuseppe Migneco, omeopata e magnetista animale, famoso per le efficaci cure prestate in occasione delle epidemie di colera, ma più volte esiliato per “esercizio di arte diabolica” e “spiritismo”, la introdurrà ai metodi del sonnambulismo e agli arcani del magnetismo, sistemi anatemizzati dal Papa e coltivati all’interno di élites massoniche democratiche, in realtà prodromi positivisti della successiva matura Psicanalisi, coi quali la poetessa cercherà di curare le malattie e i disagi del suo corpo e della sua psiche. Si iscriverà a diverse società occultiste e teosofiche italiane e straniere e, attraverso un discepolo netino del Migneco, il dott. Lucio Bonfanti, medico omeopata e democratico del 1860, sarà introdotta nella Loggia Elorina, le cui insegne appariranno in pompa magna durante i funerali della poetessa.
Ne nascerà l’ultima straordinaria, purtroppo breve, stagione poetica, fitta di riferimenti simbolici al “gran concetto” e improntata alla “protesta metafisica”, dopo la prima giovanile poesia patriottica di maniera e l’intermedia fase intimista.
Prostrata dalle emorragie provocate da fibromi all’utero, abbandonerà la casa del marito per trovare nella città natale un clima sereno adatto alla cura omeopatica, rifugiandosi a Noto, nella casa dei genitori, che la cacceranno via perché non ricada su di loro il disonore, e finirà i suoi giorni tra la fame e gli stenti, assistita da un anziano medico omeopata: nessun familiare vorrà pagare le prestazioni di un chirurgo catanese il cui intervento avrebbe potuto probabilmente salvarle la vita.
Pochi mesi prima di morire, quando la famiglia ragusana le porta via il figlio che alleviava la sua solitudine e confortava i suoi ultimi giorni di vita, grida in alcune lettere la sua ferma volontà di divorziare, mentre il divorzio è un istituto ancora molto di là da venire.
La sua rassegnazione si trasforma in odio verso quei genitori i cui voleri ha sempre eseguito pur contro la sua stessa volontà, la sua obbedienza filiale si tramuta in desiderio di vendetta e chiede a Dio ancora qualche giorno di vita per rendere pubbliche le violenze, le manomissioni, le subornazioni, le umiliazioni a cui è stata sottoposta e che la conducono alla morte.
Malgrado la fama di “poeta maledetta” diffusasi negli ultimi tempi della sua vita, la sua città dichiarò il lutto cittadino, si assunse su di sé le spese del funerale e le fece erigere una statua in marmo di Carrara, sita ancora ora nella Piazzetta d’Ercole.

Mariannina Coffa di Marinella Fiume

Opere
Poesie in differenti metri di M.C.C. da Noto, Siracusa, Stamperia Pulejo, 1955
Nuovi canti di M.C.C. da Noto, Noto, Stamperia Spagnoli, 1859
Nuovi canti di M.C. in Morana da Noto, Torino, Stamperia dell’Unione Tip. Editrice, 1863
San Giovanni Battista alle sponde del Giordano, in “La donna e la famiglia”, Genova, 1866, vol.V, p. 262
Versi sciolti all’Accademia universale di Scienze ed Arti di Parigi, in “La donna e la famiglia”, Genova, 1868, p. 647
A Maria Vergine Addolorata, in “La donna e la famiglia”, Genova, vol. VII, p. 275
Ode in morte di Adelaide Cairoli Bono, in Raccolta di versi e prose d’illustri signore italiane, 1871
Ode a Giuseppe Migneco, in “La donna e la famiglia”, Genova, ottobre 1875, p. 230
Versi inediti di M.C.C. in Morana da Noto, pubblicati per cura dell’affezionato ammiratore F. Santocanale, Palermo, Stab. Tip. Lao, 1876
Ultimi versi di M.C.C. in Morana, Palermo, Tip. Virzì, 1878
Un sogno, versi inediti di M.C.C. per cura di Giuseppe Conforti, Noto, Zammit, 1878
Lettera di Mariannina Coffa a suo fratello Vincenzo, Noto, Tip. di F. Zammit, 1879 pubblicata postuma a cura di L. Bonfanti
Poesie scelte a cura del Municipio di Noto (edizione postuma), Noto, Zammit, 1882
Lettera inedita dell’illustre poetessa retina M.C.C. diretta ai deputati del Parlamento italiano, in “Aurora”, Noto, Tip. Cavarra, 1898
Lettere inedite di illustri scrittori a Concettina Ramondetta Fileti, Palermo, 1911
Lettere ad Ascenso, (a cura di G. Raja), Roma, Ciranna, 1957
Scritti inediti e rari di Mariannina Coffa, (a cura di M. Di Stefano), Noto, Arti grafiche San Corrado, 1996
L’Episolario amoroso Coffa – Maceri, in M. Fiume, Sibilla arcana. Mariannina Coffa (1841 – 1878), Caltanissetta, Lussografica, 2000

Bibliografia
Corrado Romano, Sulla retta intelligenza di un malinteso passo della poetessa Sig. M. C. C. da Noto, estr. dal giornale “Il Vapore”, a. V, n. 17, 1860
Amédée Roux, Histoire de la littérature contemporaine en Italie sous le régime unitaire (1859-1874), Paris, Charpentier, 1874
Articoli necrologici, “La veglia”, Noto, 7 gennaio 1878
In memoria della poetessa M. C. C. in Morana, Prose e poesie, pubblicate a cura e spese del Municipio di Ragusa, Ragusa, Piccitto e Antoci, 1878
Filippo Pennavaria, Sopra un caso d’isterismo acuto con estasi e sognazione spontanea accaduto in persona della insigne poetessa M. C. C. in Morana – Considerazioni medico filosofiche, Ragusa, Tip. Piccitto e Antoci, 1878
Filippo Pennavaria, Sulla vita e sulle poesie di M. C. C. in Morana, Discorso accademico, Ragusa, Tip. Piccitto e Antoci, 1878
Corrado Bonfiglio Piccione, M. C. C. in Morana giudicata dal prof. Amedeo Roux, traduzione dal francese, Noto, Tip. Zammit, 1878
Corrado Sbano, In morte della insigne poetessa M. C. in Morana, 1878
Letteria Montoro, Sulla tomba della chiarissima M. C. C. poetessa netina, ode, Palermo, Virzì, 1878
Giovanni Di Pietro, Illustrazione di scrittori contemporanei siciliani, Palermo, Ufficio Tipografico di Michele Amenta, 1878
Vincenzo Coffa, Lamento dell’anima a mia sorella M. C., versi, Noto, Zammit, 1879
Corrado Sbano, Memorie e giudizi intorno alla poetessa M. C. in Morana di Noto, Noto, Tip. Zammit, 1879
Vincenzo Coffa Caruso, Rimembranze (Iuvenilia), Noto, Tip. Zammit, 1890
Giuseppe Cassone, Per l’inaugurazione del monumento alla poetessa M. C. C., Noto, Tip. Zammit, 1896
Emanuele Scribano, Notizie e considerazioni su M. C., Ragusa, Tip. Destefano, 1897
Giuseppe Navanteri, Di un nuovo studio su M. C., Noto, Tip. Zammit, 1898
Francesco Guardione, Scritti, voll. 2, Palermo, 1897
Gaspare Oliveri Montes, Di due poetesse siciliane del sec. XIX (Giuseppina Turrisi Colonna – M. C. C.), con lettera del Prof. Giuseppe Pipitone Federico, Girgenti, Stamperia Montes, 1898
F. Genovesi Caruso, Storia d’una martire (M. C. C.), con prefazione di Giuseppe Sergi, Napoli, Chiurazzi, 1900
Rosa Moscardi, M. C. C. (su lettere inedite), Roma, Tip. Artero, 1907
Giuseppe Leanti, Una poetessa della patria e del dolore – M. C. C., Noto, Zammit, 1923
Francesco De Stefano, M. C. C., “La Siciliana”, rivista mensile, Siracusa, luglio 1925
Carmelo Sgroi, Cultura e movimenti d’idee in Noto nel sec. XIX (Contributo alla storia della cultura siciliana), Catania, Studio editoriale moderno, 1930
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Gino Raya, Diario, “Narrativa”, marzo 1957
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Marinella Fiume, M. C. e il suo lato oscuro. La poetessa massonica, “La Sicilia”, 19 dicembre 1996
Marinella Fiume, Sibilla arcana. Mariannina Coffa (1841 – 1878), Edizioni Lussografica, Caltanissetta, 2000
Maria Lucia Riccioli, “Ferita all’ala un’allodola” (Perrone Lab, 2011)




Poesie
Ohimè!….quest’alma a tanto gaudio avvezza
Gioie mortali desiar non può.
Oh quante volte un alito
Di questo amor sognai!
Lo chiesi indarno agli uomini
Chè fu muto ogni core al mio desir!…
Io non dovevo palpitar giammai
O dei palpiti miei dovea morir!….

Noto 25 gennaio 1863

1.
Amo…che val se l’universo è muto
Alle più sante melodie del core?
Se in te l’anima mia tutto ha perduto
Vive,combatte,ed è gigante amore.
Diletto mio!…sai tu che i giorni e l’ore
Le lagrime e la prece ho rattenuto?
Che ho fidato a le stelle il mio saluto
Ed ha pianto natura al mio dolore?
Sai tu che mille volte in rotti accenti
Ho chiesto al Ciel di rivederti e indarno
Indarno sempre la mia prece uscia!
Che non pugnai coi disperati eventi?
Oggi vivrei fra l’armonie dell’Arno
Di te più degna e della cetra mia?

2.
Si…vivrei per amarti, e ignota e oscura
Morir vorrei sull’adorato petto!
Credi,amor mio, d’un solo unico affetto
Arde quest’alma nella sua sventura.
Te m’offrivo in un punto arte e natura
Te maggior d’ogni nume e d’ogni obietto.
Ah tu nol sai, la mesta creatura
Vive straniera nell’estraneo letto!
Senza amor, senza luce e senza speme,
Fra le memorie mie chiuso il pensiero.
Dimmi: il duol che mi strugge è morte,o vita?
Vivo, e del vover suo l’anima geme,
Moro, e pace non ha la mia ferita…
e viva e morta ti vagheggio, e spero!

3.
Che mi valse l’ingegno,il core e l’arte
Se te perdendo ogni Ciel perdei?
Se il nume che fu vita ai sogni miei
Mi condanna tacendo e si diparte?
Oh se vedrai queste dolenti carte
Che d’un alito ignoto accendi e bei
Saprai ch’ove sospiri,e piangi e sei
Ivi piange il mio core a parte a parte.
Saprai ch’io t’amo,ed è miracol novo
La vita mia….perchè son morta e vivo,
E là dove non sei non ritrovo!
Saprai,ch’ombra adorata,a me d’accanto
Ti riveggio pur sempre o sogno o scrivo
E più che il labro tuo trovo il tuo pianto.

4.
E invan m’è dato rivederti,invano
Le lunghe notti in un martir profondo
Me stessa impreco,e la natura e il mondo,
E il sogno onde mi piacqui,e il voto insano.
Terribil voto che a me stessa ascondo,
Che trasse al nulla un avvenir lontano,
Ch’estinse il raggio di un affetto arcano
Che m’ha lasciato d’ogni morte il pondo.
Oh potessi un istante il mio martire
Disvelarti,amor mio,potessi almeno
Udir che mi perdoni e poi morire.
Paga morrei pur che fia salvo il core
Paga morrei sull’adorato seno,
Il tuo sguardo sognare e il nostro amore.

A Luisa – In un momento d’estasi magnetica

Bella, che il guardo appunti
Oltre il confin della mortale idea,
Che in un solo desio mostri congiunti
Il cor che piange e il core che si bea,
Dell’occhio onniveggente
Raggio disceso nell’argilla muta,
Miracol novo d’armonia tu sei!
D’un’armonia dolente
Che parla a’ mesti e l’anima trasmuta
In un sogno di luce a’ sogni miei.

Farfalla innamorata
Ch’ergi le penne oltre le vie del sole
Pel tuo foco medesmo inebrîata,
Sibilla arcana per le tue parole,
Se il mistico pensiero
Che di cielo ti veste opra è del Nume,
Anch’io piango… ti adoro… e grido anch’io:
- Ecco un baleno dell’eterno vero,
Ecco una fiamma dell’etereo lume,
Ecco la creta che sospira a un Dio! -

Se l’anima potesse
Varcar la meta che le diè natura,
E gir soletta a quelle plaghe istesse
Da cui ne venne immacolata e pura,
Per gli occhi onde riveli
Fiamma cotanta io la vedrei rapita
Peregrinante a le commosse sfere,
E direbbe al pietoso astro de’ cieli:
Deh, riprendi i miei sogni e la mia vita,
Ma non torni alla terra il mio pensiere!-

No, non fuggir… consenti
Che teco io sugga l’armonie passate,
E l’ebrezza dell’alma e i voli ardenti
Che mi fero in un gaudio amante e vate.
Lascia ch’io beva il riso
Di tue movenze allor che ti favella
Lo spirito accenso per virtu del core:
Lascia ch’io m’erga al sospirato eliso,
Ch’io voli in grembo a la perduta stella,
E gridi al mondo: – L’anima non more! –

Psiche

Datemi l’arpa: un’armonia novella
Trema sul labbro mio…
Vivo! Dal mio dolor sorgo più bella:
Canto l’amore e Dio!

Psiche è il mio nome: in questo nome è chiusa
La storia del creato.
Dell’avvenir l’immago è in me confusa
Coi sogni del passato.

Psiche è il mio nome: ho l’ale e son fanciulla,
Madre ad un tempo e vergine son io.
Patria e gioie non ho, non ebbi culla,
Credo all’amore e a Dio!

Psiche, chi mi comprende? Il mio sembiante
Solo ai profani ascondo;
E nei misteri del mio spirto amante
Vive racchiuso un mondo.

Nei più splendidi cieli e più secreti
Sorvolo col desio:
Nata ad amar, sul labbro dei Profeti
Cantai l’amore e Dio.

Psiche è il mio nome: un volgo maledetto
Pei miracoli miei fu mosso a sdegno,
E menzognera e stolta anco m’han detto,
Mentre sui mondi io regno!

Eppur le voci d’una turba ignara
Fra i miei concenti oblìo:
Nello sprezzo dei tristi io m’ergo un’ara
E amor contemplo e Dio.

Psiche! Ogni nato colle ardenti cure
Di madre io circondai,
E il supplizio dei roghi e le torture,
Figlia del ciel, provai.

Nell’infanzia dei tempi, il gran mistero
D’ogni legge fu servo al genio mio:
Di Platone e di Socrate al pensiero
Svelai l’amore e Dio!

L’arte, le scienze, le scoperte, i lenti
Progressi dell’idea, chi all’uomo offria?
Io sui ciechi m’alzai, fra oppresse genti
Schiusi al pensier la via.

Psiche è il mio nome… il raggio della fede
Rischiara il nome mio:
E, Umanità, chi al nome mio non crede
Rinnega amore e Dio!

Ogni lingua, ogni affetto, ogni credenza
Col mio potere sublimar tentai:
Serbando illesa la divina essenza,
Forma, idioma ed essere mutai.

Or vittoriosa, or vinta, or mito, or nume,
Or sobbietto di scherno, or di desio,
Col variar di lingua e di costume,
Svelai l’amore e Dio!

Pria che fosse la terra, io le nascose
Fonti del ver mirai:
Vissi immortale fra le morte cose,
Me nel creato amai.

Eppur la terra non comprese ancora
Le mie leggi, il mio nome, il senso mio:
Conosce il mio poter… sol perché ignora
Che Psiche è amore e Dio!

Dio, Psiche, Amor! si vela in tal concetto
Il ver, la forza, l’armonia, la vita:
Son tre mistiche fiamme e un intelletto
Che un nuovo regno addita.

O Umanità! La scola del passato
Copri d’eterno oblìo,…
Quel Bene che finora hai vagheggiato
È Pische, è Amor, è Dio!

A Giuseppe Migneco

Tu dunque vuoi che da quest’arpa infranta
Si levi un suono di profondo affetto,
E mi gridi pietoso: Alzati e canta?…
Oh! Qual dal mesto petto
Voce io trarrei d’immenso gaudio aspersa,
Ove dato pur fosse all’alma mia
Oggi nel duolo immersa,
Vivere ancor di sogni e d’armonia!

No; se la mia parola
Spesso tra generosi impeti ha vita
Nobile esempio e scola
Trova sol negli affetti ond’è nutrita.
Ben io talor vorrei
Tentar la mesta voluttà del canto;
Ma confuso è lo sdegno ai versi miei
E l’arpa offesa non può dar che pianto!

Amico! Ah tu non sai
Qual duol racchiuda il mio severo accento!
Dimmi: provasti mai
La perfidia, l’inganno, il tradimento?
Mille rettili aurati in varia forma
Dimmi, vedesti mai strisciarti intorno,
E la pura schivando aura del giorno
Lasciar nell’ombra d’atra bava un’orma?

Il falso riso d’una gente abbietta
Provasti, amico, e l’invido furore?
Fra le gioie d’un’arte benedetta
Orribil piaga ti fu schiusa in core?
Fra quell’ore di pace in cui la vita
Si pasce d’armonia
Provasti il ghigno della colpa ardita
E il morso della fredda ipocrisia?…

Una stolta falange ha condannato
Le tue credenze, i palpiti, il desio,
E di negri sospetti ha maculato
Sin quella fede che ti lega a Dio?…
Sai tu, dal dì che per diversi lidi
Ci spinse il fato avverso
In quale acerbo disinganno io vidi
Il più bel sogno della vita immerso?…

O beate dolcezze! O breve e cara
Gioia, o lusinghe del natio paese,
Quando quest’alma della vita ignara
Di tua gran mente il gran concetto apprese!
Or mi ridesto e sento
Quasi un’eco di tomba, e intorno giro
Le stanche ciglia a un funebre lamento
Al mio verso risponde e al mio sospiro.

Molti vid’io, né il ver per odio ascondo,
Che un caro d’amistà pegno mi han dato
E con labbro mendace e inverecondo
Amicizia e coscienza han profanato.
Molti vid’io, si cui tutta l’impura
Tabe è conversa d’ogni reo pensiero,
Che son onta a se stessi e alla natura,
Son vergogna al creato, e insulto al vero.

E vidi poi quest’idoli ferali
Offrire al mondo una virtù mentita,
E avvelenar le fonti della vita
Nell’armonia dei casti penetrali!
Ma il terror della colpa e del delitto,
Quasi aspettando la condanna e il fio,
A ognun di loro sulla fronte è scritto
Qual marchio eterno che v’impose Iddio.

Dolor sì fero, inaspettato, immenso,
Ha distrutto il mio core a parte a parte;
Quando in me stessa mi racchiudo e penso,
Io non credo all’amor, non credo all’arte,
Ogni legge sprezzando ed ogni affetto
Io vorrei dentro al nulla inabissarmi,
E gridare al Signor dall’imo petto:
Perché, perché crearmi?…

E vuoi ch’io scriva?… e vuoi che mi ridesti
Alla virtù d’una parola amica,
E sdegnosa mi levi e manifesti
La possente del core ardua fatica?
Vuoi che rapita in quella sfera eletta
Che sublima le lagrime e il desio
L’arpa ritenti, e splendida vendetta
Faccia de’ miei dolori il genio mio?

T’intendo, amico: di compensi arcani
Si riconforta un genio intemerato:
E anch’io lo sento; e al riso dei profani
Una pagina d’onta ha consacrato.
Chè se un’etate acerba
Al più caro desio tarpato ha l’ale,
Chiudo in quest’alma indomita e superba
Una vivida fiamma ed immortale.

E s’oggi affido all’armonia del canto
Ogni pensier dell’anima ferita,
E per te, per l’affetto unico e santo
Ch’ai nostri cori è vita.
Oggi all’impulso d’una tua parola
Riedo all’altezza ch’obliar potei…
E a novo intento e a più sublime scola
Traggo le mie speranze e versi miei!…

Luce e tenebre

Non io fra’ lieti, in facili
Gioie sprecar consento
La vita mia, né arridono
Ai sogni miei la gloria e lo splendor:
È sì labile fiore il sentimento
Che tra i felici inaridisce e muor.

Farfalla solitaria
L’ali io rivolgo ove più bello è il sole;
Vivo nel mite effluvio
Che si solleva dalla terra al ciel,
Parlo cogli astri armoniche parole
L’immenso spazio è il mio dorato avel.

Fanciulla ancor, nei fremiti
D’una incompresa idea,
Quando il commosso spirito,
Un mondo nuovo e un nuovo cielo ambì,
D’una cara speranza io mi pascea
Ch’ahi!… troppo presto nel mio cor languì.

Oggi, un perenne esilio
Parmi la vita, e risalir vorrei
A quel sognato empireo
Fulgente ancora di malìa gentil,
E ritrovar la luce che perdei
Nella dolcezza di un eterno april.

Stanca così di gemere
Forse son io, che tutta
Di funerarie immagini
Si dipinge la terra al mio pensier;
Veggo ogni cara illusion distrutta
Ed ingombro di sterpi il mio sentier.

Che fia di me?! Quest’anima
Chiude un tesoro di supremi affetti,
Chiude un pensier sì splendido
Che mente umana indovinar non può:
Sorrido e passo fra i mortali obbietti,
Ma patria e meta ed avvenir non ho!

Quanto di bello accogliesi
Nell’universo, appena
Può sodisfar l’indocile
Cura ch’io porto dai prim’anni in sen;
Il desio che mi strugge e m’incatena
È maggior d’ogni gloria e d’ogni ben.

Detto mi fu che in lagrime
Trassi i begli anni dell’età fanciulla,
Che un indistinto gemito
Per lunghe notti dal mio labbro uscì.
Né pace io m’ebbi nella dolce culla,
Né mi diè pace il sen che mi nutrì.

Dunque l’età più tenera
Mi presagia l’affanno:
Agonizzai sul nascere
Qual fior divelto dal materno stel…
Pria del dolor conobbi il disinganno,
Pria della vita interrogai l’avel.

Nei lieti dì che l’anima
Schiusi all’arte, agli affetti, all’armonia,
Vidi nei sogni un essere
Che blandia coi suoi canti il mio dolor,
Poi temprava le corde all’arpa mia
E mi parlava d’un celeste amor.

D’amor che luce ed estasi,
Forza, principio e meta;
D’amor che i sensi inebbria
D’una sublime eterea voluttà…
Ch’ogni speranza ogni desio completa,
Ch’eterno regna e di regnar non sa.

D’amor che pochi intendono
Perché non vive di terrena ebbrezza,
Che dei veggenti è simbolo
Che terra e cielo in un pensier legò…
Ohimè! Quest’alma a tanto gaudio avvezza
Gioie mortali disiar non può.

Oh! Quante volte un alito
Di questo amor sognai!
Lo chiesi indarno agli uomini
Ché fu muto ogni core al mio desir…
Io non dovevo palpitar giammai
O dei palpiti miei dovea mori!!!

Pur quando riedo ai placidi
Giorni vissuti in compagnia diletta,
Ai primi studî, ai cantici,
A quei fantasmi ch’obbliar non so,
Dico a me stessa: un altro ciel mi aspetta,
In altro cielo le mie gioie avrò.

Talor mi è forza correre
Lungo il mortal cammino
Confusa ai cento speretri
Di cui sconosco la favella e il cor;
Ma nei riflessi d’un pensier divino
Io mi stringo gelosa al mio dolor.

Speranze inenarrabili
Traveggo unite a quel dolore istesso.
Ché l’alma solitudine
Fonte è di vita a chi contempla il ver:
Quanto ad occhio mortal non è concesso
Svelasi in quell’istante al mio pensier.

Nell’ombra e nel silenzio
Gl’idoli miei ritrovo;
Parlo al creato, interrogo
L’eccelsa fiamma che si asconde in me,
E in un incanto dilettoso e novo
Scordo i maligni che mi stanno al piè.

Armonizzare, astergere
Posso in quell’ora ogn’intimo desio;
Rendo al mio stanco spirito
La potenza, l’imperio e la beltà.
Frango i misteri tra la mente e Dio,
Sprezzo il sogghigno d’una cieca età.

Veggo il cozzar dei secoli
Scissi in tenzone orrenda;
Veggo agitarsi e fremere
E sacerdoti e novatori e re,
E i popoli seguir l’ardua vicenda
Chiedendo invano la cagion qual è…

Oh!… s’io dovea le misere
Lotte provar d’una genia caduta,
Perché di elette immagini
Si riconforta il memore pensier?
Perché rivivo in un’età perduta,
Perché sento in me stessa il Bello e il Ver!?

Perché mi è dato un palpito
Che l’universo abbraccia?
Chi parla in me? chi suscita
La mia fede, i miei canti, i miei desir?
Chi mi sospinge d’alti beni in traccia,
Chi m’offre un cielo, un mondo, un’avvenir?

No, non è ver che l’unica
Meta dell’uomo nella morte è chiusa,
Che l’infeconda polvere
S’agiti ad una breve aura vital;
Può la vita alla morte andar confusa
Se parla in noi lo spirito immortal?

Può nell’obblio travolgersi
Chi può sfidar l’obblio?
Farsi mendico e debole
Chi ricco e forte dall’empiro uscì?
Nume del mondo l’ha chiamato Iddio,
E un’alba eterna a questo nume offrì.

Un’alba a cui si legano
Godimenti perenni, alta speranza:
Un’alba in cui si effondono
Tutte le gioie che fan bello il ciel…
Chi… chi gli ha tolto il senno e la possanza,
Chi lo fe’ schiavo al tenebroso avel?

Pur questo inane scheletro
Bello e immortale da natura uscia;
Ma un’orrida macerie
Non bruttava in quell’ora il suo candor,
E un senso arcano col suo vel copria
Il figliuol della luce e dell’amor.

Ahi! nell’immondo pelago
Ch’ogni sciagura aduna,
Nel lezzo d’un convivio
Che eterne brame sodisfar non può,
Ha veduto rapirsi ad una ad una
Quelle dolcezze che l’amor creò.

Oggi che langue immemore
D’una possanza avita,
Si elevi al gran giudizio
L’orme segnando ad una nuova età;
O fra gli stenti d’una morta vita
Gli ultimi beni dileguar vedrà.

Dovrà sognar le glorie
Di un’èra a lui promessa,
Dei padiglioni eterei
Chiederà la bellezza e lo splendor…
Avrà la morte sulla fronte impressa
Avrà giudice eterno il suo dolor.

Alme vegg’io, che povere
Di fede e d’intelletto
Cercan bearsi al fascino
Di quell’amore che i credenti unì,
Ma non san che le fonti dell’affetto
L’ignoranza dell’uomo inaridì.

Io… sì, talor le cupide
Pupille ho fisso a la magion beata;
Ho visto i mille arcangioli
Farmi invito coi baci e coi sospir,
Ho visto i lembi d’una scala aurata
E l’alba d’uno splendido avvenir.

Indi… un fatal disordine
Sperde il sublime incanto,
Ed io straniera agli uomini
Una ignota armonia chiedo al mio cor!…
L’eco dell’alma mia forse è il mio canto,
L’eco della natura il mio dolor.

Chi mi comprende?… Un plauso
Fra quest’aure di morte io non aspetto.
Parlo ai venturi… e incolume
Traggo il mio spirto ai cantici del ver;
Finché m’inebbria un sovrumano affetto
Sarà nunzio di vita il mio pensier.

A Filippo Santocanale

Se degli anni senili il grave incarco
Fe’ in te più vivo il giovanile affetto,
E natura ed amor schiudono il varco
Ai forti sensi del tuo nobil petto,
Me, peregrina e ad altre sfere unita,
Per poco accogli nel tuo dolce amplesso:
Questo, o amico gentil, mi sia concesso
Ultimo vale ai sogni della vita!

Forse, più che nol credi, intima e pura
In me favella d’amistà la voce:
Fu il più bel dono che mi diè natura,
Eppur fu la mia tomba e la mia croce!
Chè fra tante cortesi alme incontrate
Nel cammin dell’esilio, una soltanto
Pur non trovai che fera ambascia e pianto
Non desse in cambio all’anima del vate.

Cantai l’amore? Ahi! fra sorrisi immondi
Il mio bel voto illanguidir vedea,
E agonizzar fra scheletri infecondi
La più sublime e creatrice idea.
Ché sempre al suo venir fra un mondo cieco
Non trova impulso un vergine pensiero,
E i dettami del nobile e del vero
Non hanno un plauso, una parola, un’eco!

L’uom fatto servo da princìpi ignavi
Sconosce il bene, o d’ignorar s’infinge,
Si studia i vanti ad eternar degli avi,
E la propria miseria il preme e stringe.
Questa rea debolezza è un fero oltraggio
Alla coscienza, alla natura, a Dio:
E lo svela commosso il canto mio
Or che m’appresto all’ultimo viaggio.

Senti! In un secol vanitoso e molle
Propizio ai bruti e a le bell’opre ostile,
Fra gente le cui brame odio ha satolle,
Che danna a morte ogni pensier gentile,
Qua fia compenso all’anima ferita,
Qual sacro istinto mi sospinge ancora?
Dovetti, a giorno a giorno, ad ora ad ora,
Fra morta gente mendicar la vita!

Nel duolo acerbo che fu strazio al core
Patria, amici, congiunti io non trovai:
Mi alimentai del mio celeste amore,
Quel che il mondo non vende, in me cercai!
E in questo lento lavorio, che tutta
La mia forza conquise e la baldanza,
Fra la morte, la vita e la speranza
Giacqui, viva non mai, non mai distrutta.

Sola, ignorata, ad ogni ben più caro
L’aspirar mi fu colpa! e in tanto affanno,
Io non so qual parlasse in me più amaro
O il cader dei miei giorni, o il disinganno!
Presso al diserto capezzal non una
Lacrimando inchinossi alma pietosa:
Madre, figlia, sorella, amica e sposa,
Pugnai col tempo e colla ria fortuna!

Che mi giovò dei dolci carmi in seno
Versare il germe d’un’idea novella,
E sul detto immortal del Nazareno
Schiudere un’era più feconda e bella?
Fu ben triste la prova! e intendo ormai
Che al Figliuolo dell’Uomo oggi non resta
Un nudo sasso ove poggiar la testa,
Un core a cui ridir gli ultimi lai!

Ed io… chi sa se al ritornar del maggio,
Quando natura i bei tesori effonde,
Quando d’amore il lusinghiero raggio
Parla ai fiori, agli augelli, ai campi e all’onde,
Chi sa, se stanca d’una inutil guerra,
Non poserò nella natìa vallata!
Questa, amico gentil, m’era serbata
Unica gloria, unica gioia, in terra!

A cor bennato è facile e secura
Scola il morir, ch’ogni delirio accheta;
Argomento è di lutto e di sciagura
Solo a quell’ente che smarria la meta.
Pace è il morir, se della morte il gelo
De’ rei ne asconde la volubil torma:
È il trapassar della visibil forma
A un’invisibil voluttà del cielo.

E sia così: dai facili diletti
L’uom non trasse la scienza e la grandezza;
E se ricco ne appar d’opre e di affetti,
Deve al proprio dolor la propria altezza.
E un dì, povero amico, a te fian vanto
Più che le glorie mie le mie sventure:
Farà pianger di me le età venture,
Questo ch’io ti rivolgo ultimo canto!

Pur m’affanna il pensier che un fato avverso
M’invola, o amico, ai tuoi dolenti sguardi,
E il cor nei sensi d’amistà converso
Ti conobbe nel mondo, ahi! troppo tardi.
Alziam le ciglia! Un’ineffabil sorte
Spesso è legata al più crudel dolore!
Che in animo gentil vive l’amore
Oltre i danni del tempo e della morte!



sitografia e fonti

http://it.wikipedia.org/wiki/Mariannina_Coffa

http://www.arabafelice.it/dominae/scheda.php?id=1032348179

http://www.letteraturaalfemminile.it/mariannina_coffa.htm

http://ja-jp.facebook.com/topic.php?uid=64514178435&topic=9593

http://www.marinellafiume.it

http://zh-cn.connect.facebook.com/note.php?note_id=493129903724

http://quimineo.netsons.org/?p=6200