Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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mercoledì 1 febbraio 2017

GIUSEPPE VILLAROEL "la vocazione del giornalista"



Fra i catanesi nati negli ultimi due decenni dell'Ottocento e il primo Novecento, molti i letterati che diedero manifestazioni inequivoche del loro ingegno nei diversi generi letterari, e che al di là della validità attuale dell'opera (dell'ampia produzione di alcuni si ricorda solamente il titolo di una silloge poetica o di un romanzo), per necessità di vita (condensata nel lati-netto «carmina non dant panem») svolsero un'altra attività professionalmente — ossia con continuità e costanza — fino al pensionamento.
L'attività svolta quasi clandestinamente — rimasta celata alla maggior parte dei lettori — fu per molti l'insegnamento, per pochi l'inserimento in un'amministrazione locale (con preferenza per il Comune o per la Provincia, ma anche per la Camera di Commercio), ma alcuni all'insegnamento o alla routine dell'impiego aggiunsero l'attività giornalistica, espletata come collaboratore o redattore o direttore di un periodico, anzi — come vedremo — immersi nel giornalismo inteso come professione, fatto di un certo numero di ore al tavolo di redazione di un quotidiano cittadino. In mezzo ad essi, perfettamente integrati, gli scrittori e i letterati che, artisti per temperamento, furono giornalisti per mestiere.
Sono un nutrito manipolo e di essi, senza sottili e discriminanti distinzioni, ricordiamo alcuni con rapidissimi cenni (con il rammarico di ometterne molti): Gesualdo Manzella Frontini (1885-1965), Ottavio Profeta (1890-1963), Giacomo Etna (1895-1963), Vito Mar Nicolosi (1901-1948) e, ancora, altri elementi rappresentativi del giornalismo intorno agli anni Venti: Mauro Ittar, Enrico Cardile e Gioacchino Di Stefano (Giornale dell'Isola), Salvatore Russo Schyros e Salvatore Frazzetta (Corriere di Catania) e il gruppo che a Catania, sempre in quegli anni ruotava nell'orbita di Giuseppe Villaroel e del Giornale dell'Isola letterario: «Da quel giornale vennero fuori Aniante, De Mattei, Patti, Brancati, Patanè, Etna e molti altri giovani del primo novecento catanese» (G. Villaroel, Il secolo dei panni al sole, Milano, 1959 p. 282). E ancora due a noi più vicini: Salvatore Lo Presti (1903-1980), segretario di redazione, e Antonio Prestinenza (1894-1967), direttore, che diedero a  La Sicilia, il nostro quotidiano, alcuni decenni della loro passione e dedizione e delle loro energie vitali.

*   *   *
Vogliamo ricordare, a vent'anni dalla morte avvenuta a Roma il 10 luglio 1965, Giuseppe Villaroel (nato a Catania il 26 ottobre 1889), giornalista multiforme per quasi sessant'anni, che con penna intinta nel'inchiostro nero o viola riuscì a dare — con prosa lucida e incisiva — un taglio moderno agli elzeviri e agli articoli polemici (i personaggi e le macchiette di allora, con i vizi e le virtù, inseriti in articoli di terza pagina dopo la partenza da Catania, raccolti successivamente nei volumi: Gente di ieri e di oggi; Via Etnea; Il secolo dei panni al sole, pubblicati dal 1954 al 1959, conservano i tratti vividi e le caratteristiche essenziali di molti letterati-giornalisti di provincia).
Molto precoce in Villaroel la passione per la carta stampata, se, a diciotto anni, con l'amico poeta Salvatore Giuliano fondava nella primavera del 1909 Matelda, con sottotitolo ambizioso «rivista della poesia italiana», che segnava l'esordio poetico con la pubblicazione, nel numero di dicembre, di 10 sonetti intitolati collettivamente «Dal mare al bosco», datati «Tarderia 22 settembre 1908». Non è che la prima di una lunga serie di testate, che non è possibile in questa sede censire e collocare in ordine cronologico, del quindicennio catanese che finisce nel 1923. Poi si susseguono con contributi poetici: Prometeo, rivista quindicinale d'arte (1910); l'Amore siciliano, settimanale (a. 1, n. 1, Catania, 3 novembre 1910); La vita letteraria di Roma (1911); Settimana Siciliana, settimanale di Messina (1912); Rassegna siciliana. Vita e arte, quindicinale diretto da Ignazio Ferro, sospeso nel 1915 per il richiamo alle armi del direttore; Pick-wick (1915) e, ancora, Novissima Siciliana, rivista letteraria e artistica, di cui fu direttore e che visse nel biennio 1915-1916, editore Giannotta.

Le riviste, tuttavia, hanno dei limiti: diffusione limitata e periodicità varia (settimanale o quindicinale o mensile e ancora più estesa); ossia non sono lo strumento giornaliero di circolazione delle notizie e delle idee, come è la funzione precipua ed insostituibile del quotidiano. A Catania si stampavano dopo il 1910, due quotidiani: il Corriere di Catania (dal 1879) e la Sicilia (dal 1901). Occasionale e marginale, e quindi di scarsa evidenza (anche per l'inesistenza di una terza pagina), la collaborazione del giovane Villaroel ai due quotidiani, dal 1911 al 1914.
Tuttavia, la sua firma nel Corriere di Catania nel biennio 1914-1915 è già apprezzata; il 2 febbraio un denso articolo di apertura con titolo «Il Risorgimento italiano» recensiva l'opera I mille di Francesco Guardione, e il 28 successivo Adelaide Bernardini Capuana dedicava, sempre nella terza pagina, una lunga recensione alla seconda silloge del Nostro Le Vie del silenzio (Milano 1914).
Ad essi, nel 1915, si aggiungeva come terzo quotidiano, Il Giornale dell'Isola, il cui primo numero usciva sabato 13 marzo, affidato dalla proprietà, rappresentata dal barone Nicola Anzalone, alla direzione degli avvocati Carlo Carnazza e Giuseppe Simili. Esso fu la grande palestra per Giuseppe Villaroel: l'aureola di letterato e l'amicizia di Carlo Carnazza, rimasto dal 1916 unico direttore, gli diedero ampio spazio e molta autorità. Ben presto, dalle cronache anonime e quasi clandestine, passò ad una fioritura di firme apposte agli elzeviri, alle poesie, alla serie di articoli — nell'estate del 1915 — su Giosuè Carducci (poi raggruppati in Carducci e l'Italia, Teramo, 1915, pp. 26), dalle recensioni alla letteratura di attualità, alla rubrica «Fra libri e riviste». Ampio il contributo per la morte di Luigi Capuana (Catania, 29 novembre), anche nei giorni successivi. In questo scorcio d'estate affiorano in terza pagina: le delicate novelle di Antonio Bruno e, a fine anno, le raffinate traduzioni delle novelle di Edgar Allan Poe; i pezzi di Gioacchino Di Stefano dedicati all'olocausto di Guglielmo Oberdan o alla melodia del sogno di Debussy e, ancora, quelli di Enrico Cardile e «L'elogio della caserma» di Giovanni Centorbi.
Se questo è l'apprezzabile contributo al quotidiano, di cui è redattore letterario, Villaroel non cessa la collaborazione alle riviste catanesi e non catanesi, come La Via ed Aprutium di Teramo. Non basta. Nell'autunno del 1915, iscritto nella Facoltà di Lettere, ma già dal novembre del 1912 laureato in Giurisprudenza, otteneva dal Provveditore agli Studi Giuseppe Menotti De Francesco (e l'incontro avvenne, come scriverà il Villaroel nel 1964, nei saloni della prefettura di Catania) la nomina a supplente per l'insegnamento di lettere italiane e storia nell'Istituto tecnico «C. Gemmellaro», dove prestò servizio fino al 1922-23 (dal 1917-18, dopo la laurea, fu incaricato annuale).
Il triennio che va dal 1916 al 1918 trascorreva lungo i moduli dianzi riferiti, con una produzione sempre più intensa. Nella primavera del 1918 usciva la terza silloge poetica La tavolozza e l'oboe. I rapporti con l'amico Antonio Bruno, collaboratore del medesimo quotidiano e poeta, si guastano. Dal 1915, Bruno è corifeo della poesia futurista a Catania: Fuochi di Bengala, del 1917, segnavano l'acme; la polemica con Villaroel (antifuturista) diventava man mano feroce con articoli da sponde opposte, fino a «Buffonate cerebrali» di Villaroel (Giornale dell'Isola, 29 maggio 1919). Poi la riconciliazione, precaria, e dopo, nella primavera del 1919, la rottura definitiva, con il successivo pamphlet di Bruno Un poeta di provincia (Milano, 1920), stroncatura della poesia e della concezione giornalistica dell'antagonista, ma interessante per la cultura soda e pluridirezionale e lo stile di una prosa non provinciale.
Numerosi i motivi della filiazione dal quotidiano di un quindicinale (ben presto mensile) Giornale dell'Isola letterario, il cui primo numero reca la data del 1° febbraio 1919 (nel Giornale dell'Isola del 30 dicembre 1918 nell'annunzio relativo, fra l'altro, si leggeva «la compilazione è affidata al nostro redattore letterario Giuseppe Villaroel»). Caldeggiato fin dall'anno precedente da Villaroel, il direttore Carnazza lo affidava al collaboratore fidato e ben sperimentato, con il ruolo di redattore e supervisore di un supplemento letterario, autonomo ma con il direttore in comune con il quotidiano, durato quasi sei anni e rimasto unico nel panorama della stampa catanese per la formula nuova e aperto fin dall'inizio ai contributi più vari (Croce e Gentile, ma anche Francesco Guglielmino e Luigi Russo). L'organo di stampa, nelle mani di Villaroel divenne uno strumento di penetrazione, di collegamento e di scambio di collaborazione, e — a volte — una cassa di risonanza della produzione propria con la rassegna della stampa favorevole.
Antonio Bruno fu nei quattro numeri iniziali, di febbraio e di marzo, collaboratore e recensore nell'ambito della rubrica «Libri, riviste e giornali», ma dopo — ignoriamo i motivi — ruppe definitivamente. E nel volume contro Villaroel poeta, iniziato a scrivere a Biancavilla nel maggio del 1919, lancia un siluro di rancore nei confronti del periodico, che nel «Notiziario» del marzo (a. 1, n. 4) aveva annunziato in termini lusinghieri l'imminente uscita del volume di poesie cinesi dal titolo Palazzi di Giado: «L'Isola letterario fu il polpettone ad usum siculorum, pretesto al ragù d'una gragnuola di pareri, notizie, delucidazioni ed annunzii, esplosi o propinati all'inclita e al colto che s'allumaca tra Villa Bellini e piazza degli Studi».
Dal 1916 in poi diventano man mano alcune dozzine le riviste alle quali Villaroel prestava assiduamente la collaborazione; ne indicheremo, oltre aìì'Aprutium, alcune: La Diana, rivista di Napoli, con poesia nel fascicolo speciale per la morte di Guido Gozzano (1916); Il fatto nero (1916); Il compendio, rassegna letteraria romana; Noi e il mondo, mensile; Poesia ed Arte, rivista mensile di Ferrara; Le Fonti, rivista mensile di lettere e d'arte di Roma; Le lettere, giornale letterario di Roma; Cronache d'attualità, rivista di Roma diretta da Anton Giulio Bragaglia; Novella; Il Sagittario, rivista pubblicata a Viareggio e molte altre che si omettono.
A Catania quasi tutte le riviste e le rivistine richiedono preventivamente ed annunziano in caratteri vistosi la collaborazione promessa (o strappata) da Villaroel. Con riferimento al decennio 1911-1920 condividiamo quello che scrisse nel 1923 Giacomo Etna « Collabora a tutte le riviste del tempo, fonda giornali che durano un mese, scrive sonetti satirici in dialetto, si forma nello stesso tempo una cultura moderna». Indichiamone alcune: La scalata (1917); La fonte (1917); Rivista delle signorine (1920); Rivista di Sicilia (1921); Rivista d'oggi (Palermo, 1921); L'ascesa (1921); Sinagoga (1921); Haschisch (1921); L'Albatro (1923); Farfalle (1923); e anche La rinascenza scolastica, rivista pedagogica didattica letteraria, quindicinale, nel 1921 e nel 1922. Non è possibile distinguere nel bailamme, se la scelta ubbidiva all'impossibilità del diniego o al gusto della novità o al desiderio di permanere costantemente in orbita.
In questa fase della vita letteraria, prima della partenza per Lodi (1923), Villaroel fu certamente «il jolly della cultura catanese» (come lo definisce con proprietà icastica la studiosa Rosa Maria Monastra).
La sua fama aveva varcato i confini d'Italia, se già nel 1921 La Piume, una delle più autorevoli riviste letterarie che si pubblicavano a Madrid, non dimenticava — dopo la menzione delle attività di Verga e di De Roberto — di mettere in risalto il contributo artistico ed intellettuale del Giornale dell'Isola letterario.

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L'anno 1923, ultimo della permanenza a Catania, fu denso di progetti e di prospettive lusinghiere. Un'iniziativa prettamente giornalistica va segnalata: il Giornale dell'Isola avrebbe avuto il settimo numero, un settimanale con titolo Lunedì dell'Isola, con inizio delle pubblicazioni il 17 settembre, direttore Giuseppe Villaroel. Purtroppo, l'annunzio dato il 15 settembre veniva smorzato (anzi spento) il giorno dopo, con un comunicato di sospensione della pubblicazione, in quanto «le autorità locali hanno fatto conoscere che tale pubblicazione verrebbe considerata in contravvenzione alla legge sul riposo festivo» (Giornale dell'Isola, a. IX, n. 219, domenica 16 settembre 1923, p. 5).
A trentatrè anni Villaroel è un giornalista-scrittore di primo piano, organizzatore e promotore di cultura nella sua città; è il più noto della sua generazione e il più discusso. Il segno inconfondibile dei titoli acquisiti e riconosciuti e della notorietà consolidata è costituito anche dalle pubblicazioni a lui dedicate: Un poeta di provincia di Antonio Bruno nel 1920 (e aveva allora trent'anni) e Villaroel Ai Giacomo Etna nel 1923; all'inizio dell'anno, inoltre, annunziato un profilo a cura di Giacomo di Valbruna nella collana «I contemporanei» dell'editore napoletano Gaspare Casella. Nella primavera era uscita, a Milano per i tipi di Mondadori, la quarta raccolta poetica La Bellezza intravista, che ebbe allora e dopo apprezzamenti dalla critica e dal pubblico.
E la partenza di Villaroel fu messa in grande evidenza dal quotidiano, in cui lavorava da oltre otto anni, e in termini esaltanti (anzi trionfalistici): «Al vittorioso poeta della 'Bellezza intravista', al redattore letterario del 'Giornale dell'Isola' quotidiano, al redattore capo del 'Giornale dell'Isola letterario', giungano gli auguri trionfali...» (Giornale dell'Isola, 9 ottobre 1923, p. 3).

*(La Sicilia, 10 luglio 1985) di Sebastiano Catalano

mercoledì 18 gennaio 2017

Luigi Capuana e "la politica anzitutto"


  • Ebbi rimorsi di non essermi sentito Siciliano abbastanza; di avere esagerato anch’io i difetti del carattere isolano, e di avere apprezzato equamente pregi e particolari ogni volta che, interrogato, avevo dovuto ragionare; ebbi rimorso di non aver difeso clamorosamente, e senza sciocche gonfiezze di amor provinciale, la Sicilia, quando l’avevo sentita mal giudicata o calunniata... cosa non rara purtroppo! (Capuana da L'isola del sole - proemio, Giannotta ed., Catania, 1914)



La vastissima produzione di letterato e di critico di Luigi Capuana è conosciuta universalmente (e la diversificazione in generi letterari numerosi nell'ambito di essa dà la misura delle qualità dell'Autore); meno conosciuta per taluni risvolti la dimensione politica, che il Nostro esplicò con grinta e con passione, pur con le pause degli anni vissuti a Firenze a Milano e altrove — per un trentennio, congiuntamente anzi strettamente intrecciata con l'attività letteraria.
Fu una vocazione o predisposizione, lontana nel tempo, risalente agli albori dell'Unità, se troviamo il Capuana nel maggio 1860, appena ventunenne, vice presidente del «Comitato di operazione di Mineo», insediatosi dopo lo sbarco di Garibaldi per il dissolvimento degli organi municipali (cfr. Gino Raya, Bibliografia di L. Capuana, Roma, 1969, p. 12). Il 30 giugno successivo, il presidente del Municipio portava a conoscenza del Capuana che il Governatore del distretto l'aveva nominato «Segretario Cancelliere di questo Consiglio civico». L'incarico, provvisorio, fu espletato egregiamente per tutto il semestre. L'11 agosto 1861 fu scelto dal Governatore come consigliere del comune (il Consiglio civico in questa fase non era ancora elettivo) ed invitato alla sessione che iniziava il 20 successivo (cfr. C. Zimbone, La Biblioteca Capuana, Catania, 1962, p. 62). Ancora qualche anno trascorso nel natio loco e poi l'espatrio a Firenze, dove rimase per cinque anni, fino al 1868.

Nell'agosto del 1868 (era rientrato a Mineo alla fine di giugno), la morte improvvisa del padre e «gli affari di famiglia» gli imposero di rimanere a lungo. Riprendeva i contatti con i conterranei e, in particolare, con Lionardo Vigo e con Mario Rapisardi. Nel 1870, nel corso dell'anno scolastico, dalla Giunta comunale fu nominato «ispettore scolastico municipale». Di questo incarico, adempiuto con senso del dovere, rimane il testo del lungo discorso pronunziato il 24 novembre 1870, giorno della solenne premiazione (Il bucato in famiglia, Catania, 1870, pp. 23). È questo il tramite, o il ritorno di fiamma, che lo traeva dal privato al pubblico.

Nelle elezioni amministrative, svoltesi nel corso dell'anno, venne eletto consigliere comunale: iniziava così il nuovo ciclo di attività amministrativa, al servizio della cittadinanza. Nel 1872, con regio decreto del 29 febbraio, venne nominato Sindaco di Mineo. Dopo pochi mesi il consiglio comunale fu sciolto e la gestione affidata al R. Delegato straordinario cav. Antonino Fassari inviato dalla prefettura (rimane una Relazione sulla tenuta dell'amministrazione del Comune di Mineo, Catania, 1872). Del nuovo consiglio, che tenne la prima seduta il 24 agosto 1872, fece parte il rieletto Capuana, che dopo venne nominato sindaco, sempre con regio decreto.
Le sindacature del Capuana durarono, in questa fase, poco meno di quattro anni. In una lettera («Mineo lì 2 marzo 1875») all'amico Giovanni Gianformaggio, Capuana lo informava della stesura di una relazione riguardante il periodo della sua amministrazione «Sto scrivendo la mia relazione al pubblico delle cose fatte nei quattro anni di sindacatura» (L. Capuana, Carteggio inedito, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Catania, 1973, p. 11). Le elezioni, che si svolsero nel luglio 1875, segnarono la sconfitta dell'amministrazione guidata da Capuana.
La quasi totalità dei biografi e degli studiosi sono convinti che le sindacature del Capuana furono solamente queste, specificando erroneamente la durata continua di cinque o di sei anni. Tutti omettono la sindacatura triennale dal 1885 al 1888. La testimonianza in tal senso nel Carteggio Verga-Capuana, edito da Gino Raya (Roma, 1984, pp. 274-275), ed è Capuana che in una lettera, inviata da Mineo il 9 agosto 1887 dopo il lungo sfogo confidava all'amico Giovanni: «Come Sindaco non ne posso più! ». Rimarrà in carica ancora un anno. Un cronista del quotidiano catanese Il TelefonoEco dell'Isola riferiva, nel novembre 1887, nella rubrica «Vediamo un po'», un incontro non comune. Lo stelloncino era titolato «Il Sindaco di Mineo»: « Luigi Capuana, il fortunato autore di Giacinta, è qui fra noi da parecchi giorni. L'ho incontrato al corso con Giovanni Verga» (a. I, n. 104, martedì 15 novembre 1887, p. 2).

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Nel decennio intercorso fra le sindacature del 1872-1875 e l'ultima del 1885-1888, vi fu la fase propriamente politica allorquando il Capuana si convinse che la conquista della medaglietta fosse agevole nel Collegio elettorale di Militello in Val di Catania, che comprendeva anche il comune di Mineo. Nel primo decennio dopo l'Unità d'Italia, il collegio era stato conquistato agevolmente dal barone Salvatore Majorana-Cucuzzella. Nel decennio successivo, con inizio il 20 novembre 1870 fu rappresentato, per le successive cinque legislature, dal professore Salvatore Majorana Calatabiano, che cessò automaticamente il 13 luglio 1879 per la nomina a senatore. Questa l'occasione buona per l'inserimento (pensava il cav. Luigi Capuana).
Nelle elezioni indette per il 3 agosto 1879, Capuana ebbe due forti avversari: il barone Benedetto Majorana Ramingo, che sperava di ereditare l'elettorato di famiglia del padre Salvatore, già deputato, e Ippolito De Cristofaro dei baroni dell'Ingegno, che aveva compatti i voti degli elettori di Scordia.
Vinse quest'ultimo largamente, e il povero Capuana, buon ultimo, si dovette accontentare di appena 66 voti (su un totale di 532 espressi validamente). Le elezioni generali per la nuova legislatura si svolsero il 16 maggio 1880 e l'uscente De Cristofaro ebbe per competitore unico il Capuana che fu ancora una volta soccombente (De Cristofaro voti 421, Capuana 114). Dell'insuccesso vi è traccia incisiva nella lettera inviata da Verga pochi giorni dopo («Milano, 28 maggio 1880») «Temevo che tu fossi in collera con me, come l'amico Campi, per il fiasco elettorale»; della candidatura ampia pubblicità nel quotidiano catanese Il Plebiscito (a. 1, n. 102, del 10 maggio 1880, p. 2), che l'appoggiò calorosamente.

Dobbiamo ora considerare, e con indagine mirata, la terza ed ultima fase dell'attività politico-amministrativa di Capuana, che va dall'anno 1885 al 1892, così frenetica e convulsa nello svolgimento da meritare lo slogan «politica ad oltranza» (o, come si direbbe in Francia, «politique d'abord, tout d'abord»). Il sindaco Capuana, in sella dall'agosto 1885 è indaffaratissimo; non solo «per patrocinare il bilancio del Comune presso la Depurazione provinciale» (lettera a G. Verga del 3 dicembre 1885), ma per i nuovi pesanti obblighi sopravvenuti dal luglio '85 con la elezione a consigliere provinciale per il mandamento di Mineo. Subentrava al barone Francesco Spadaro, che era stato eletto nel 1861 e rieletto dopo per un quarto di secolo. Il cav. Luigi Capuana raccolse 214 voti e fu probabilmente presente alla prima seduta della sessione ordinaria del 10 agosto; dopo l'insediamento, fu eletto componente della 3a commissione Istruzione e beneficenza.
Ma le assenze, fin dai primi mesi, furono molto più numerose delle presenze. Aveva promesso a Federico De Roberto, in una lettera del 20 novembre '85, di occuparsi di un affare editoriale a breve scadenza «Me ne occuperò costì, appena dovrò venirci pel Consiglio provinciale». Anche Giovanni Verga sembra deluso per l'assenteismo e così gli scrive il 16 dicembre '85 «Fui sino dal Giannotta a chiedere di te, quando sfumarono le speranze di vederti in occasione delle sedute del Consiglio provinciale. Bel consigliere che fai! ». Esplicò una certa attività; nella seduta del 15 dicembre 1886 fece aggiungere due proposte: la prima «per dichiararsi provinciale la strada Fondacaccio-Mineo» e l'altra «per un sussidio all'osservatorio sismico meteorologico di Mineo» (sollecitata dall'amico Corrado Guzzanti). Dopo, negli anni successivi, le sue assenze divennero sistematiche, e sappiamo che per lunghi periodi soggiornava a Roma e nella primavera del 1888 divenne redattore del Corriere di Napoli, diretto da Edoardo Scarfoglio.

Trascorse così il quadriennio del mandato di consigliere e nelle elezioni successive, indette per domenica 27 ottobre 1889, il quotidiano Corriere di Catania, appoggiava il candidato Capuana per i suoi meriti di letterato, ma si esprimeva con cautela per il resto e con monito per l'interessato; «Quantunque dimorante a Roma il nome illustre ci obbliga a sostenerlo, e confidiamo che gli egregi amici nostri, i quali colà si sono messi in candidatura in opposizione al Capuana vogliamo ritirarsi. Del resto nella nuova legge è sancito il principio della decadenza ed ove il Capuana non rappresentasse gli elettori al Consiglio provinciale si farebbe sempre in tempo per soddisfare alle legittime aspirazioni dei cittadini di Mineo» (a. XII, n. 292, giovedì 24 ottobre 1889, p. 2).
La spada di Damocle della decadenza non turbò il nostro consigliere, che svolgeva la sua attività di scrittore e di giornalista a Roma, cosicché nei primi mesi del 1890 fu avanzata dal prefetto «la proposta di decadenza per le assenze ingiustificate alle sedute della sessione ordinaria». Essa fu posta all'ordine del giorno della seduta dell'8 aprile 1890. Parlarono a suo favore numerosi consiglieri: gli avvocati Eduardo Cimbali e Giovanni Auteri Berretta e, ancora, l'autorevole comm. Francesco Tenerelli senatore del regno. Perorarono efficacemente, sostenendo che le assenze del Capuana erano giustificate, in quanto dovute a malattia. Il prefetto Vincenzo Colmayer « custode della legge», pur non perfettamente convinto, tuttavia ritirò la proposta di decadenza.
Due anni dopo Luigi Capuana presentava formali dimissioni che furono accettate. Si chiudeva così definitivamente un ciclo di attività extra letteraria durato circa trent'anni. Si apriva un altro capitolo della vita di Luigi Capuana: aveva ottenuto dal ministro della P.I., nel novembre 1892, la nomina di professore incaricato dell'insegnamento di letterature straniere comparate presso il R. Istituto Superiore di Magistero femminile di Roma.
(La Sicilia, 29 novembre 1985) Sebastiano Catalano




martedì 29 novembre 2016

"Federico De Roberto consigliere per forza" (per la sua candidatura)



L'esordio di Federico De Roberto nel giornalismo risale al settembre-ottobre del 1876, quando ancora quindicenne ma cronista diligente, nelle mani una copia a stampa del Diario delle feste di Catania per la traslazione in patria delle ceneri di Vincenzo Bellini, a cura del comitato presieduto da Francesco Chiarenza, inviò un resoconto ampio denso e brillante (corredato da numerose fotografie) all''Illustrazione Italiana, rivista nuova (in vita dal 1875), ma già bene accreditata. Nel 1880, diciannovenne, fu direttore per pochi mesi di un giornale quotidiano il Plebiscito, con sottotitolo «organo ufficiale per gli atti dell'Associazione costituzionale » (alla quale aderivano i monarchici catanesi). 

ritratto di De Roberto

Giuseppe De Felice fu anche lui giornalista e direttore precoce, quando nel maggio 1878, non ancora diciannovenne, volle dare nuovo slancio ad una vecchia, ed ormai asfittica, testata Giornale di Catania (in vita, pur con intermittenze, dal 1849). Poi, nel 1880, la collaborazione ad un periodico di rottura Lo Staffile, giornale ebdomadario, ma i suoi articoli non sono ancora impregnati di politica (si occupava di ricerche bibliografiche).
Inizia ora il trentennio, di cui parlavamo all'inizio, che vedrà man mano l'ascesa ininterrotta fino alla piena maturità: affermazione valida per entrambi. De Felice: consigliere comunale nel 1885, rieletto nel 1887, poi per alcuni mesi assessore comunale, nel 1889 consigliere provinciale (decaduto nel 1891), prosindaco per un quadriennio dal 1902, sulla cresta dell'onda — anche se con difficoltà per l'inchiesta Bladier sull'amministrazione comunale — al termine del decennio.
De Roberto: da direttore del Don Chisciotte, giornale domenicale (1881-1883), ai volumi di novelle e racconti, ai saggi, ai romanzi (I Viceré, del 1894), alla collaborazione lungamente agognata al Corriere della Sera dal novembre del 1896 ininterrottamente per l'intero successivo decennio.
Dal 1882, De Felice, fiero repubblicano, redattore dell'Unione, organo del Circolo repubblicano, inizierà un'azione di propaganda politica e di critica alle istituzioni, promuovendo alleanze strane, anzi strani connubi, iniziati nelle elezioni amministrative del 16 ottobre 1887, che lo porteranno in cinque anni alla Camera dei Deputati (1892), e nel 1902 alla conquista del Municipio di Catania. E polemica ad oltranza — gli autori mimetizzati dagli pseudonimi o celati dall'anonimato — anche con persone che non svolgono attività politica, ma sono con evidenza di segno opposto alla linea perseguita dall'organo di stampa.


Echi lontani spenti ormai da oltre un secolo, segnali deboli che cercheremo di amplificare. È da premettere che l'imminente inizio delle pubblicazioni del Don Chisciotte (direttore De Roberto, redattore Pietro Aprile di Cimia, editore N. Giannotta) fu annunziato in questi termini di valenza politica « Ne è direttore un giovane distinto per cultura, e per ingegno, che tenne per qualche mese, anche la direzione del Plebiscito. Ne sono collaboratori poi quasi tutti i segretari e vice segretari del'Associazione Costituzionale, di guisa che non può essere dubbio il suo colore politico» (Il Plebiscito, quotidiano, a. II, n. 32, Catania, 9 febbraio 1881, p. 3). Chiarissimo il discorso; se si aggiunge che accanto a De Roberto vi è il coetaneo Pietro Aprile,, barone della Cimia, esponente della predetta Associazione e ben presto emergente nel giornalismo e nella politica il discorso diventa completo. De Roberto aveva già dato alle stampe un volume di saggi critici Arabeschi (1883), e una raccolta di novelle La sorte, nel 1887.

L'attacco, fin dal titolo «I seguaci di Martoglio» (senior), è all'ultimo furore. Dopo un capoverso di insulti (non si tratta ovviamente di critica), la prosa continua con livore «Eppure cotesto volume ha avuto la sorte di essere trasportato, a cavalcioni di articoli alati e [...] smaccati, negli spazi siderei della letteratura; ed ilFanfulla, essendo di Lodi, le [...] medesime ha profuso a piene mani, perfino con vocaboli nuovi, coniati alla zecca del mutuo fregamento». Segue altro capoverso con riferimento al periodico e ai duelli «si mise a donchisciottare, ma non volle assumere mai la responsabilità delle sue provocanti trullerie» (Unione, a. Vili, n. 45, Catania, 20 novembre 1887, p. 3). L'articolo non è firmato.
L'occasione dell'offensiva antiderobertiana fu data dalla candidatura del medesimo a consigliere comunale caldeggiata dal quotidiano Il Corriere di Catania, di cui è diventato proprietario dal 1° gennaio 1887 il giovane Aprile di Cimia, allora ventinovenne (nato a Caltagirone nel novembre del 1858). L'articolista, Crisostomo, dopo avere declinato la proposta di •candidatura per il barone Aprile (« siamo autorizzati a dichiarare ch'egli non accetta la candidatura») così prosegue, con un elenco di nomi, fra cui spicca quello di Giovanni Verga «Tra i nomi nuovi di giovani eletti per patriziato, intelligenza e carattere, come il Principe di Biscari, il Barone Camerata, il Villarmosa, il Ferlito Bonaccorsi, il Verga, il Majorana, etc. ve ne ha uno, che non compreso in alcuna lista autorevole, lo raccomandiamo con maggior calore perché può rendere degli utili al paese, e forse, diciamo, un pochino più degli altri, perché più abituato alla vita pubblica: è FEDERICO DE ROBERTO» (il carattere maiuscolo è nel giornale che citiamo). Aggiungeva ancora un invito e una forte perorazione finale «Tutti coloro che volessero votare per l'Aprile, noi li preghiamo in nome di Aprile, a votare per il De Roberto. Oltreché essi, gli elettori amici nostri, non perderebbero il loro voto, darebbero anche, indirettamente, un segno di stima all'Aprile. E noi di ciò fin da ora li ringraziamo» (Corriere di Catania, a. IX, n. 242, Catania, 7 ottobre 1887, p. 2 «Commenti della lista del Circolo degli Operai»).

La sostituzione proposta non fu gradita a tutti e un quotidiano, l'indomani, contrastava fermamente la candidatura alternativa «Non conosciamo il sig. De Roberto, e quindi non possiamo discutere il suo nome, che dobbiamo anzi ritenere commendevolissimo, appunto perché presentato dal Barone Aprile. Non possiamo, però, né intendiamo accettare la sostituzione, perché il voto dato al Barone Aprile, quest'anno deve rappresentare la riconoscenza affettuosa di una intiera cittadinanza, la quale siamo certi vorrà rammentarsi di chi nel momento del pericolo stette sulla breccia» (il Telefono — Eco dell'Isola, rivista quotidiana, a. I, n. 72, Catania, 8 ottobre 1887, p. 3 «Per il Barone Aprile»).
Un cenno di ragguaglio sui risultati elettorali ci sembra interessante (le elezioni si svolsero il 9 ottobre 1887, prevalse la lista «Circolo degli Operai»). Il barone Aprile, nonostante la dichiarata repulsione per la candidatura, fu eletto con voti 461 (era stato eletto per la prima volta nelle elezioni del 3 maggio 1885); Federico De Roberto — nonostante le raccomandazioni di così autorevole padrino — ottenne solamente 62 voti di preferenza, collocandosi come 54° dei candidati non eletti.
Per le elezioni del 25 settembre 1910, per il rinnovo del Consiglio comunale, i materiali sono abbondanti e le testimonianze numerose. Una notazione preliminare: De Felice per la composizione della lista dei candidati adoperava una «tecnica» collaudata, sperimentata per la prima volta nelle elezioni comunali del 1885 e perfezionata nelle successive del 1887 e del 1888. Consisteva essa nel coinvolgimento di rappresentanti della borghesia e dell'aristocrazia, di professionisti ben noti e di altri ceti del commercio e dell'industria, con la diplomazia della persuasione e di volere valorizzare qualità finora sprecate e l'assicurazione data di una sicura elezione (l'invenzione della formula appartiene al giurista Vincenzo Gagliani, che l'applicò per vincere le elezioni del 5 aprile 1813, quando a Catania nelle prime votazioni la borghesia, alleandosi con una parte dell'aristocrazia, conquistò il Palazzo comunale).
Nell'estate del 1910 la coalizione defeliciana, che amministrava Catania dal 1902 (ovviamente con i rinnovi delle elezioni parziali), scricchiolava, anzi stava per naufragare. Il sindaco cav. Salvatore Di Stefano Giuffrida (eletto il 25 febbraio 1910), il 20 luglio repentinamente si dimetteva; il 21 luglio poneva la candidatura a consigliere provinciale nel Mandamento San Marco, in contrapposizione ai candidati defeliciani; nel medesimo giorno al Municipio si insediava il Commissario prefettizio cav. Saverio Castrucci: « La consegna degli ufficii gli venne fatta dal sindaco cav. Di Stefano Giuffrida» (L'Azione, quotidiano, a. IV, n. 197, Cat., 22 luglio 1910). Contemporaneamente una vibrata lettera aperta di critica al metodo di amministrazione imposto da De Felice, veniva inviata — e pubblicata dal medesimo quotidiano — dall'avvocato Enrico Pantano, prestigioso consigliere della maggioranza, che segnava il distacco e il passaggio all'opposizione (lo ritroveremo nella lista del «Blocco cittadino»).
Domenica 24 luglio si votò per i consiglieri provinciali e nei mandamenti San Marco e Borgo i tre candidati defeliciani furono sconfitti. Immediate, e inaspettate, il 21 luglio, le dimissioni da deputato annunziate da De Felice con un messaggio agli elettori (cui seguì un immancabile discorso).
Seguirono settimane convulse. Le trattative ed i colloqui per la ricerca dei sessanta candidati che formeranno la lista, che avrà la denominazione suggestiva di «Fascio democratico» rimangono ovviamente segrete. A noi interessano solamente le vicende della candidatura di Federico De Roberto.
Il grande manovratore è all'opera: De Felice riesce a prendere contatti con molti, ricerca uomini nuovi non compromessi con il passato, da unire ai vecchi per dare un volto rinnovato e nuova credibilità alla futura amministrazione. Le conversazioni, svolte sotto l'incalzare del breve tempo non sempre ottengono una risposta pronta e chiara. Per quanto riguarda De Roberto è possibile ricostruire le fasi dell'invito a candidarsi, della resistenza, del diniego e della repulsa, per mezzo delle lettere scritte e pubblicate a Catania e a Roma.
In quella inviata ad Alberto Bergamini, direttore del Giornale d'Italia, pubblicata dal quotidiano il 22 settembre, molti i dettagli interessanti con riferimenti a personaggi noti come il prof. Francesco Guglielmino e l'avvocato e docente Vincenzo Finocchiaro, e che rimane fondamentale per la comprensione dell'intero episodio. Riportiamo la parte centrale di essa.
«Invitato la prima volta dall'on. De Felice addussi tutte le ragioni che mi impedivano di accettare e lo pregai vivamente > di rinunziare al mio nome. Quelle ragioni ripetei prima all'avvocato De Cristofaro, più tardi al prof. Guglielmino perché gliele confermassero più efficacemente. Ciò non di meno partito per la campagna ricevetti una nuova visita dell'on. De Felice accompagnato dal professore Finocchiaro e dal dott. Rapisarda, durante la quale commisi un errore che confesso con la stessa ingenuità che me lo fece commettere, quello di sperare che sarei riuscito a liberarmi con una resistenza cortese. Per evitare l'equivoco prodotto da questo errore misi sulla carta la precisa espressione del mio sentimento in due lettere indirizzate al Finocchiaro e al De Felice». Le lettere furono recapitate tempestivamente, prima della pubblicazione della lista, ma non sortirono l'effetto voluto dal De Roberto (cfr. La Sicilia, quotidiano, a. X, n. 263, Catania, 24 settembre 1910, p. 1).
Nella lettera pubblicata nei due quotidiani, De Roberto accennava a «un piccolo manifesto agli elettori», che a Catania fu affisso «sulle mura» mercoledì 21 settembre: «Agli Elettori, alieno e lontano per indole e proponimento dalle lotte della vita pubblica, dichiaro di non poter accettare la candidatura cortesemente offertami. F. De Roberto».
Severo il commento del quotidiano sul metodo di coinvolgimento di persone nell'attività politica, dando atto del corretto comportamento del De Roberto, che «appena venuto a conoscenza che era comparsa la lista popolare col suo nome, non esitò a far la pubblica dichiarazione che abbiamo riportato e che mentre onora lui, ricade ad onta e confusione di coloro che da lui avevano avuto l'audacia di servirsi per il proprio tornaconto elettorale» (La Sicilia, a. X, n. 261, giovedì 22 settembre 1910, «Un uomo di carattere»).
Leggiamo ora la versione del Corriere di Catania: l'on. De Felice e l'avv. De Cristofaro si recarono a Zafferana Etnea, dove si trovava in villeggiatura la famiglia De Roberto. Lì iniziarono le ricerche di Federico, con l'aiuto del fratello Diego, che poi li accompagnò a Catania. Qui altre ricerche e telegramma finale di Diego a De Felice «Riuscito impossibile trovare Federico. Suppongo partito per Nicolosi». Non manca la raccomandazione finale accattivante «A questo punto, pur apprezzando la squisita modestia dell'illustre scrittore, esortiamo gli elettori a dargli testimonianza solenne, il giorno 25, dell'alta stima di cui Egli è degnamente circondato» (Corriere di Catania, a. XXXII, n. 259, 22 settembre 1910, p. 3 «La candidatura di Federico De Roberto»).
La collocazione nella lista, per l'ordine alfabetico, viene subito dopo «De Felice Giuffrida Giuseppe, socialista«, ma la qualificazione per Federico De Roberto molto distinta e unica «letterato apolitico e amantissimo delle cose di Catania» (Corriere di Catania, a. XXXII, n. 264, martedì 27 settembre 1910).
La lotta di De Roberto per evitare la candidatura, defatigante per le lettere e i telegrammi, gli incontri e le fughe diplomatiche, fu dunque vana. Uno dei motivi che lo spingevano a rifiutare (nonostante due viaggi a Zafferana di De Felice, e le esortazioni di Guglielmino e di Finocchiaro) era certamente il fatto che la lista del « Blocco cittadino » aveva come capolista Pietro Aprile di Cimia, deputato al Parlamento, amico fraterno da trent'anni.
Siamo ansiosi di conoscere i risultati elettorali, ormai a ridosso del 25 settembre, giorno della votazione. Ancora una volta risultava vincente la lista del « Fascio democratico », che prevaleva con voti 3.895 (la lista del «Blocco cittadino» soltanto 3.159 voti). De Roberto risultava il 48° ed ultimo eletto della lista, con a cifra elettorale individuale di 3.524 (De Felice, il più votato, otteneva voti 4.724, ossia ben 829 preferenze aggiunte; opiniamo che De Roberto fu depennato da 371 elettori, forse in seguito al rifiuto della candidatura). La Sicilia, del 27 settembre, attribuiva a De Roberto voti 3.887 (in questo caso sarebbe stato depennato da pochissimi elettori).


***

Ormai tutto doveva rimanere alle spalle ed essere dimenticato: il 3 ottobre successivo fu eletto sindaco l'ing. Giuseppe Pizzarelli (capo della massoneria catanese). Federico De Roberto non presentò le dimissioni da consigliere, anche se la sua assenza non risultò giustificata nella prima seduta; sappiamo che collaborò con l'amministrazione civica in qualche manifestazione d'eccezione (nel 1913 dettò una lapide commemorativa per l'anniversario della morte di Mario Rapisardi, voluta dal Municipo). E il suo nome illustre fu registrato anche nelle guide con questa sola qualifica «De Roberto Asmundo Federico, consigliere comunale» (Guida-Annuario Galàtola per la Sicilia Orientale, Catania, 1911, p. 161).
(La Sicilia, 1985) Sebastiano Catalano





martedì 22 novembre 2016

MARIO RAPISARDI POETA DELL'APOCALISSE

Il titanico creatore del poema Lucifero, il dissacratore di miti e di leggende, di santi e di credenze religiose, la cui potente fantasia nutrita di aneliti libertari raggiunge l'acme nel Canto decimoquinto con il trionfo di Lucifero e la morte dell'Eterno, conclude la vicenda di un luogo terrestre « [...] menre l'eroe discende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa», e rivolgendosi infine al medesimo nell'ultimo verso del canto e del poema: «Levati, disse, il gran tiranno è spento!».



Non si direbbe, dopo l'exploit iconoclasta del 1877, che l'esordio poetico di vent'anni prima possa essere stato antitetico: il fanciullo, esile e timido, quindicenne — e «imbevuto, dalla puerizia, di cattoliche fiabe», come scriverà trent'anni dopo nell'«Avvertimento» ad una ennesima edizione del poema — aveva composto l'Ode a Sant'Agata, vergine e martire catanese (ispirata dalla festività e dalla devozione alla Patrona, nel febbraio 1859).
Per volere del padre, don Salvatore, patrocinatore legale, intraprendeva nel 1862 gli studi unversitari di Giurisprudenza (quando Giovanni Verga li aveva già abbandonati da un anno) per diventare avvocato e così ereditare la clientela paterna. La poesia e le pandette reclamavano dunque il suo tempo (ne concedeva molto alla prima e poco alle seconde). La Palingenesi (poema in dieci canti, Firenze 1868) gli procurò i primi riconoscimenti e i giudizi lusinghieri ed esaltanti (da quello notissimo di Victor Hugo a quello ignorato di Lionardo Vigo che, oltremodo entusiasta, inneggiava a Catania che ha un poeta-filosofo e stabiliva una similitudine con Vincenzo Bellini).

Naturale il dispiacere del padre, ormai certissimo di non vedere il figlio avvocato, che tuttavia un mese prima della morte — avvenuta a Catania il 15 gennaio 1871 — ebbe la gioia (e insieme la sorpresa) di apprendere che il ventiseienne Mario era stato chiamato, per titoli letterari, dal ministro della Pubblica istruzione Cesare Correnti con decreto emesso il 15 dicembre 1870, a dettare lezioni di Letteratura italiana nella Facoltà di Filosofia e letteratura (allora così denominata) del patrio Ateneo.
L'incarico nel primo quinquennio era precario, ossia rinnovato di anno in anno, e retribuito in maniera inadeguata ed insufficiente; e, quindi, la ricerca di un incarico di letteratura nel Liceo, su consiglio dell'amico Francesco Dall'Ongaro, letterato fiorentino. Il motivo vero della necessità di un'altra fonte di guadagno nell'autunno del 1871 — dopo il primo anno di incarico universitario — è il matrimonio già stabilito, e non lontano, con Giselda Fojanesi. La giovane maestrina fu raccomandata vivamente a Rapisardi, in una lettera del 23 aprile 1869, da Dall'Ongaro «Verrà probabilmente a Catania come maestra, una cara giovanetta Giselda Fojanesi. Dipende dal Consiglio comunale che non abbia impegni preventivi con altra. Se la mia nipote (nipote d'affetto) viene a Catania, voglio che trovi una famiglia amica nella vostra». Nei primi di settembre ebbe inizio il viaggio da Firenze, come scriveva da Firenze il 30 agosto 1869 Giovanni Verga alla madre: «[...] mercoledì mattina [...] mi metterò in viaggio colle signore Fojanesi e sarò a Catania sabato col treno della sera» (cfr. G. Raya, Bibliografia verghiana, Roma, 1972, p. 14).
Dall'ottobre successivo la Giselda insegnava in un educandato femminile della città, e dal 1870 era fidanzata con Rapisardi. I preparativi per l'imminente cerimonia nunziale e la partenza per Catania delle Fojanesi sono descritti dal medesimo Dall'Ongaro a Mario in una lettera dell'11 febbraio 1872. «Con quanto piacere avrei accompagnata fra le tue braccia la tua Giselda [...] Onde io l'accompagno co' miei voti e partecipo in ispirito al vostro contento. Ti scrivo queste righe, mentre la Giselda e la madre, e le mie donne si affaticano per apprestar la partenza».
Senza seguire i dettagli delle vicende ulteriori, diciamo che dal 1871, e maggiormente dal 1872, il peso gravante sulle gracili spalle di Mario si è perlomeno triplicato: la famiglia e il duplice insegnamento. Aveva, infatti, ottenuto dal novembre 1871 periodi di supplenze nell'anno scolastico 1871-72, e l'incarico annuale dal 1872-73 al 1874-75, di letteratura al Liceo «N. Spedalieri». L'insegnamento al Liceo lo abbandonò nel 1875, quando divenne straordinario di Letteratura italiana e gli fu conferito l'incarico di Letteratura latina. La poesia, inoltre, avviluppava la sua vita e richiedeva le più nobili energie intellettuali, da preservare e separere da quelle occorrenti per i compiti e le incombenze pur doverosi.
Nell'estate del 1876 il poeta era completamente assorbito in una complessa e gigantesca operazione di « assemblaggio » di ottave, sestine, quartine e terzine, fucinava, martellava e limava nelle ore notturne i versi — diventati man mano ben ottomi-laottocentosette — del poema Lucifero, a cui lavorava da ben quattro anni. Appunto dalla lettera di un amico fraterno apprendiamo che è del 1873 l'inizio della gestazione: «ho più fede nel suo Lucifero che nel discorso critico su Catullo, il quale non so veramente se le gioverebbe molto per conseguire una cattedra universitaria di Letteratura italiana» (Angelo De Gubernatis a M. Rapisardi, Firenze, 1 dicembre 1873).

Il 23 luglio di quel 1876 si svolsero a Catania (sindaco era l'avvocato Francesco Tenerelli) le elezioni amministrative per il rinnovo parziale del Consiglio comunale: da eleggere 14 consiglieri (il quinto annuale, aggiunti i deceduti e i dimissionari). Per il sistema elettorale allora vigente (maggioritario a scrutinio di lista), non vi erano liste precostituite da presentare entro termini prefissati.
Un settimanale dell'epoca: Gazzetta del Circolo dei Cittadini (che si pubblicava dal 1873 e vivrà fino al 1884), portavoce del sodalizio omonimo di professionisti, esponenti della media borghesia ed aristocratici, sistemato in locali eleganti della via Stesicorea, ritenne — di concerto con la «Società I figli dell'Etna» e con la «Società Operaia» di proporre una rosa o lista di candidati. Spiccavano fra essi Antonio Paterno marchese del Toscano, Francesco Tenerelli, Salvatore Di Bartolo, Mario Rapisardi poeta e docente universitario.
Un altro gruppo di candidati veniva proposto dal periodico La Campana, con sottotitolo « Organo del circolo cattolico catanese di S. Pietro», sorto nel 1875 e di chiara matrice clericale. Esponente di questa «lista» era il cav. Giuseppe Paterno Castello di Biscari e una nutrita schiera di professionisti. Le urne furono favorevoli ai candidati appoggiati dalla Campana e di essi furono eletti ben dodici. Dei candidati liberali, patrocinati dalla «Gazzetta», solamente due. E Mario Rapisardi? Di essi risultò il 7° dei non eletti, ottenendo ben 326 voti. Notevole quotazione per un candidato che non ha mosso un dito per farsi votare. Non vi furono, in questa prova elettorale, reazioni del Poeta in opposizione alla candidatura, proposta certamente senza preventivo avviso.
Il carattere difficile ed instabile del Poeta (le crisi esplosive dettate dall'ira si alternavano alle crisi depressive di tipo malinconico, che lo separavano da tutti in claustrale isolamento), gli rendeva la vita ancora più pesante nella scuola, nei rapporti con la stampa (di cui diremo in prosieguo) e di fronte alle candidature, non ricercate ma subite.

Rapisardi aveva già pubblicato Il Giobbe, trilogia, nel 1884, e nel 1886 era in pieno fervore per la raccolta poi denominata Poesie Religiose. Era uscito da un biennio di tormento e di angoscia, iniziato alla fine di dicembre 1883, allorché scoprì la relazione di Giselda con Giovanni Verga, ed attenuato dopo l'incontro e il conforto di Amelia Poniatowski, nuova compagna fino alla morte. I valori dell'amicizia intaccati e corrosi dopo quel trauma; ma nei confronti di due: Calcedonio Reina («Calcidonio, l'amico onde più gode l'animo mio [...]») e Niccolò Niceforo, lontano dalla città ma sempre vicino con la parola scritta, conservò la concezione quasi sacrale dell'amicizia. Un grande amico rimase Giovanni Bovio, docente e deputato.
In quell'atmosfera austera di lavoro, chiuso l'artiere fra i meccanismi del suo laboratorio non più artigianale, tutto era bandito. Nel mondo esterno, nella primavera del 1886 si parlava dell'imminente scioglimento della Camera dei Deputati, che fu poi sciolta il 27 aprile, e delle candidature. Da più parti si avanzò la candidatura di Mario Rapisardi. La proposta per la circoscrizione di Trapani, partì da un gruppo di Marsala con alla testa i giovani fratelli Federico e Vincenzo Pipitone e forse sollecitata o, più verisimilmente, sottoposta ed approvata da Giovanni Bovio, che in tal senso scriveva a Mario da Napoli il 4 aprile 1886 «Portano a Marsala la tua candidatura. Pipitone ti scriverà: lascia fare, non guastare le nostre speranze. A Montecitorio un tuo discorso sarà satannico».

Ma il Nostro non vuol sentirne della candidatura, nonostante le esortazioni dell'amico Bovio. E, per il tramite della stampa amica, comunicava la sua decisione irrevocabile: «Gratissimo a codesta egregia commissione elettorale, che ha proposta e raccomandata la mia candidatura, devo senza indugio dichiarare, che la debole salute, l'insufficienza degli studi, e l'indole mia alienissima da negozi politici mi vietano assolutamente accettare l'onorifica proposta». La dichiarazione apparve nell'Unione defeliciana del 9 maggio, n. 20 (con titolo «Mario Rapisardi non vuol essere deputato»), e reiterata nel n. 21 dell'11 maggio.
Le elezioni si svolsero il 23 maggio e il responso delle urne non fu favorevole alla lista che possiamo definire di sinistra, ma il Poeta — lontano dall'epicentro della lotta — ebbe un ottimo piazzamento con il secondo posto, dopo il marchese Ruggero Maurigi, deputato uscente. Qualcosa di nuovo dovette accadere, dalla dichiarazione di rifiuto alla giornata elettorale, se una diecina di giorni dopo, il 4 giugno 1886, inviava un messaggio entusiastico «Agli elettori della provincia di Trapani». Così esordiva «Raccogliendo 6.260 suffragi sul mio nome, e non ostante la mia pubblica e non certo ritrattabile dichiarazione di non potere assolutamente accettare la candidatura, voi avere provato, che la Democrazia di codesta nobile provincia [...] è degna di vincere, e vincerà». In realtà, dopo la fase di revisione, i voti risultarono un centinaio di più, cioè 6.369. Di questa candidatura, non voluta ma subita, rimane un residuo attivo ossia la composizione poetica «Per la mia candidatura» inserita nel volume Poesie Religiose, pubblicato a Catania nel 1887.
Da Trapani ritorniamo a Catania, dove negli anni successivi altri organi di stampa propugnarono ancora due volte la candidatura di persona che non voleva proprio saperne. A Catania il 10 novembre 1889 si doveva votare per il rinnovo dell'intero Consiglio comunale. Erano presenti diverse liste, proiezioni di altrettanti orientamenti politici ben diversificati (lista liberale progressista, lista democratica capeggiata da Giuseppe De Felice Giuffrida, lista dell'associazione monarchica).
Un periodico La Pietra infernale, con sottotitolo « Giornale custico, frizzante, anticancrenoso», sorto a metà del 1889, nel n. 17 del 2 novembre, presentava nella prima pagina «una lista spoglia di colore politico» e inseriva, fra gli altri, al 38° posto « Rapisardi prof. Mario » (e ripubblicava i 48 nominativi nel n. 18 del 6 novembre). Veloce e puntuale, naturalmente, il rifiuto del Poeta, affidato ad un periodico novissimo La Lotta, «Gazzetta elettorale», che nel n. 3 del 5 novembre 1889 riportava una dichiarazione ispirata da Rapisardi e titolata « I buoni si dimettono». Ecco la parte centrale: «[...] assolutamente ha desiderio di non essere scritto il suo nome in nessuna lista della città; sol perché egli vuol essere lasciato completamente ai suoi studi e all'arte. Anche se venisse eletto da qualsiasi partito, egli non solo non andrebbe una sola volta al Consiglio comunale, ma l'indomani della sua elezione rinunzierebbe recisamente».
Anche il d'Artagnan, il notissimo settimanale diretto da Nino Martoglio, nel supplemento al n. 29 del 25 luglio 1895 — in vista delle elezioni amministrative del 28 luglio — non rinunziò a proporre «la lista del d'Artagnan», e inserendo «Rapisardi prof. Mario» che occupava il 41° posto. Questa volta nessuna reazione.
Una disamina completa dei rapporti con la stampa catanese (e dell'influenza sulla stampa) rivelerebbe un aspetto assai interessante, con acquisizione di nuove conoscenze ed ulteriori collegamenti; tuttavia, essa ha bisogno di un'indagine di ampio respiro e di spazio adeguato, in quanto tali rapporti coprono un arco di quasi mezzo secolo. E la diversificazione nell'ambito di essa ci consente di distinguere: collaborazione con taluni quotidiani e molti periodici, la stampa amica e su posizioni ideologiche affini, e — infine — le testate che sono la trasposizione delle opere principali, ormai famose, a veicoli di diffusione del pensiero rapisardiano. Dopo quest'ampia premessa non possiamo che operare per sintesi e per settori.
La collaborazione alla Gazzetta della provincia di Catania, «Ufficiale per l'inserzione degli Atti amministrativie giudiziari», trisettimanale, che si pubblicava dal 1867, è documentata da una composizione titolata «Versi», dedicata a Francesco Dall'Ongaro, apparsa nel n. 116 del 29 settembre 1869.
Nel maggio 1870 a Catania, dalla trasformazione del settimanale omonimo (o continuazione, con titolo ridotto, del precedente) era sorto il quotidiano Gazzetta di Catania (« Si pubblica tutti i giorni meno il domani delle feste»), su tre colonne, di formato molto ridotto pari a un quarto della pagina del nostro quotidiano La Sicilia, diretto dall'avvocato Nicolò Niceforo, l'amico fraterno di Mario. E la collaborazione di M. Rapisardi vi fu (la collezione ai nostri giorni è molto lacunosa), se leggiamo una lunga recensione all'opera poetica Il Tasso di Sant'Anna (Catania Tipografia E. Coco, 1870) di Lucio Finocchiaro, poi avvocato illustre e deputato di Paterno dal giugno 1904 all'ottobre 1909 (anno V, n. 22, sabato 28 gennaio 1871, p. 2). E così ne L'Italia Artistica (anno I, n. 1, Catania, 26 gennaio 1872), fra i collaboratori letterari troviamo M. Rapisardi e Luigi Capuana. Ritroviamo la sua firma in calce al sonetto « Febbraio» nel Don Chisciotte (anno I, n. 8, Catania, 3 aprile 1881), diretto dal ventenne Federico De Roberto.
E collaborò anche a molti altri periodici, a La Frusta, « Giornale democratico», con un pezzo su Giordano Bruno (anno I, n. 3, 3 luglio 1885), alla rivista Arte con un sonetto (fase. 7-8 del 1885) a L'Etna, «organo dell'Associazione radicale», con «Il canto della ghigliottina» tratto dal Lucifero (anno I, n. 2, Catania 10 gennaio 1892). Altri periodici si occuparono di lui e dell'opera sua, come Il Piccone, settimanale, che nel supplemento letterario dedicava uno studio critico all'ode «Per Nino Bixio» (anno II, n. 1, 5 gennaio e n. 2 del 28 gennaio 1891), o come Per il Popolo, periodico socialista, che nel suo primo numero, in apertura, rende onore al Poeta dell'Umanità e riporta il programma delle onoranze del gennaio 1899 (anno I, n. 1, 22 gennaio 1899). L'Unione, defeliciana, vicina al Poeta, riporta in molti numeri unici dedicati al 1° Maggio versi suoi («Mattinata», versi di M. Rapisardi in «Numero unico 1° Maggio 1893 »).
Non erano però tutte rose, nel senso che molti erano i giornali che lo attaccavano e lo punzecchiavano e lo infastidivano, particolarmente in certi periodi della sua vita, se fu spinto a dedicare nel Canto VIII del Lucifero due ottave a « La babilonia delle gazzette»: «Che d'oro ingorde e a chi più paga addette/Ebber dal prezzo lor nome gazzette».
Un gruppo a sé stante nel vasto panorama delle riviste, è costituito dalla stampa che si ispirava al suo pensiero, mutuando man mano da una sua opera la testata, additandolo come profeta e caposcuola. Nel 1884 — Rapisardi ha appena quarantanni — la prima serie di Lucifero, «rivista scientifico-sociale», «tipografia Nazionale, in fol. di 4 pag. » (la scheda fu compilata dal bibliografo Orazio Viola nel suo Saggio del 1902, ma oggi non troviamo traccia di essa nelle Biblioteche della città).
Nell'ultimo decennio del secolo furono tre le riviste all'insegna rapisardiana. Giobbe, «Politico, letterario, teatrale» (anno I, n. 1, 27 giugno 1891), che nel «Programma» si ispira al positivismo di Augusto Comte e a M. Rapisardi, che a sua volta «ispirato a questi grandi princìpi, scrive l'immortale suo poema il Giobbe, vasta concezione che esprime l'arte, la scienza e la politica moderna». Dando vita al settimanale, la redazione, costituita da un gruppo di «riconoscenti discepoli», «invia all'illustre cantore del Giobbe un affettuoso saluto».
Nel 1894 ancora Lucifero, «rivista politico-sociale», che visse nel biennio 1894-1895. Della seconda serie rimane, purtroppo, un solo numero: anno II, n. 2, 7 aprile 1895 (Biblioteca Civica e Ursino Recupero). Infine una rivista di ampio respiro, in vita dal novembre 1898 al novembre 1900, che usciva con assoluto rispetto della periodicità quindicinale: Palingenesi, « rivista letteraria», diretta da Antonino Campanozzi, pubblicista, poi avvocato e nel 1909 deputato, vissuto fino al 1960.
La rivista pubblicava, in anteprima, prose e poesie di M. Rapisardi, inediti di Giovanni Bovio, ma era aperta ai contributi di esponenti di estrazione diversa, come i due sonetti di Gabriele D'Annunzio ospitati nel n. 7 dell'agosto 1900 (così come plaudiva, nel maggio 1899, alle «Onoranze a Gabriele D'Annunzio», dedicandovi due pagine di adesione).

Siamo all'ultimo decennio di vita. Rapisardi si trascinava stancamente, al punto che per la malferma salute deve interrompere, e poi cessare, le lezioni all'Università; sicché dal 1903 fu nominato un supplente, in persona di Giovanni Melodia, palermitano. La domanda, con la richiesta del supplente, doveva essere presentata dal docente al preside della Facoltà entro i termini stabiliti. All'inizio dell'anno accademico 1904/05 Luigi Capuana, Preside della Facoltà di Lettere e filosofia, con biglietto del 30 novembre 1904, ricordava garbatamente rivolgendosi con il «Lei» accademico al docente: «Illustrissimo Professore, La prego di sapermi dire se Lei riprenderà quest'anno il corso regolare delle sue lezioni; o se la Facoltà deve provvedere alla supplenza. Con profondo ossequio».
Era trascorso già il biennio di aspettativa, il massimo consentito dalla legge per gravi motivi di salute, e non era possibile trovare in sede un espediente valido per oltrepassare i limiti imposti dalla normativa vigente. Al ministero della Pubblica Istruzione erano orientati a pensionare il Poeta per raggiunti limiti di età ma nel 1905 l'intervento energico dell'amico on. Giuseppe De Felice Giuffrida e dell'on. Edoardo Pantano valse a scongiurare il pensionamento anticipato, sicché il Rapisardi potè conservare la titolarità della cattedra (con stipendio ridotto), fino alla morte (avvenuta durante l'anno accademico 1911/12).
Nessuna sorpresa, quindi, sull'immediata adesione del Poeta alla richiesta di De Felice per un contributo, anche minimo, da pubblicare nel quotidiano da lui diretto, in occasione del 1° Maggio 1910. «Roma, 24 aprile 1910. Illustre Amico, le sarò grato e riconoscente se vorrà mandarmi un verso, una frase o una parola, pel numero del 1° Maggio del Corriere di Catania. E la ringrazio».
Nell'ultimo anno di vita riceveva ancora qualcuno, ma ciò avveniva sempre più raramente. L'ultima visita nel ricordo di Giuseppe Villaroel, allora poco più che ventenne: «L'ultima volta che lo vidi era infermo da tempo. Affondato nella poltrona, con una coperta sulle gambe, pigolava. Cèrea la faccia smagrita, grigi e radi i capelli lunghi riversi sulle spalle, scarne e ossute le mani. La Poniatowski (l'affettuosa compagna che lo assisteva) entrò piano piano, gli pose sul tavolinetto, ingombro di libri e carte, una tazza fumante; e scomparve. 'Come state, maestro'. 'Parliamo d'altro ', disse, [...] » (G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Rocca San Casciano, 1954, p. 78).
Nel dicembre del 1911 l'aggravarsi della malattia fece temere imminente lo spegnersi della lampada della vita, sempre più fioca; ma la morte sopraggiunse nelle prime ore del pomeriggio del 4 gennaio 1912. I funerali, con la partecipazione di una folla immensa, avvennero in una giornata apocalittica ed indimenticabile di quel gennaio; riportiamo lo svolgersi di essi nella «ricostruzione» pittoresca e surrealistica di Antonio Amante (allora Antonino Rapisarda, dodicenne): «I funerali ebbero luogo in un pomeriggio da cataclisma; soffiava un furioso vento; la pioggia cadeva torrenziale; la città era allagata d'acqua di cielo e di mare; sardine e passeri venivano raccolti, morti o storditi, in Piazza del Duomo; la salma del Poeta, adagiata sulla carrozza del Senato [...] andava dondolandosi alla mercè delle raffiche nel Corso Stesicoro zeppo di popolo bagnato fradicio e in lagrime».

« Lucifero si è scatenato » commentava la plebe pia; e gli atei rispondevano in coro: «È la natura che si veste a lutto per la perdita di un sì inclito figlio». «[...] e fu al cospetto di tanto sinistro spettacolo, d'Apocalisse, che composi il mio fatidico sonetto, [..] » (A. Amante, Figlio del Sole, Milano, 1965, p. 463).

 Sebastiano Catalano (La Sicilia, 1984)

martedì 2 dicembre 2014

Giselda Fojanesi e Mario Rapisardi contro le "balle" che girano intorno alla sposa del nord e il poeta.


1. Giselda Fojanesi a Catania (1869). Gelosia di Mario espressa in prosa. Il fidanzamento (1870).

Giselda Fojanesi, diciottenne (nata a Fojano, dal 1862 Fojano della Chiana, il 28 agosto 1851), fiorentina d'elezione, nei primi di settembre del 1869 viaggiava con la madre Teresa e con Giovanni Verga da Firenze a Catania, per prestare servizio come maestra nell'Educandato e Convitto provinciale «Margherita», di cui era presidente il professore Salvatore Marchese (1). Il Convitto femminile, annesso alla scuola normale per allieve maestre, fu istituito dal Consiglio provinciale di Catania nel 1866 (2).
La Giselda era stata raccomandata da Maria Dall'Ongaro, sorella del letterato Francesco, a Mario Rapisardi perché trovasse il modo più opportuno per il parere favorevole alla nomina di maestra
(1)  Salvatore Marchese (Misterbianco 1811 - Catania 1880), docente universitario e Rettore, deputato eletto nel 1861 nel collegio di Catania I (si dimise nel novembre 1862), era dal 1861 consigliere provinciale eletto per il mandamento di Misterbianco. Nominato senatore del Regno il 16 luglio 1876, non si recò a Roma per prestare il giuramento.
(2) Così nel disposto dell'art. 1 dei Regolamenti organico-amministrativo e disciplinare del Convitto di educazione femminile instituito dal Consiglio provinciale di Catania, Catania, Stabil. tip. di C. Galàtola, 1868, p. 3.

da parte del presidente dello stabilimento provinciale. Il Poeta scriveva nel maggio del 1869 all'amico fiorentino «Dirà alla sua signora sorella che io l'ho immediatamente servita. La signorina Fojanesi è stata impegnata per questo Convitto provinciale e dovrà venire nel prossimo settembre» (3). La Fojanesi, dopo avere frequentato i tre anni del corso della scuola normale e due anni di tirocinio, aveva ottenuto nel '69 il diploma di maestra elementare superiore, sempre a Firenze (4).
Mario Rapisardi conobbe la Giselda non a Firenze, dove nell'estate del '68 conobbe la madre signora Teresa, ma al termine di questo viaggio a Catania (a Messina, penultima tappa dopo Napoli, attendeva Mario il fratello di Giovanni). La prima impressione di Giselda fu senz'altro sgradevole «Il Rapisardi era magrissimo, macilento, con l'aria sofferente e non piacque molto a Giselda che lo trovò piuttosto ridicolo, nonostante le molte parole spese dal Verga in suo favore» (5).
Il confronto fra i due, diversi fisicamente e nel carattere, si poneva subito agli occhi della fiorentina, che anche se giovane - ma già 'piccola strega' civettuola e vivace - sapeva destreggiarsi con abilità e grazia di farfalla tra Giovanni e Mario, tendeva a scoprire chi dei due fosse più vulnerabile all'attrazione fatale e quindi favorevole a duraturo vincolo matrimoniale.
Mario, fin dai primi mesi (anzi giorni) escogitava i modi più vari per rivedere la Giselda, con visite reiterate per lo più domenicali e passeggiate romantiche lungo il marciapiede di fronte la sede del Convitto, o per comunicare con biglietti spediti o introdotti clandestinamente, e dimostrava di aver preso una cotta per quella ragazza bruna dagli occhi neri e mobili, cosicché ancor prima del mese era al giusto punto di 'cottura'. Manifestazione primaria di sentimenti d'amore e di gelosia è la lettera del novembre (1869) «A Giselda» (6):
(3) M. Rapisardi a F. Dall'Ongaro, Catania 29 maggio 1869, in Epistolario, cit., p. 36.
(4) MARIA BORGESE, Anime scompagnate: Rapisardi e Giselda, in «Nuova Antologia», Roma, anno 72° - Fase. 1576, 16 novembre 1937, p. 169.
(5)  Cfr. G. CATTANEO, Verga, op. cit., p. 100.
(6) A. TOMASELLI, Epistolario, cit., «A Giselda. Lunedì al tocco», pp. 41-42. Il 'feeling' sbocciava subito. Testimoniano in tal senso quattro lettere brevi (la prima vergata da Giselda il 22 settembre, non più di due settimane dall'inizio della sua permanenza a Catania) e biglietti, riprodotti in A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 121-123.

«A me non è concesso di scriverti né di vederti, o Giselda, mentre ad altri è dato di averti in casa e di parlare un'intera giornata al tuo fianco. A me la solitudine e le ambasce e il dolore, ad altri la pace, l'indifferenza e la felicità; a me le spine amarissime del sospetto e i triboli avvelenati della gelosia, ad altri la tua compagnia la tua parola i tuoi sorrisi! O Giselda, Giselda! Tu hai passato una giornata in casa Verga, ed hai fatto il più grande oltraggio all'amor mio, la più grande offesa alla mia dignità. Tu non me n'hai fatto neppure un cenno nella tua lettera, ed hai fatto un torto alla tua consueta sincerità. O non mi conosci, o non mi ami. Quel giorno, che io mi convincerò di essere ingannato, sarà l'ultimo giorno del nostro amore. Addio.»

Il punto centrale della rimostranza, che metteva a nudo il sentimento di invidia/gelosia, è condensato e spinto fino al parossismo nel periodo «Tu hai passato una giornata in casa Verga, ed hai fatto il più grande oltraggio all'amor mio, la più grande offesa alla mia dignità». Giselda era stata invitata dalla madre e dalle sorelle di Giovanni Verga a trascorrere una giornata nella villetta dei Verga in San Giovanni La Punta; effettivamente, a Catania, fin dal primo momento, si stabilì una corrente di simpatia e di amicizia, specialmente con Teresa (7), e ciò nel clima «solare» della famiglia Verga.
Nella fase successiva intervenne la madre di Giselda (messa sull'avviso dalla direttrice del Convitto Livia Marghieri), che scrisse a Mario il 20 gennaio del '70 in termini propiziatori e realistici «Ella [la direttrice] è convinta passarsi qualche cosa di più d'una semplice amicizia, che la vostra corrispondenza, per mezzo della posta, è troppo frequente, e che in una piccola città potrebbe destare sospetti,...» e lo incalzava aggiungendo «che peraltro Ella [la Giselda] non vorrebbe mai opporsi ad una cosa legittima», e, ancora, completando con il tocco di grande risonanza affettiva «...se v'è uomo al mondo al quale vorrei vedere unita per sempre la sorte della mia 
(7) Di Giselda Fojanesi rimane di quest'epoca una foto, col capo velato, e con dedica «Alla mia cara amica e sorella Teresa, Giselda, lì 8 settembre 1869». Cfr. GIOVANNI GARRA AGOSTA, La biblioteca di Giovanni Verga, Catania, Edizioni Greco, 1977, p. 142.

Giselda diletta, quello siete Voi!...» (8).
Mario, a stretto giro di posta, rispondeva alla signora Teresa con lealtà e mettendo a nudo i sentimenti che lo agitavano nel profondo, equivalenti ad una dichiarazione d'amore, per così dire, 'ufficiale'. La signora Teresa replicava il 2 febbraio '71 e oltre la sua commossa materna approvazione («Ho versato delle lagrime leggendo la vostra lettera»), forniva la testimonianza dell'amore di Giselda per Mario, riportando un brano della lettera di risposta della figlia, interpellata dalla madre, sui sentimenti verso il Poeta «La sventura non potrà più d'ora innanzi colpirmi, poiché il solo pensiero d'essere amata da quest'uomo angelico, superiore di tanto a tutti gli altri uomini, basta a rendermi pienamente felice, e a darmi forza per sfidare l'avversità della sorte». E aggiungeva ancora «Pensa a me, Mamma mia, che soffro tanto, che mi annoio dal desiderio di vederlo, di parlargli, di ricevere un suo scritto, e non lo posso! Ah! sono proprio sventurata, io lo adoro, so d'essere corrisposta, e non posso vederlo, non posso scrivergli!.» (9). Vi sono certamente nei sentimenti ora dichiarati da Giselda amplificazione e sopravalutazione dell'amicizia ancora recente ed anche autoesaltazione narcisistica per i segnali di attenzione e di predilezione nei suoi confronti, espressi dalla Giselda con l'esplosione improvvisa di fiammate senza un fuoco preesistente.
Nella lettera successiva, del 7 luglio '70, la signora Teresa esprimeva lo sconforto per le notizie provenienti da Catania, contenute in una lettera della figlia e nell'altra della direttrice che descriveva «l'umore cattivo» e «i modi aspri con le bambine», che i componenti il Consiglio dell'istituto erano decisi a sostituire le educatrici con le «teste calde» (10). Espressioni chiare, che preludevano al licenziamento di Giselda. E ancora il 28 luglio, oltre le angustie per la figlia («sono priva di lettere della Giselda da più corsi di posta»), quasi
al termine una notizia ottima per Mario «Ho veduto Dall'Ongaro, mi
(8)  A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 109-110.
(9) A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 110-111. «Le parole in corsivo si trovano sottolineate nell'originale» (nota di p. 111).
(10) A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 111-112.

ha detto che avrete la cattedra positivamente...» (11).
Due giorni dopo, nell'altra premurosa del 30 luglio, dedicata esclusivamente a Mario, riferiva i sentimenti di Giselda e confortandolo con toni intimistici da sorella maggiore, concludeva con un capoverso di ulteriore rassicurante certezza: «Vi dirò anche, se può esservi di conforto ciò, che ieri parlai novamente di Voi a lungo con Dall'Ongaro, il quale mi disse che avrete positivamente la desiderata cattedra, e che non possono esservi difficoltà in contrario» (12).
Giselda ritornò nell'agosto 1870 a Firenze, dove rimase in attesa di nuova occupazione e dove la raggiunse verso la metà di giugno del '71 il Rapisardi, che trascorse l'estate nella casa dei Fojanesi, rientrando a Catania il 24 settembre 1871 (13).
(11) A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., p. 112. Alludeva alla cattedra universitaria, che il Rapisardi ottenne con Decreto ministeriale del 15 dicembre del 70.
(12)  A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., pp. 112-113.
(13)  A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., p. 115.

2. Giselda lontana da Mario. I sentimenti in versi A Giselda (luglio '70), poi nella parte seconda delle Ricordanze.
Nel periodo precedente la separazione, durata quasi dieci mesi, Rapisardi nel luglio del '70 compose una lirica. «A Giselda», pubblicata due anni dopo nella raccolta Ricordanze (14).
(14)  M. RAPISARDI, Ricordanze, versi, Pisa, Tip. Fratelli Nistri, 1872, pp. 161-170; ID., Ricordanze, «Seconda edizione corretta dall'A. ed accresciuta di altre epistole e di molti inediti componimenti», Milano, Libreria Editrice G. Brìgola, 1878, pp. 121-127; ID., Ricordanze, «Terza edizione accresciuta e corretta dall'A.», Torino, E. LoescherEd., 1881, pp. 122-128. Inserita dopo in ID., Elegie («tutti i versi d'affetto»), Livorno, Vigo, 1889, pp. 79-86; ancora in ID., Opere, I, Catania, N. Giannotta Editore, 1894, pp. 388-394; infine, in ID., Poemi liriche e traduzioni, R. Sandron Editore, Milano-Palermo-Napoli, s.a. (1911), PP- 67-68.
Conosciamo anche una traduzione in lingua tedesca: M. RAPISARDI, An Giselda, Wien, M. Salzer, 1880, in-4°, p. 8 in carta rosa (quattro copie nella Bibl. Civ. e U.R. alle segnature: Civ. mise. D. 2. 7-11; Rap. M. 23. 29.; Rap. M. 20. 18.; Rap. M. 21. 20.).
Per la data della composizione v. M. RAPISARDI, Prose, poesie e lettere postume, raccolte e ordinate da L. Vigo-Fazio, op. cit., p. 161: M. Rapisardi a Giovanni Alfredo Cesareo, Catania 19 di giugno '80.

L'onda lunga dei sentimenti di amore e di tenerezza si riversa nei versi (ma anche l'angoscia e la solitudine, figlie della depressione), dal momento magico dell'innamoramento («Pur benedetto il dì che dentro al core, / Palpitommi il tuo sguardo, e benedetta / La furtiva parola e il bacio primo, / Che di perpetuo amor l'alme ne avvinse,...») agli affanni susseguenti («E benedetti ad uno ad un gli affanni, / Ch'io per te soffro e soffrirò! Tal cosa, / Cara, tal cosa è l'amor mio, che nullo / O sgomento o pietà dammi di questa / Misera vita,...») (15); e ancora la descrizione del dramma esistenziale di chi vive con accanto le ambasce, lo sconforto, l'irrequietezza incessante: 
«Morta è la fede / Morta è la gioia in me: sorride e spera /Altri ove io piango; un'incessante, inqueta / Smania mi caccia;...», e la solitudine suprema da affrontare, nudo e disarmato «Solo sull'orlo a questo vuoto immenso / Che universo si noma, a cui, se danno / Luce tant'astri è per mirar nostr'ombra, / Muto, tremante e derelitto io pendo,...» (16); ma riemergono dal più profondo per questo amore i sentimenti della devozione e del sacrificio in termini assoluti «Tutto io darei per te! Se cosa vile / Capir l'alma potesse, io fino all'onta / Fino al delitto scenderei, pur eh 'alto / Sopra gli affanni altrui segga il tuo core/E il tuo cor presso al mio! Crudel talvolta / L'amor mi fa!... » (17).
Ma la condizione umana del dolente e derelitto può essere accettabile solamente se vi è il sostegno e il conforto dell'amata «Deh! ascolta anima cara; e se tant'alto / Amor ti parla, che dolente e solo / L'alma tua rara non sostien ch'io viva, / Vieni, ah! vieni al mio cor, tergi il mio pianto, I Dolcezza unica mia! Le braccia io tendo /A te, come il nocchier le tende al porto» e ancora reiterando la preghiera «Vieni, ah! vieni al mio cor, tergi il mio pianto / Speranza unica mia!...» (18).
Nei 162 versi di questa lirica circola un'atmosfera di tardo romanticismo, appesantita da accenti 'deliranti', ma essa costituisce un pezzo 'forte', che il Rapisardì conserverà e limerà fino all'ultimo (1911).
Per Giselda, nei primissimi tempi della permanenza a Catania, il Rapisardi aveva composto, nell'ottobre del '69, un'altra lirica
(15)  M. RAPISARDI, Ricordanze, versi, 1a ediz., op. cit., pp. 161-162.
(16)  M. RAPISARDI, Ricordanze, op. cit., pp. 163-164.
(17)  M. RAPISARDI, Ricordanze, op. cit., p. 166.
(18)  M. RAPISARDI, Ricordanze, op. cit., p. 169.

«Un astro», dieci quartine, impregnate di romanticismo e piuttosto dolciastre le ultime, intarsiate da dichiarazioni d'amore: «Lascerei questa luce e questa sfera / Sol per venirti accanto; // E, il mio fato obliando e i raggi miei, / Del tuo mondo sfidar gli affanni e l'ire; / Solo un giorno per te viver vorrei, /Dir: t'amo, e poi morire» (19).
L'anno 1871 trascorse lentamente per Giselda, a Firenze, in attesa di lettere da Catania; e per Mario fu di intenso lavoro intellettuale e creativo: dal gennaio preparava le lezioni universitarie di Letteratura italiana, lavorava al «Satana» (poi Lucifero) e pensava e scriveva all'amata Giselda.
(19) Per la data di composizione cfr. M. RAPISARDI, Prose, poesie e lettere postume, op. cit., loc. ult. cit.; per la dedica cfr. A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., p. 115, nota (2): «[i versi] figurano nell'autografo dedicati «alla signorina G. Fojanesi».
«Un astro» è inserito nelle diverse edizioni delle Ricordanze, nonché in ID., Opere, I, cit., pp. 376-78, ed anche nell'ultimo volume rapisardiano Poemi liriche e traduzioni, op. cit., p. 66.

***


1. Il matrimonio celebrato a Messina - Le delusioni di Giselda in casa Rapisardi - L'insoddisfazione crescente.
Dopo un fidanzamento durato due anni e qualche mese (certamente prolungato a causa della morte di Don Salvatore Rapisardi, avvenuta nel gennaio 1871, e il lutto stretto doveva mantenersi per un periodo non inferiore ad un anno), ecco finalmente Giselda e Mario sposi. Il matrimonio fu celebrato a Messina lunedì 12 febbraio 1872. Sulla scelta di questa città nessuna ipotesi è stata avanzata; sulla cerimonia solamente un inciso di Tomaselli (1) e poco più di un cenno nel saggio della Borgese (2), che si sofferma sull'accoglienza della suocera a Catania, nella descrizione delle stanze dell'abitazione e sul pranzo di nozze («...fu triste, mal servito sulla tavola apparecchiata senza cura, nella stanza di passaggio,...») e sui convitati (gli uomini seduti attorno alla tavola con il copricapo: due con il cappello, uno con il fez e Mario con il berrettone di lana).
Le delusioni aumentarono per la Giselda subito dopo, per l'angustia dei locali e i disagi ripartiti e sopportati un po' da tutti, com-
(1) A. TOMASELLI, Commentario rapisardiano, op. cit., p. 115.
(2) M. BORGESE, Anime scompagnate: Rapisardi e la Giselda, op. cit., p. 175.

presi gli sposini («Anche il passare quella prima notte di matrimonio tra le due madri... fu cosa che mise di pessimo umore la Giselda...»); anche certe abitudini premurose della madre per Mario non potevano continuare, ovviamente (3); ma la sorpresa, poco dopo, visiva e ravvicinata, superava ogni precedente delusione, anzi la sposina «provò un senso di sgomento indicibile vedendo il marito nell'intimità, magro, sparuto, con le spalle strettissime (i vestiti erano imbottiti dallo zio Giaretta) con tutti i caratteri dell'uomo molto malato e debole» (4).
Superata questa prima fase, l'intesa fra i coniugi vi fu, ma durò un anno o poco più. La Borgese, che ebbe notizie, confidenze e documentazione dalla Giselda (oltre mezzo secolo fa) così descrisse quel tempo «Il primo anno, la sera, egli rimaneva in casa e allora lessero insieme del teatro greco, molte odi di Pindaro e altri classici»: Giselda si accontentava, allora, di poco, ma anche ciò suscitava la gelosia della suocera (5).
Inoltre la Giselda, abituata a vivere a Firenze «a uscire ogni giorno o sola o con la mamma o con la sorella», soffriva per questo nuovo modulo di vita che era condizionato pesantemente da altri, specialmente dalla suocera; fra l'altro non potè ben presto andare a messa la domenica mattina con la cognata Vincenza, per un tassativo divieto del marito (6). Gli anni che seguirono, grigi, monotoni, appiattiti, ravvivati raramente da fatti insoliti, spensero gli entusiasmi giovanili e solamente al termine del decennio (secondo Gino Raya; come vedremo, a metà del decennio) furono illuminati da una luce nuova.
(3) M. BORGESE, op. cit.,  p. 177.
(4) M. BORGESE, op. cit., p. 178.
(5) M. BORGESE, op. cit.,  p. 179.
(6) M. BORGESE, op. cit.,  p. 179.

2. L'amicizia del Rapisardi con gli Ardizzonì: don Carlo e il figlio Gaetano.
Rimaneva, solamente entro certi limiti, la valvola di sicurezza dei rapporti di amicizia con persone di tutto rispetto, anzi al di sopra di ogni sospetto. Fra le amicizie già salde, che si rinsaldarono sempre oltre gli eventi, va privilegiata quella con gli Ardizzoni: don Carlo, notissimo patriota e mecenate, e il figlio avvocato Gaetano, coetaneo ed amico di Mario. Era un'amicizia antica, risalente ad un tempo immemorabile, nata dalla contiguità di abitazione: i Rapisardi abitavano un appartamento con ingresso da via del Penninello, dove nacque Mario; nell'angolo omologo con prospetto su via degli Schioppettieri (poi via Manzoni) l'imponente palazzo degli Ardizzoni.
Una famiglia che esprimeva dalla fine del Settecento patrioti, giuristi ed uomini politici: come Giovanni (7), avvocato, eletto nel 1813 consigliere civico e dopo rappresentante di Catania nella Camera dei Comuni del Parlamento di Sicilia dopo la riforma, poi magistrato; come il figlio don Carlo (8), liberale: nel 1837, nella sua casa avvenne un'importante riunione politica per rendere possibile una sollevazione popolare contro la tirannide borbonica; nel 1848, dopo la rivoluzione del gennaio, fece parte del comitato cittadino, cui era demandato il mantenimento dell'ordine pubblico; letterato, promotore di iniziative civili e culturali come il Gabinetto di lettura (meglio noto come Gabinetto Fanoj). Fece parte dall'agosto del 1859 (dopo la venuta di Francesco Crispi a Catania) del «Comitato d'Azione», presieduto da Gioacchino Paterno Castello di Biscari e da allora fu strettamente sorvegliato dalla polizia borbonica (9).
Gaetano (10), figlio di Carlo, laureato in Giurisprudenza nel 1858, partecipava come i suoi ascendenti alla vita civile ed amministrativa della città. Nelle prime elezioni amministrative dopo l'Unità, nel gennaio 1862, fu eletto consigliere comunale e rieletto nelle successive svoltesi il 20 settembre 1867. L'anno precedente aveva dato alle stampe un corposo volume di liriche: Canti (11). 
(7)  Nato a Catania nel 1767 - morto ivi nel 1838; laureato in utroque jure il 7 giugno 1791.
(8)  Nato a Catania il 19 settembre 1808 - morto ivi il 2 gennaio 1886.
(9) VINCENZO FINOCCHIARO, Un decennio di cospirazione in Catania (1850-1860). Con carteggi e documenti inediti, Catania, Tip. N. Giannotta, 1907, P- 65, nota 2 «Comune di Catania - Stato dei sorvegliati in seguito d'imputazioni o condanne già espiate per reati politici in fatto di perturbazioni d'ordine pubblico - Bimestre di novembre e dicembre 1859».
(10) Gaetano Ardizzoni, nato a Catania il 20 aprile 1836, qui morì il 27 dicembre 1924.
(11) G. ARDIZZONI, Canti, Catania, C. Galàtola, 1866, 8°, pp. 221 ; sei anni dopo un'altra opera poetica: Ore perdute, Catania, C. Galàtola, 1872, 8°, pp. 243. Ricordiamo ancora che rArdizzoni fu uno dei pochi a Catania a sostenere il Rapisardi dopo la pubblicazione del poema Lucifero, anzi pubblicò un opuscolo Dopo la lettura del Lucifero di M. Rapisardi (Catania, Tip. C. Galàtola, 1877,16°, pp. 22); e tale opera, se suscitava nei mediocri «mascherata impotenza o invidia o paura», egli era convinto che fosse «...splendida creazione d'arte» (ivi, p. 22).

L'Ardizzoni, con Mario Rapisardi, nel 1876 fu chiamato a far parte del Comitato per le feste belliniane (parte centrale di esse il solenne trasporto delle ceneri del Cigno da Parigi alla città natale) ed ebbe un ruolo di primo piano (12).
L'amicizia era intessuta di consuetudini, come le visite ravvicinate dei due Ardizzoni in casa Rapisardi. Il Poeta stimava ed ammirava don Carlo e alla sua morte (1886), che partecipava all'amico Calcidonio lontano da Catania («Riapro la lettera, per dirti che è morto il nostro don Carlo. L'ho veduto morire. L'anima mia è triste») (13), componeva le iscrizioni o 'elogi funebri' stilizzati che scolpivano le virtù, le qualità e i caratteri dell'Estinto (14).
Dopo il matrimonio con Mario, i rapporti di cordialità e di amicizia coinvolsero ben presto anche la giovane signora Rapisardi. I rapporti tra le famiglie si consolidarono ulteriormente, allorquando Gaetano contrasse matrimonio con la gentile Giuseppina Fìnocchiaro Crupi e ciò avvenne nell'aprile del 1879. Rapisardi compose per quella lieta cerimonia un epitalamio in onore degli sposti (15). 
(12) G. ARDIZZONI, Parole su Vincenzo Bellini dette da G.A. nel Palazzo Municipale il dì 13 settembre 1876, Catania, Tip. C. Galàtola, 1876, pp. 28.
Dell'attività del Rapisardi nella medesima circostanza rimangono tre lettere: Al Sindaco di Catania (marzo 1876), in Epistolario, cit., p. 69 e a Francesco Rapisardi, Firenze 15 luglio 1876 (ibidem, p. 70) e al medesimo, Firenze 18 luglio 1876 {ibidem, pp. 70-71).
(13) Lettere di M. Rapisardi a C. Reina, op. cit., p. 97, Cat. 2 dell'86.
(14)  M. RAPISARDI, Carlo Ardizzoni, Tip. Galàtola, "Catania, 3 gennaio 1886" (foglio ripiegato, con ai margini fregi di lutto). Le iscrizioni sono numerate da 1 a 6. Riportiamo la (1) "CARLO ARDIZZONI / uomo di vario sapere, / di tenace proposito, di sincera virtù, / visse con l'anima fra i migliori antichi, / e di loro fu degno"; la (2) "Lo studio amoroso / della lingua d'Italia / gli alimentò il culto della patria; / la piena scienza / delle umane istorie / gli crebbe la religion dell'Ideale"; e la (3) "Quand'era delitto il pensiero / liberamente pensò, / e da libero operò in tempi difficili, / serbando incorrotto il cuore, / incontaminate le mani".
(15) M. RAPISARDI, A Gaetano Ardizzoni e Giuseppina Fìnocchiaro Crupi nel giorno delle loro nozze, Catania, Tip. Galàtola. s.a. (1879), pp.nn.5 (i versi in totale 88). La composizione fu inserita, con lievi variazioni, in M. RAPISARDI, Poemi liriche e traduzioni, op. cit. «Epitalamio» (p. 75).

Giselda e Giuseppina divennero amiche e il sentimento di amicizia rimase inalterato anche dopo l'avvenimento traumatico del dicembre 1883. D'altra parte Mario stimava Gaetano (a prescindere dalla produzione poetica pubblicata nel 1866 e nel 1872) e nel febbraio del 1877 aveva composto un'«epistola» a lui dedicata (16).
(16) M. RAPISARDI, Ricordanze, Il ediz., Milano, Libreria Editrice Brigola, 1878, pp. 218-223 «A Gaetano Ardizzoni / Perché non rispondo a taluni critici»; i primi due versi «Tu vuoi che il venosino epodo scocchi / Contro a'critici miei? L'usanza aborro», dalla MI ediz. (Torino, E. Loescher, 1881, p. 234) sono mutati in «Tu vuoi che il giambo archelochèo saetti/ Contro a' critici miei? L'usanza aborro»; ed ancora una variazione nel 1911 «Ch'io cangi mai l'arpocratèo contegno /.Contro a' critici miei? L'usanza aborro» (M. RAPISARDI, Poemi liriche e traduzioni, op. cit., p. 158).

3. L'incontro di Firenze del 1875 e il fatto traumatico del dicembre 1883.
Alla fine di ogni anno scolastico, ed anche di quello 1874-75, il professore Mario e Giselda si recavano a Firenze per un periodo sereno di vacanze, che trascorrevano nell'ospitale casa dei Fojanesi, anzi ora presso la signora Teresa rimasta vedova nel 1874.
E in quell'estate del '75 una serie di fatti casuali ed acasuali, di strane coincidenze, concorreva a fare incontrare persone sconosciute (Mario Rapisardi ed Eva Cattèrmole, poetessa) o riavvicinare persone che vivevano ormai lontane, divise da una scelta che sembrava irrevocabile (Giselda Fojanesi e Giovanni Verga). L'ipotesi dell'incontro concordato, G. Fojanesi - G. Verga, è stata avanzata da Gino Raya (17).
Quella che potrebbe sembrare l'inizio di una relazione «ininterrotta» (1875-1883), in realtà - come vedremo - costituì un episodio dell'eros verghiano, intersecato da una relazione successiva, iniziata nel 1878, con la contessa Paolina Greppi Lester, che coesisterà per alcuni anni con la prima relazione, ma che acquisterà un ruolo primario nel primo e in parte nel secondo quinquennio degli anni Ottanta.
(17)  Cfr. G. RAYA, Eros verghiano, Il ediz., Roma, ed. «Fermenti», 1985, P- 6 (v. anche I ediz., ivi, 1981).

La lettera del 14 dicembre 1883, l'ennesima di Giovanni Verga a Giselda, scoperta casualmente il 19 successivo dal Rapisardi, agì da detonatore, fece esplodere una situazione che si trascinava da anni, con la conseguenza traumatica ma necessaria di separare due «anime scompagnate».
Vedremo, nel prossimo capitolo, di arricchire con particolari rimasti in ombra gli otto anni fra i poli estremi, di dipanare il groviglio di sentimenti e di passioni che agitarono, ma non sconvolsero, Giovanni Verga quarantenne nel decennio più impegnativo, anche sul piano della produzione letteraria.

***

1. Mario Rapisardi, marito di Giselda, e la relazione con la Contessa Lara - Incipiente attività giornalistica e letteraria di Giselda.
A Firenze. Fu proprio nell'estate del 1875 che Mario Rapisardi rientrando a casa descrisse alla moglie di avere incontrata una donna bella, bionda, elegantissima, avvolta in veli neri e con una collana di grosse perle, e di averla seguita fino ad un'abitazione di via del Maglio contrassegnata dal civico 14. Giselda rispose che era Evelina Cattèrmole che si recava in visita al padre. L'indomani il Rapisardi le inviava il volume Ricordanze (1). La risposta della bionda poetessa colpì Mario, che dall'ammirazione passò all'infatuazione, subito ricambiata dall'interlocutrice, cosicché all'infatuazione seguì una relazione di lunga durata. E le tracce o, meglio, le prove sono di tipo documentale.
La relazione, già iniziata, è posta in evidenza in una lettera da Milano dell'ottobre 1876 «A ogni svolto di cantonata dico fra me: ora incontrerò la mia Linuccia!», e concludeva in modo romantico ed inequivoco «Io vi ho dinanzi a questo eterno conquistatore dell'anima che si chiama l'Amore. Ho inclinato la fronte dinanzi a lui,
(1) Cfr. M. BORGESE, op. cit., p. 298 (fase. 1577, Roma, 1° die. 1937).

e ho ripetuto piangendo il suo nome» (2). Un cenno anche in una lettera coeva all'amico Calcidonio «Se tu sapessi le peripezie del mio cuore e del mio Lucifero] Delle prime ti parlerò lungamente quando mi sarà dato di riabbracciarti...» (3).
Dopo l'inizio dell'amorosa passione, nei pensieri di Rapisardi non trovava posto Giselda, e in una lettera a Calcidonio del 1877, dopo avere ricordato accoratamente il padre, continuava «T'assicuro, carissimo Nello, che, senza l'amore di mia madre e dell'arte, io mi sarei difficilmente rassegnato alla vita! Quante passioni e quanti disinganni!» (4). Giselda era già divenuta la grande esclusa!
La signora Giselda, dopo il primo scoppio di legittimo orgoglio, sembrava rassegnata all'ineluttabile progredire dell'evento e passione amorosa, come si evince da un episodio riferito dalla Borgese e cioè che l'Evelina Cattèrmole avendo appreso che la moglie di Rapisardi si era recata da lei (in quel momento assente), «le chiese di essere ricevuta, andò a trovarla pochi giorni dopo e le due donne divennero molto amiche». Sembra incredibile, ma vi è ancora di più «L'amicizia durò fino a che imprescindibili ragioni d'esistenza, più ancora che di convenienza, obbligarono a gran malincuore la Giselda, dopo la sua andata via da Catania, a sospendere i rapporti con l'infelice poetessa» (5). Vale quanto dire che la Giselda interruppe, anzi «sospese», «a gran malincuore» i rapporti di tenace amicizia che duravano da oltre otto o nove anni! Non sappiamo se tale comportamento possa definirsi di perfetto masochismo o di comprensione per il prossimo! In ogni caso uno strano comportamento.
E, in casa, sopportava perfettamente acquietata (erano già trascorsi sette anni!) che il ritratto della rivale fosse sempre sotto gli occhi del marito, sul tavolo da lavoro, e ciò rimane documentato «Le grazie di gesso che sono sul mio tavolino mi dicono che eravamo più savi allora; il ritratto della Lina è d'accordo con le Grazie, «, ed accenna di sì; ma il brutto teschio che le ho messo daccanto
(2) M. Rapisardi ad Evelina Cattèrmole, Milano ottobre 1876, in Epistolario, op. cit., pp. 73-74.
(3) Lettere di M. Rapisardi a C. Reina, op. cit., p. 27, Firenze, 13 ottobre 1876.
(4)  Lettere di M, Rapisardi a C. Reina, op. cit., p. 30. Il corsivo è mìo.
(5)  M. BORGESE, op. cit., pp. 298-99. Il corsivo è mio.

con poco piacere della Giselda,...» (6). Si trascinava, ma durava ancora, nel 1882, come confidava, e si sfogava nel contempo, all'amico Calcidonio, deluso ed amareggiato e agitato da sentimenti intrecciati: «...né le dolci lusinghe di quella tal donna, che io amo quanto posso e disprezzo quanto basta, possono tanto sull'animo mio da non farmi scorgere la grandissima vanità che ella ha di tenermi aggiogato al carro dei suoi trionfi, accanto ai molti asini che soffrono docili il suo governo (...) adirandomi qualche volta con me stesso di non avere avuto finora il coraggio di rompere una relazione che mi disonora» (7).
Nei primi del 1883 è tutto finito: una pietra tombale vuole coprire e annullare il passato; e un sentimento di autocommiserazione affiorava a proposito del volume di poesie pubblicato dalla Contessa Lara (signora Cattèrmole Mancini) «...trovando in esse dei versi che mi riguardano, mi hanno tirato in ballo, per gettar fango sulla tomba di un mio povero amore» (8).
Ancora qualcosa che riguarda la Giselda spettatrice, suo malgrado, di talune composizioni poetiche. La passione del Rapisardi, lo sappiamo, si estrinsecava in versi dedicati a questo come ad altri amori. La parte terza delle Ricordanze, composta dal 1873 al 1876, è densa di composizioni ispirate dall'innamoramento del momento; anzi, a tale proposito, la Borgese scrive icasticamente «Laterza parte delle Ricordanze è tutta per altre donne, sebbene scritta con la moglie vicina» (9). Ricordiamo solamente «A Lina nel regalarle un pugnale», due sonetti composti a Firenze nell'estate del 1876 (10).
(6) M. Rapisardi a Settimio Cipolla, Catania 17 dicembre 1882, in Epistolario, cit., p. 184.
(7) Lettere di M. Rapisardi a C. Reina, op. cit., Catania 5 dicembre 1882, p. 73.
(8) Lettere di M. Rapisardi a C. Reina, op. cit., 11 [gennaio] dell'83, pp. 76-77.
(9) M. BORGESE, op. cit., pp. 297-98; ivi disamina, «occasio» ed attribuzione, delle liriche.
(10)  M. RAPISARDI, Ricordanze, Il ediz., cit., pp. 181-182; i sonetti inseriti successivamente nelle altre edizioni e, infine, in ID., Poemi liriche e traduzioni, op. cit., p. 77. Per la data cfr. M. RAPISARDI, Prose poesie e lettere postume, op. cit., lettera cit., p. 162.
Cenni sugli amori del Rapisardi in A. TOMASELLI, Epistolario, cit., «Prefazione», pp. XXI-XXII; ID., Commentario rapisardiano, op. cit., «Mario Rapisardi e la Contessa Lara», pp. 87-106. Su Evelina Cattèrmole, giornalista a Firenze e a Roma (ove sposò il tenente Francesco Saverio Mancini) e sugli amori 'intrecciati', prima e dopo il matrimonio, v. C. BARBIERI, Il giornalismo, Roma 1982, p. 83.

E Giselda era veramente rassegnata o meditava di uscire da quella situazione frustrante? Furono, senza dubbio, anni molto tristi per le mortificazioni subite che superò man mano scoprendo nuovi interessi. Risale al 1878, secondo la Borgese, la scoperta di un'uscita di sicurezza: Giselda «si mise a scrivere per suo diletto, senza speranza di pubblicare»; però, nell'estate del 1880, trovandosi a Firenze, inviò una novella al «Fanfulla della domenica», che fu pubblicata dopo non molto; aggiungeva la Borgese che da allora continuò la collaborazione e nelle appendici del «Fanfulla», quotidiano, fu pubblicato nel 1880 il romanzo Maria, iniziato in quegli anni nella villetta di San Giovanni La Punta (11).
In una fase ulteriore, accanto alla Giselda troviamo Giovanni Verga. Il primo approccio del Verga con Ferdinando Martini, direttore del «Fanfulla della domenica», risale al 14 giugno 1881, per propiziare la pubblicazione del «raccontino 'Post - scriptum' - che a me piace assai», firmato «Gigi» (12). Dopo, dall'aprile 1882 (per un biennio) nuovo direttore fu Luigi Capuana, e Verga sperava che con l'amico al timone di comando tutto sarebbe stato più facile (e stranamente non fu così). Un racconto o novella «Amore campagnolo» usciva nel numero del 17 settembre 1882. A Catania don Carlo Ardizzoni esultava, appena tre giorni dopo, scrivendo a Mario Rapisardi «Signor Mario mio, lo dica alla Giselda sua, che ho avuto la speciosa ventura leggere nel «Fanfulla della domenica» lo stupendo racconto di lei, L'amor campagnuolo, di cui vo matto, e lo definisco, un giardinetto con dentro-gli le piante e i fiori di alquante guardature di cielo» (13).
Verga non desisteva, intanto, dai tentativi di sostenere l'incipiente
(11)M. BORGESE, op. cit., p. 302. L'avvenuta pubblicazione fu annunziata alla Giselda da un bigliettino della Contessa Lara (ivi).
(12) G. RAYA, Bibliografia verghiana (1840-1971), op. cit., G. Verga a F. Martini, Milano 14 giugno 1881, p. 44 "scheda" 285: «Quel Gigi dal cognome indecifrabile sarà (suppone il Navarria) uno pseudonimo di Giselda Fojanesi».
(13)  Bibl. Civ. e U.R., Fondo Rapisardi, Corrispondenti, C. Ardizzoni a M. Rapisardi, Da Catania 20 di settembre '82 (lettera inedita).

attività letteraria di Giselda ed ecco la seconda (in ordine temporale) sollecitazione, in una lettera di fine anno al direttore, per la pubblicazione di un racconto «Prima delusione». Mai titolo procurò tanta delusione a persone diverse! (14).
Per quanto riguarda il lungo racconto Maria, pubblicato in volume nei primi del 1883 (15), la richiesta di recensione fu avanzata dal Verga il 19 febbraio 1883 (16); diplomatica ed ermetica la risposta del direttore Luigi Capuana (17).
Come abbiamo visto, luci ed ombre, difficoltà ordinarie ed impreviste, nonostante l'autorevole patrono Giovanni Verga, autore di molte opere e de I Malavoglia.



(14) G. RAYA, Carteggio Verga - Capuana, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1984, G. Verga a L. Capuana, Milano 25 dicembre 1882, p. 182. Nella risposta del Capuana del 20 gennaio 1883, il giudizio fu drastico e inappellabile: «Non ti ho potuto servire per la novella di Giselda: è proprio infantile. Tale è stata trovata dall'Avanzini e dal Nencioni ai quali l'ho fatta leggere. La rimanderò all'autrice oggi stesso» (ivi, p. 185).
(15) GISELDA FOJANESI RAPISARDI, Maria, racconto, Milano, Ditta G. Brigola di G. Ottino e C. (Firenze, Tipografia dell'Arte della Stampa), 1883, pp. 368.
A proposito della stampa in volume, la notizia era già nota a Catania nell'anno decorso, se in una lettera del 13 settembre '82, diretta al Rapisardi, don Carlo Ardizzoni esprimeva il suo caloroso entusiasmo con «Viva la Giselda con la sua seconda edizione della "Maria"». Bibl. Civ. e U.R., Fondo Rapisardi, Corrispondenti, C. Ardizzoni a M. Rapisardi (lettera inedita). Il corsivo è mio.
(16) G. RAYA, Carteggio Verga - Capuana, op. cit., G. Verga a L. Capuana, Milano, 19 febbraio 1883, p. 188: «Ti raccomando e torno a raccomandarti i versi della Mancini (Contessa Lara) e il racconto della signora Giselda Fojanesi Rapisardi: Maria. A me non sembra poi che sia quella povera cosa che dice la «Domenica letteraria», che pur di povere cose ne ha e ne loda tante!».
(17) G. RAYA, Carteggio Verga - Capuana, op. cit., L. Capuana a G. Verga, Roma 20 febbraio 1883, pp. 188-189: «La Maria non l'ho letta: l'ho passata al bibliografo che ora fa i corrieri bibliografici, e ne sarà parlato nel 1 ° numero di marzo. In che senso non te lo so dire, perché il bibliografo è persona competentissima, senza partigianeria, ed ha piena libertà di giudizio» (quest'ultimo inciso non lascia presagire niente di buono).

2. Giselda: dall'antica simpatia alla passione travolgente per Giovanni Verga - L'inizio a Firenze e l'«esplosione» a Catania (1875-1883).
Dopo l'attività letteraria, l'attività amorosa (l'ordine espositivo prescelto non vuole alterare la priorità della seconda).
Insistentemente si è scritto di un incontro fortuito avvenuto a Firenze nell'anno 1880. La Borgese descrive il fatto, che fece traboccare il vaso stracolmo, avvenuto una sera del settembre 1880; la Giselda si preparava per assistere con il marito ad uno spettacolo di prosa all'Arena Nazionale di Firenze. Rapisardi entrò, munito di frustino, e comunicava alla moglie che non sarebbero andati a trascorrere la sera fuori casa e alle proteste di Giselda «lo lasciò cadere con forza più volte sulle spalle e sulle braccia nude dì lei che urlò di dolore». Dichiarazione di Giselda, esasperata, di volersi separare e piagnistei con immediato rinsavimento di Mario, cui seguì l'apparente perdono; ma questa volta la ferita inferta alla donna superava i limiti dell'umana (e sovrumana) sopportazione. L'indomani Giselda, seguiamo ancora la Borgese, uscì di casa e «come trasognata si trovò in via Rondinella, quando, proprio dì fronte a La ville de Lyon le si parò dinanzi Giovanni Verga». Dopo i convenevoli brevi «Si guardarono negli occhi e a lei venne da piangere. - Cara - le chiese Verga con tenerezza - è vero dunque che siete tanto infelice? Giselda non poteva parlare; chinò il capo. Poi domandò:
— Vi tratterrete qualche giorno qui?
—  Forse - e aggiunse: Certo, se voi lo volete» (18).
Questa è certamente la versione prospettata dalla Fojanesi.
Vedremo poi la versione dettagliata in una lettera del Rapisardi.
A Catania i due, nei tre anni successivi, si incontravano clandestinamente nell'appartamento ospitale della signora Piazzoli, moglie dell'ingegnere Emilio (entrambi milanesi) (19). La versione della Borgese è castigata ed incompleta «L'anno seguente all'incontro tra Verga e la Giselda (...), i Rapisardi non andarono a Firenze. Verga e la Giselda riuscirono a parlarsi solo una volta a un ricevimento domenicale della milanese signora Piazzoli,...» (20). 
(18) M. BORGESE, op. cit, pp. 386-87 (fase. 1578, Roma, 16 dicembre 1937). La Borgese così concludeva sul punto «Ecco come, e non altrimenti, dopo dieci anni, si rincontrarono Giovanni Verga e Giselda Rapisardi. Qualunque altra versione detta o scritta in buona o in mala fede non è la vera» (ivi, p. 387; il corsivo è mio).
(19) SAVERIO FIDUCIA, Nel palazzo d'un appaltatore i convegni di Verga con la moglie di Rapisardi, ne «La Sicilia», quotidiano, Catania, 13 maggio 1970, cit. in G. RAYA, Bibliografia verghiana, op. cit., p. 619 'scheda' 6524.
(20)  M. BORGESE, op. cit, p. 388.

I sotterfugi e gli espedienti furono escogitati, ma gli incontri certamente vi furono, perché i due colombi avevano superato la fase dell'idillio e dello scambio di bigliettini con frasi tenere.
La lettera diretta alla signora Giselda, scritta dal Verga il 14 dicembre 1883, e scoperta casualmente dal Rapisardi la mattina del 19 dicembre, fu il detonatore che fece esplodere una situazione insostenibile e restituì la «libertà» alla Giselda. Non commentiamo la lettera, su cui si sono soffermati tutti i critici e gli studiosi verghiani (21).
Cacciata immediatamente da casa (ebbe due ore per preparare la valigia con le cose indispensabili, vestiti ed oggetti personali), la Giselda uscendo dalla casa maritale si recò in via Sant'Anna per rendere edotto Giovanni Verga, che dichiarò di non poterla accompagnare perché «devo restare a disposizione di lui», per un duello non eventuale, anzi improbabile anche per la persona dello 'sfidato'. Ricordiamo che il Rapisardi, nel 1881, quando la polemica con il Carducci toccò l'acme, dopo avere discusso con gli amici Gaetano Ardizzoni e Gabriele Giuffrida il tipo di risposta da dare, così scriveva a Calcidonio Reina «... ed escluso il duello, che sarebbe ridicolo tra due persone tenute in conto di serie, né potendo io, con questa mia salute, condurmi in Bologna a schiaffeggiarlo in pubblico,...(22).
Il Verga, invece, le suggerì l'itinerario: una sosta a Roma e poi «... a Firenze le consigliò di andare dalla Contessa Lara fi/io al suo arrivo», e concludendo con una dichiarazione impegnativa, molto impegnativa, ossia «di contare su di lui da quel momento per qualsiasi aiuto morale e materiale». A Firenze venne a mancare l'ospitalità della Contessa Lara, perché assente (23).
Dopo qualche giorno la Giselda, da Firenze, scriveva alla signora Maria Aradas Bruno, un'amica molto comprensiva, per scusarsi del silenzio dovuto alla «catastrofe» e allo sconvolgimento nell'ultima
(21)  M. BORGESE, op. cit., pp. 389-391 (testo); le rettifiche, alle aggiunte fra parentesi quadre del Tomaselli, alle pp. 394-96; Nel 1922 era stata pubblicata da A. TOMASELLI, Epistolario, op.cit., pp. 483-85.
(22) A. TOMASELLI, Epistolario di M. Rapisardi, op. cit., pp. 132-33; la lettera è del 19 aprile 1881 (il corsivo è mio).
(23) M. BORGESE, op. cit., p. 392 (il corsivo è mio). La Giselda alloggiò per un certo tempo alla Pensione Benoit, Lung'Arno Serristori, 13.

settimana della sua vita e, tuttavia, con temperamento e determinazione, affermava «A non credere già che io sia pentita di quel che ho fatto, né sgomenta; cosa fatta capo ha, e forse tutto il male non vien per nuocere» (24).
Da quanto tempo durava la relazione? Ascoltiamo ora la parola del Rapisardi, che in una lunga lettera confidenziale all'amica signora Lida Cerracchini affermava recisamente «Ella sappia dunque (...), che cotesta signora mi ingannava e mi tradiva da parecchi anni. N'ebbi sentore e sospetti ben fondati e quasi certezza molto tempo fa; fui per ucciderla; ma ella sfuggì alla mia collera e riparò in casa di miei cugini che me la riportarono il giorno dopo. Pianse, mi si gettò alle ginocchia, mi supplicò di tenerla in casa mia, anche alla Punta purché almeno mi vedesse da lontano di quando in quando, mi giurò che non era scesa fino all'ultima abbiezione,...» (25).
D'altra parte la Giselda, scriveva la Borgese, ammetteva il precedente come una colpa grave e un rimorso costante e il corrispettivo atto di bontà elargito e non meritato «Ma non se la sentiva più di mentire; le avrebbe troppo ripugnato, avrebbe sofferto ancora troppo a continuare a quel modo, e si accusava d'essere stata vile quando Rapisardi aveva trovato la prima volta i biglietti: aveva accettato una bontà, che lei non meritava e che Rapisardi non meritava di farle» (26).
(24) M. BORGESE, op. cit., p. 393 (il corsivo è mio). Nella lettera la Giselda raccomandava di mantenere il segreto sull'opera di intermediaria svolta dall'interlocutrice per le lettere scambiate con il Verga. Nonostante la preghiera, la lettera pervenne al Rapisardi e fu inserita nel 1922 in A. TOMASELLI, Epistolario, op. cit., pp. 485-86, G. Fojanesi alla signora Maria Aradas Bruno, Firenze 25 dicembre 1883.
(25) A. TOMASELLI, Epistolario, op. cit., pp. 207-210, Mario Rapisardi a Lida Cerracchini; la lettera, senza data, va collocata nei primi del 1884 (il corsivo è mio).
(26)  M. BORGESE, op. cit., p. 391 (il corsivo è mio).

3. Giovanni Verga, amante di Giselda, un comportamento "disinvolto" che ricerca e coltiva nel contempo altre relazioni.
Un interrogativo è, a questo punto, d'obbligo: questa relazione amorosa - iniziata nel 1875 ed esplosa alla fine del 1883 - per quanto tempo continuò ancora? Non è un interrogativo posto dalla curiosità, e quindi ozioso, giacché la risposta potrebbe contribuire a definire l'accadimento un grande amore per entrambi (o per uno dei due) o una grande passione che bruciò intensamente una stagione dell'esistenza e si spense senza ritorno di fiamma.
Molti studiosi hanno dedicato attenzione all'eros verghiano, con monografie, con saggi introduttivi alle raccolte di lettere d'amore pubblicate, o incidentalmente in articoli 'leggeri' di puro intrattenimento. Con questa nostra indagine cercheremo alcuni punti fermi e, nel contempo, di scoprire se vi furono altre 'interferenze' femminili coeve e, quindi, se Verga ebbe in questa sfera una doppia personalità. A qualsiasi tipò d'ìndagini mancheranno sempre due piloni fondamentali: le lettere di Giselda a Verga, che egli conservò e furono distrutte alla sua morte (dal nipote Giovannino, confortato dal parere di Federico De Roberto) e quelle indirizzate alla donna (conservate gelosamente: che fine hanno fatto?); la Giselda reagì ben presto ad un ruolo meramente subalterno ed iniziava un anno dopo la carriera scolastica come ispettrice degli Educandati femminili, rimanendo nei ruoli dello Stato fino al 1923.
La precedenza spetta alle donne, ossia alla Borgese - che nel saggio più volte menzionato è l'eco della Giselda, con notizie attinte direttamente alla fonte - e, dopo, alla protagonista medesima, che successivamente al saggio della Borgese scrisse alcune lettere (oltre sessant'anni dopo la fase iniziale della relazione!), sorprendenti per la freschezza e la precisione espositiva e che, senza finzioni, mettono a nudo sentimenti e femminilità.
La Borgese, riguardo alla durata, optava per tempi piuttosto lunghi, ma indefiniti «In seguito lo scrittore semprechè poteva si recava dovunque il suo impiego conducesse la Giselda», ma ciò è improbabile conoscendosi in dettaglio le tappe della carriera della Fojanesi: e, nel contempo, subito dopo aggiungeva, attenuando l'affermazione iniziale «ma la vita sempre più costringeva la donna esclusivamente al lavoro per sé e per la madre» e, quindi, la continuazione fu interrotta, anche con riferimento allo scrittore con altre preoccupazioni ed assorbito da altre cure «... e d'altra parte anche Verga a quello per la famiglia che totalmente un poco per volta lo assorbì e lo confinò in Sicilia» (27).
Subito dopo, la Borgese cercava di porre in evidenza le cause che spinsero Verga nel 1886 a partire da Milano, ma l'avere anticipato eventi luttuosi ancora lontani nel tempo a venire, ma ravvicinati nel testo, è fonte di distorsione e di errori: «fin dall'86 Verga dovette lasciare Milano per la morte del fratello che gli abbandonava i suoi tre figli» (28). Il fratello Pietro, padre di tre figli, morirà nel 1903, ossia ben diciassette anni dopo! (29). La data della morte del minore dei tre nipoti, Marco, è ancora più lontana, nel 1905, ma arbitrariamente collocata nel medesimo contesto «egli ne annunziò la perdita alla Giselda con parole addirittura strazianti» (30). Quest'ultima notizia indurrebbe a ritenere che venticinque anni dopo (o trenta, secondo la data iniziale), vi era una corrispondenza attiva; ma l'amore di un tempo, concludeva la Borgese, «si mutò in un affetto che né la distanza né gli anni diminuirono». Comunque, nell'anno 1886 troviamo Verga attivo e premuroso, anche sul piano letterario, a favore della Giselda completando perfino un racconto «Ultima lezipne di musica», inserito nel volume Cose che accadono (31).
Apprendiamo ora dalla fresca prosa della protagonista - vivace nonostante i novant'anni! - lo svolgimento dei fatti e della vicenda, è cogliamo taluni nessi e tocchi di donna innamorata. Le lettere dirette a Nino Cappellani, studioso di Mario Rapisardi (32) e di Giovanni Verga (33), sono state pubblicate, dopo molti anni, dal medesimo Cappellani e sono ancora oggi interessantissime (34).
(27)  M. BORGESE, op. cit., p. 396.
(28)  M. BORGESE, op. cit, loc. ult. cit.
(29)  Cfr. G. RAYA, Bibliografia verghiana, op. cit., p. 159, "scheda' 1667. È riportato il testo della partecipazione a stampa (morto il 21 aprile).
(30)  M. BORGESE, op.cit., loc. ult. cit..
(31)  G. FOJANESI RAPISARDI, Cose che accadono, Zanichelli, Bologna, 1886. Il volume non è, purtroppo, reperibile nelle Biblioteche catanesi. Alcuni anni dopo fu ristampato dall'editore Giannotta con il titolo In Sicilia e in Toscana.
(32)  N. CAPPELLANI, Mario Rapisardi, Catania, Studio Editoriale Moderno, 1931, pp. 235; Giselda è ricordata nei versi dei Poemetti, (ivi, pp. 201-202).
(33)  N. CAPPELLANI, Vita di G. Verga, Firenze, F. Le Monnier, 1940, pp. 460; ID., Opere di G. Verga, Firenze, F. Le Monnier, 1940, pp. 440.
(34) N. CAPPELLANI, Conclusioni critiche sul Verga, F. Le Monnier, Firenze 1954, pp. 48-53. Riteniamo di ripubblicarle (v. Appendice II, "C").

Di particolare interesse la seconda (Milano, 20 febbraio 1941) (35), che puntualizzava alcuni ed esalta altri punti nodali:

a)  speranza di una dichiarazione di amore del Verga (attesa nell'estate/autunno del 1869 e delusione «rimasi molto delusa»);
b)  II atto: «prima sorpresa, poi affascinata, dall'amore scoppiato in Rapisardi, per il quale, dopo la brutta impressione dei primi giorni, nacque in me l'ammirazione per il suo ingegno...», poi il matrimonio con il prof. Rapisardi, diciamo di convenienza, preparato dalla signora Teresa;
c) dopo il matrimonio, amori e nuovi amori di Rapisardi, e quindi l'ineluttabilità «... come io mi staccassi sempre più da mio marito, sempre sotto l'assillo di un nuovo amore»;
d)  IV atto: «Vero verissimo il mio incontro, nell'estate del 1880, con verga, in piazza S. Gaetano, a Firenze, cosa che, certo, non potrei documentare, ma che accadde...»; l'insistenza e la cura dei dettagli è sospetta, pressoché incredibile la casualità dall'incontro (36);
e)  V atto: la giostra amatoria è un rapporto di conseguenza «... e fu dopo quel giorno, che la nostra relazione intima (non tresca, la brutta parola) incominciò e durò fino alla morte del caro, indimenticabile amico,...»: la relazione sembrerebbe senza soluzione di continuità usque ad finem (intuiamo, leggendo questo brano, l'alta pressione del desiderio e i sentimenti di passione che scaturirono);
f)   aggiungeva, però, subito dopo: «passando dalla passione a una tenera e buona amicizia, dopo che, per la morte del fratello Pietro e della moglie di questo, Giovanni tornò definitivamente a Catania»; le osservazioni fatte all'assunto della Borgese valgono per la Fojanesi (la morte della signora Ersilia Patriarca in Verga avvenne a fine agosto del 1896, e la dipartita del marito Pietro nel 1903);
(35)  N. CAPPELLANI, op. ult. cit., pp. 49-51.
(36) Un eminente studioso del Verga, G. Raya, anticipa di cinque anni l'incontro di Firenze e quindi la relazione: «Un nuovo incontro col Verga, forse a Firenze nell'estate 1875, forse anche prima, rinnova l'antica fiamma; e la tresca continua a Catania fino a metà dicembre 1883...» (G. RAYA, Eros verdiano, Roma, Ed. «Fermenti», 1985, p. 6).

g) dopo la fase in apnea, un'affermazione di esultanza «Veniva raramente da allora a Milano, ma sempre ci vedevamo» (il corsivo è mio). La Borgese e, a maggior ragione, la Fojanesi non pensano, e quindi escludono, altre liaisons dangereuses ed altri viaggi del Nostro, che non rimase 'confinato' a Catania.
Al termine della lettera vi è un cenno sui due volumi letti: Vita di G. Verga e Opere di G. Verga. «Non so se ce ne siano altri». Nessuna curiosità e nessuna domanda all'interlocutore ed autore, se per caso abbia pubblicato qualcosa anche sul caro primo Estinto, di cui era la vedova, con pensione di reversibilità!
Il passaggio dalla passione all'amicizia, che rimase inalterata nonostante il lungo tempo trascorso (quasi trentacinque anni nel 1920), è documentata dalla lettera inviata dal Verga agli auguri formulati dalla Giselda (Fojanesi ved. Rapisardi) per il suo 80° compleanno:

«Grazie, grazie di cuore, Buona e Cara Amica del pensiero e del ricordo che mi è sempre caro e che ricambio cordialmente coi migliori auguri e saluti. «Catania, 8-9-920                                                            G  Verga>> (37)
Abbiamo, con gli interventi precedenti, posto le premesse anche per un altro argomento solamente sfiorato, con le perplessità suscitate dalle conclusioni della Giselda «Veniva raramente da allora a Milano, ma sempre ci vedevamo», cioè se il Verga considerata esaurita, riteniamo nel 1886 (38), la fase della passione amorosa, abbia iniziato subito dopo la relazione con la contessa Dina Castellazzi di Sordevolo (mentre continuava, non lo dimentichiamo, quella con la Contessa Paolina Greppi Lester). Il Cattaneo, a tale proposito, scrive che era più antica anche se documentata dal 1889, «sia pure irregolarmente, data la prudenza del Verga, l'avventura doveva durare da un pezzo quando, nel '91, la contessa rimase vedova...» (39).
(37) N. CAPPELLANI. Conclusioni critiche su Verga, op. cit., p. 52: Milano, 5 aprile 1941.
(38) Per un periodo più limitato è il Cattaneo, che situa «fra l'80 e l'84» l'inizio ed il culmine della relazione con la Fojanesi (G. CATTANEO, op. cit., p. 280).
(39)  G. CATTANEO, op. cit., loc. ult. cit.