Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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domenica 7 ottobre 2018

IL CORPO E L’ANIMA DI Frida in fuga dalla Russia, con amore



* di Vania Di Stefano





Di quella ciocca dei capelli materni Mirco, il minore dei figli di Titomanlio Manzella e di Elfride Neuscheler, protagonisti dell’atroce novella Tre bambini sotto una palma (1935), chiese spesso, in mia presenza, alla sorella Myriam, che rispondeva di non saperne nulla. Conoscendo la generosità di mia madre, sono certo che non mentiva. Casualmente l’ho scoperta io, combattendo quell’affascinante, invincibile disordine, chiamato vita, che dal 1960 fa da titolo ai primi volumi del mio zibaldone, abbracciando il panorama del tempo, del mondo riflesso dalla quotidianità e dall’archivio di famiglia.
Fra il 1917 e il 1920 (anno in cui iniziò un appassionato carteggio con Titomanlio) Frida, scampata col padre Edward (Uzwil 1861 - Catania 1926) e le sorelle Nadine e Vera alle fiamme della rivoluzione bolscevica (fuggirono separatamente per un freddo calcolo di


probabilità di sopravvivenza), cercava in Italia lavoro e un luogo dal clima giovevole alla salute del genitore. Lasciata la Svizzera scelsero Catania dove Titom e Frida si sposarono l’11 maggio 1922; in ottobre nacque Igor. 
Il vulcanico figlio di Giuseppa Frontini, dopo la grande guerra trascorsa in prigionia trovò una compagna straordinaria, ma l’alterna felicità durò sino al 16 luglio 1932. 
In quell’arco di tempo maturò un’intensa, frenetica attività letteraria dedicata ai giovani; basterà citare il romanzo Naticchia: storia di un ragazzo qualunque (1921), Farfalle: rivista mensile per ragazzi e giovinette (1923-1924), cui collaborarono anche "Frida Eduardowna" (racconti) e l’ingegnere "nonno Eduardo" (botanica, astronomia, tecnica), infine la commedia Pierrot sui tetti messa in scena a Roma il 18 febbraio 1929 da Anton Giulio Bragaglia per il Teatro degli Indipendenti.
Con impegno e talento Frida si divise tra la famiglia e l’insegnamento al Regio Istituto Superiore di Scienze Economiche e Commerciali, riuscendo a rifarsi una vita senza rimpiangere la bella casa di Mosca, già abitata dal commediografo Andreieff, e la dacia di Butovo. 
Molto della sua vita resta da scoprire nelle lettere e nei diari scritti in russo, tedesco, italiano, nei ricami.
La dolcezza del carattere, il profondo senso di umanità, la pazienza e la disponibilità generosa verso il prossimo le conquistarono l’affetto di cognati, amici, vicini. Dalle loro malinconiche parole, scaldate dal conforto di bei ricordi, udii bambino rievocare consuetudini della vita quotidiana come l’accoglienza russa dell’ospite con pane e sale, il rito del tè prelevato da una scatola speciale e preparato con l’acqua del samovar che Titomanlio usò finché visse.
Che l’anima sia immortale ce lo dice la ragione meglio della fede, a patto che sappia quantificare la propria inadeguatezza come unità di misura dell’universo e riconoscere che, dopo millenni di sforzi speculativi, il pensiero immaginario non può generare alcuna sensazione o visione capace di rappresentare l’infinito. All’immortalità della propria anima Elfride credette fermamente e poco prima di morire lo disse al marito: "sarò sempre con te”. Nacque allora un evocativo saluto consolatore che accreditava la reale onnipresenza del suo spirito accanto a Titom, Igor, Myriam, Mirco, oggi riuniti in un abbraccio. Questo saluto, "con te”, verbale e scritto, entrò nel lessico familiare ed anch’io lo udii e ne fui partecipe.

**Reality









giovedì 20 aprile 2017

Una notte futurista con Marinetti e un filosofo pazzo


Una Myriam Manzella quindicenne scrive la sua serata romana del 1939 tra locali e protagonisti del tempo «a diventar matti dalle risate» sul «sacramentale cosmico»



Myriam


Su 4 foglietti, trovati fra le pagine de “Il poema dei Sansepolcristi”, scrive il 20 luglio 1939 una Myriam Manzella quindicenne: «Ieri sera ò passata una serata che non dimenticherò mai più. Bella, interessante, e strana. In casa di Marinetti il simpatico futurista, abbiamo conosciuto un giovane poeta sardo, direttore di un giornale “Mediterraneo futurista”, Pattarozzi, col quale assieme ai coniugi ci siamo intrattenuti in interessantissima conversazione. Si parlava di arte, di politica, del dolore, di gelosia, di popoli, di costumi; insomma un genere di conversazione che à fatto volare il tempo. Marinetti è un Sansepolcrista idolatra di Mussolini come mio padre e Pattarozzi quindi trovandosi perfettamente d’accordo anche in questo campo la conversazione non languiva. Io ò avuto regalato da Marinetti un suo libro con la dedica che mi à procurato un immenso piacere. Dimenticavo di dire che c’era con noi una simpaticissima ed intelligentissima signora amica nostra. Pattarozzi ci ha accompagnati fino al filobus e coi lui ci siamo puntati per le dieci in caffè. Lì abbiamo trovato un filosofo mezzo pazzo con la moglie, e un architetto amici di Pattarozzi. Mentre si parlava simpaticamente ecco che il filosofo, che oltre ad essere pazzo era anche divertentissimo, ci chiede se ci fossimo mai occupati del “sacramentale cosmico”; ricevendo risposta negativa incomincia a spiegare. Bisognava starlo a sentire. Discorsi senza capo né coda senza un nesso logico, senza una conclusione, c’era da diventar matti dalle risate. Si beveva della birra di cui l’amico non faceva economia; ad un certo punto ci lascia “per andare a bere un calice! ”. La moglie un tipo di gatta infatuata dai discorsi del marito à l’incarico di spiegarci il “sacramentale cosmico” che poi è diventato il mito della serata. Insomma non si viene a capo di niente. Ed ecco che il “pazzo filosofo” dopo un dieci minuti di assenza si fa risentire attraverso il telefono dicendo di trovarsi alla “Rupe Tarpea” invitandoci a raggiungerlo immediatamente. Divertiti da questi contrattempi accettiamo allegramente.
La “Rupe Tarpea” è un ritrovo interessantissimo, che ricorda i tempi degli antichi Romani nella sua costruzione, locale caratteristico Romano, ritrovo di strana gente. Poeti, cantanti, filosofi, donnette stralunate. Tutti bevono a gara e mangiano olive salate. Ci sediamo su delle botti che fanno da sedie accanto ad un rozzo ma bel tavolo di quercia, si sturano parecchie bottiglie di Chianti, Lambrusco, Moscatello, Frascati di cui ne beve in massima parte il filosofo che ad un certo punto invita il poeta a declamare qualche sua poesia, noi approviamo con entusiasmo: versi strani, che non ò mai sentito, forse perché finora non conoscevo poesie futuriste, ma dotate specialmente in certi punti di una grande forza, tratti decisi, sagome stagliate, contorni balzanti. Insomma sono piaciuti a tutti. Il filosofo era già brillo e voleva assolutamente che Pattarozzi recitasse “forte sempre più forte, tutti debbono sentirti! ”. E quello che gli dava ascolto e si riscaldava nella eccellente declamazione esaltandosi un po’ da futurista. Dietro il nostro tavolo attraverso una strana ringhiera di legno lavorato si vedevano seduti tre coppie uomini e donne che cantavano a sfiata polmoni; ancora più oltre, due uomini ad un tavolino, gli occhi negli occhi, tratti nei tratti discutere animatamente interrompendosi solo per bere. Proprio sotto un’anfora antica romana che stava sospesa in un angolo della sala, due uomini ed una donna che rideva e rideva, ubriachi fradici. Rendevano ancora più strano il locale gli impeccabili camerieri che silenziosamente scivolavano attraverso le botti e i tavoli come se fossero stati estranei a tutto ciò. Lucerne ciondolanti dal soffitto volevano forse con la loro luce malata cercare di soffocare quel chiasso. Non so da dove, trapelava a tratti della musica che sembrava quasi cercare d’infiltrarsi nelle brevi pause delle voci... e il poeta cantava i suoi “archi cilestrini” i suoi “coltellacci di sole”, “i porti ansimanti della Sardegna”.
Uscimmo da quel locale a mezzanotte passata. Il “Filosofo” a braccio della moglie completamente sbronzo che con i suoi strampalati discorsi ci faceva letteralmente crepare dalle risate, il poeta eccitato, l’architetto occhialuto che tentava di spiegarci il valore della finestra in una casa. Roma dormiva sotto un cielo incendiato di stelle, vegliavano solo le fontane, i cui bianchi spruzzi baluginavano come bianche braccia di donne sopra un tessuto di notte. E il poeta volle ancora cantare alla città addormentata, forte, che tutta Roma lo sentisse, dimenticammo noi stessi e dove ci trovavamo, ci riportò alla realtà il “filosofo” che voleva assolutamente tornare a casa in carrozza. Ridendo ci muovemmo alla caccia d’una carrozza che finalmente fu trovata. Ci volle un bel pezzetto per convincere il “filosofo” che nella carrozza non ci si stava tutti, e finalmente ci accomiatammo dopo avere ancora una volta pregato “l’ubriaco” di spiegarci il “sacramentale cosmico”. Mentre per via Nazionale si perdeva lo zoccolio del cavallo ci avviammo sotto braccio al nostro albergo. 20 Luglio».
Cara Marussja, quando la memoria tace rimane solo la parola scritta a ricordarti come eri, rimane l’abbraccio di chi ti accompagna e con te condivide la povertà che ci rende fragili: quella del tempo. Ma tu rispondi col titolo della tua ultima raccolta di poesie: “Che importa il tempo”. È vero: ora ci hai trascinato in quella lontana serata futurista e anni fa ci hai nutrito con la bellezza dei racconti pubblicati su “La Sicilia”. Auguri madre. - LUNEDÌ 22 SETTEMBRE 2014


venerdì 28 gennaio 2011

Marussja Manzella: Io, sorella di Igor Man

Marussja ritratta da Milluzzo

LA SICILIA - 28 dicembre 2010 - di  Giovanna Genovese


Mi dicono: «Perché non intervisti Marussja, la sorella di Igor Man, il giornalista di origine catanese scomparso un anno fa?». E' un'idea, ci provo. Scrittrice, poetessa e collaboratrice de La Sicilia dal 1951 al 1963, oggi Marussja ha 86 anni, non vede più bene, abita a Roma con il figlio Vania. La sua voce al telefono è dolce e garbata, la sua risata squillante come quella di una ragazzina, ma per rivivere il passato ha bisogno di essere guidata da chi ogni tanto nel nostro giornale pubblica ricordi di una famiglia di giornalisti e scrittori, cercando di mettere assieme le tessere di un mosaico che sta tutto nel terribile XX secolo, quello con cui noi italiani non abbiamo mai fatto i conti (e si vede).

Allora, anziché un'intervista «in presa diretta», proponiamo una chiacchierata tra mamma e figlio costruita sul filo della memoria. La conversazione che segue è dunque storicamente vera, documentabile nei contenuti, ma narrata liberamente con lo stile scrittorio di Vania Di Stefano (in tondo) e approvata dall'interessata (risposte in corsivo).


«Mia madre s'affacciava e chiamava mio padre per il té con una frase russa che diceva...».

Dalla bocca di Myriam (detta Marussja) escono parole antiche, struggenti: quelle di Elfride Neuscheler fuggita dalla rivoluzione sovietica nel 1916. Approdò in Sicilia, s'innamorò di Titomanlio Manzella, morì di cancro nel 1932.

«Mio padre impazzì quasi. Avevo 8 anni, Igor 10, Mirco 5. Arrivarono le governanti tedesche. Il russo si spense sulle nostre labbra e imparammo il tedesco. La lingua materna riaffiorava quando c'erano Nadine e Vera, sorelle di mia madre. Da Cibali venimmo via nel 1942, diretti a Roma, passando lo stretto sotto i bombardamenti».

Avevi paura?
«Mai provata: mio padre era tranquillo, impenetrabile ormai a ogni dolore».

Cosa recava con sé a Roma una diciottenne in piena guerra?
«I profumi del mare d'Acitrezza e lo strazio per la morte di mio cugino Ardengo (figlio di Gesualdo Manzella Frontini) sepolto nel sommergibile Corallo; recavo la medaglia di campionessa regionale di lancio del disco e l'ansia per la sorte del fratello di Ardengo, Francesco, deportato in India dopo la battaglia di Giarabub; tornò anni dopo, provato, ma con l'onore intatto; recavo una ciocca di capelli di mia madre e il suo respiro sulla mia guancia; recavo l'abbraccio magro di mia nonna Giuseppina Frontini, figlia del grande musicista (Martino Frontini), e il calore avvolgente dei miei sogni, della mia straripante fantasia».

nonna Giuseppina Frontini, sorella di Francesco Paolo Frontini


Quando pubblicasti i primi versi?
«1943 nel Meridiano di Roma; altri poi nel Giornale di Sicilia, Il Giornale della sera, Doctrina, La Fiera Letteraria, Il Corriere di Sicilia. Da allora non ho mai smesso. Negli ultimi anni, a dispetto di questi occhiacci che m'hanno tradito, ho scritto su fogli senza poter leggere ciò che scrivevo».

Premiata?
«Al Sette Stelle di Sinalunga nel 1951 con la lirica Nuova carezza, che piacque più della poesia di Pasolini. Lui si congratulò. Facemmo amicizia, ma non lo rividi più. Un uomo affascinante, il viso sensibile scavato dall'ombra dell'inquietudine. La Sicilia segnalò la mia vittoria con altri quotidiani. Era direttore Antonio Prestinenza, Neddu, compagno di prigionia di mio padre nella grande guerra, anima d'artista vero. Apprezzava le mie cose, così, caso raro per una donna, divenni collaboratrice della terza pagina».

Cosa scrivevi?
«Racconti, con ritmo quasi settimanale, ma anche pezzi di colore».

Quanto è durato?
«Dal 1951 al 1963».

E poi?
«L'incontro col segretario della Quadriennale d'Arte di Roma, Fortunato Bellonzi - presentatomi da Emilio Greco, amatissimo amico di famiglia - portò a una collaborazione precaria che durò fino al 1983, quando anche Bellonzi settantaseienne fu pensionato senza pensione e liquidazione».

Possibile?
«E' l'Italia di sempre. Tirò avanti scrivendo articoli su Il Tempo, poi con la legge Bacchelli ebbe un vitalizio per meriti culturali. Lavorando con lui, nel 1960 cominciai a pubblicare articoli su artisti contemporanei e nel 1967 proposi a La Sicilia la rubrica, Arti figurative, durata almeno sino al 1972».

E la poesia?
«Sono usciti due volumetti che nessuno ha letto e tanto meno comprato: Come grano falciato nel 1974 e Che importa il tempo nel 1992».

Cosa tieni nel cassetto?
«Il frutto del mio disordine creativo, che ha partorito versi liberatori, ma sempre lontano da critici, salotti e manfrine».

Questo spiega un po' il tuo isolamento.
«Non mi pento di nulla. A modo mio sono stata fortunata e felice. Ho conosciuto persone straordinarie e veri artisti, e ancora ne frequento, talora solo telefonicamente: i coniugi Gizzi creatori in Torre dei Passeri della Pinacoteca Dantesca intitolata a Bellonzi, e poi Tonino Caputo, Franco Mulas, Riccardo Fiore, Alejandro Kokocinski, Albino Moro, Vincenzo Gaetaniello, Ikujo Toba, Francesco Manzini, Giovanni Gromo, Bruno Caruso, Ennio Calabria, Stefania Guidi, Claudio Capotondi. A Nicola Micieli devo la riscoperta di Bellonzi pittore. Molti non ci sono più, ma solo nel corpo: fra gli artisti Riccardo Tommasi Ferroni, Marcello Tommasi, Gaetano Pompa, Emilio Greco, Giuseppe Mazzullo, Carlo Quattrucci, Sho Chiba, Venanzo Croccetti, e poi uomini di cultura come Bonaventura Tecchi, Jacopo Recupero, Ennio Francia, Enzo Carli, Carlo Ludovico Raggianti, funzionari come Umberto Parricchi, Gianluigi Ferrarino. E ne avrei di nomi... ad esempio Sebastiano Milluzzo che nel 1951 mi fece un ritratto».

Igor Man il fratello

Parlami di Catania.
«Dopo il trasferimento a Roma, passata la guerra, nei primi anni Cinquanta ci tornavo d'estate, viaggiando in terza classe su treni meravigliosamente aperti e lenti; rasentavano paesaggi paradisiaci, spiagge deserte, canneti, vigneti, uliveti. Tornavo per la nonna, gli zii Gesualdo, Alfredo, Dernier, Savina e suo figlio Gaetano Zappalà grande poeta. Si stava in via Pietro Carrera 19 e di lì partivamo per memorabili passeggiate tra ginestre, fichidindia e muri di lava. Al giornale ci andavo per portare i pezzi e salutare Prestinenza e Piero Corigliano, formidabile redattore, preparato, simpatico, non si dava le arie e lavorava sodo. Con suo fratello Gino, invece, ci siamo ritrovati a Roma».

Pensi di pubblicare ancora?
«Anni fa mandai alla Sellerio Sangue d'uva, una selezione dei racconti usciti su La Sicilia, ma nessuno m'ha risposto. Non ci penso. Diversamente da mio padre, non ho mai avuto l'assillo di pubblicare; quel che ho avuto m'è bastato e per essere felici basta poco, basta la stima di persone sincere e genuine. Mio padre ha passato la vita a battere su quella vecchia Olivetti che conservo ancora. Il rumore della macchina era come una ninna nanna; le sue dita la cantavano, inseguendo il pensiero con ritmi allegri, ora esitanti, ora torrenziali».

Ti sei laureata?
«Ci provai; me l'hanno impedito le difficoltà familiari».

Però sei iscritta all'albo dei giornalisti.
«Sono pubblicista dal 1957 e fui premiata nel 2002 per gli anni di attività svolta».

Torneresti indietro?
«Sì. La vita è bella e va presa con un occhio serio e uno scanzonato. Te lo dice una che non vede più bene».

 
Titomanlio il padre e lo zio Gesualdo
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