Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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venerdì 7 febbraio 2020

"Inno a S. Agata" 1886 del giovane ventiseienne Francesco P. Frontini




Coro Lirico Siciliano diretto da Francesco Costa - martedì 4 Febbraio 2020, presso la Monumentale settecentesca Chiesa di San Michele ai Minoriti
- "Questa terra fortunata, consacrata dal tuo Sangue..."




Inno a S. Agata
parole di Salvatore Nicolosi Sciuto
musica di F. P. Frontini 1886





I- Introduzione​ ​ Questa terra fortunata​ ​ consacrata dal tuo sangue​ ​ a e invitta, a te beata​ ​ scioglie l'inno trionfal.​ ​ Cittadini alzate il canto​ ​ alla intrepida virago​ ​ qui riposa il corpo santo,​ ​ questa è l'ara sua immortal.​ ​ II- Preghiera​ ​ Dal trono di gloria​ ​ o invitta guerriera:​ ​ ascolta fra i cantici​ ​ la nostra preghiera.​ ​ Ci salva pietosa​ ​ da tutti i flagelli​ ​ fa dono alla patria,​ ​ di giorni più belli.​ ​ La fede ravviva​ ​ la speme, l'amore,​ ​ fedeli o gran Diva​ ​ ci rendi al Signor.​ ​ All'illustre possente Patrona​ ​ Cittadini! Risuoni l'evviva​ ​ lieta echeggi la nostra canzone​ ​ e n'esulti la sponda giuliva.​ ​ Dai perigli salvò i mesti figli,​ ​ dalla peste Catania salvò.​ ​ Evviva.​ ​ Cittadini! Corone di alloro​ ​ al suo altare rechiamo festosi!​ ​ Desti il suono dell'inno canoro,​ ​ gli echi ascosi degli astri amorosi.​ ​ Dalle sfere le nostre preghiere ella accolse​ ​ la Patria esultò



*Sant'Agata, poesia e musica nella Catania dell'ottocento - di Mario Rapisardi, Pietro Mobilia e Frontini

martedì 29 novembre 2016

"Federico De Roberto consigliere per forza" (per la sua candidatura)



L'esordio di Federico De Roberto nel giornalismo risale al settembre-ottobre del 1876, quando ancora quindicenne ma cronista diligente, nelle mani una copia a stampa del Diario delle feste di Catania per la traslazione in patria delle ceneri di Vincenzo Bellini, a cura del comitato presieduto da Francesco Chiarenza, inviò un resoconto ampio denso e brillante (corredato da numerose fotografie) all''Illustrazione Italiana, rivista nuova (in vita dal 1875), ma già bene accreditata. Nel 1880, diciannovenne, fu direttore per pochi mesi di un giornale quotidiano il Plebiscito, con sottotitolo «organo ufficiale per gli atti dell'Associazione costituzionale » (alla quale aderivano i monarchici catanesi). 

ritratto di De Roberto

Giuseppe De Felice fu anche lui giornalista e direttore precoce, quando nel maggio 1878, non ancora diciannovenne, volle dare nuovo slancio ad una vecchia, ed ormai asfittica, testata Giornale di Catania (in vita, pur con intermittenze, dal 1849). Poi, nel 1880, la collaborazione ad un periodico di rottura Lo Staffile, giornale ebdomadario, ma i suoi articoli non sono ancora impregnati di politica (si occupava di ricerche bibliografiche).
Inizia ora il trentennio, di cui parlavamo all'inizio, che vedrà man mano l'ascesa ininterrotta fino alla piena maturità: affermazione valida per entrambi. De Felice: consigliere comunale nel 1885, rieletto nel 1887, poi per alcuni mesi assessore comunale, nel 1889 consigliere provinciale (decaduto nel 1891), prosindaco per un quadriennio dal 1902, sulla cresta dell'onda — anche se con difficoltà per l'inchiesta Bladier sull'amministrazione comunale — al termine del decennio.
De Roberto: da direttore del Don Chisciotte, giornale domenicale (1881-1883), ai volumi di novelle e racconti, ai saggi, ai romanzi (I Viceré, del 1894), alla collaborazione lungamente agognata al Corriere della Sera dal novembre del 1896 ininterrottamente per l'intero successivo decennio.
Dal 1882, De Felice, fiero repubblicano, redattore dell'Unione, organo del Circolo repubblicano, inizierà un'azione di propaganda politica e di critica alle istituzioni, promuovendo alleanze strane, anzi strani connubi, iniziati nelle elezioni amministrative del 16 ottobre 1887, che lo porteranno in cinque anni alla Camera dei Deputati (1892), e nel 1902 alla conquista del Municipio di Catania. E polemica ad oltranza — gli autori mimetizzati dagli pseudonimi o celati dall'anonimato — anche con persone che non svolgono attività politica, ma sono con evidenza di segno opposto alla linea perseguita dall'organo di stampa.


Echi lontani spenti ormai da oltre un secolo, segnali deboli che cercheremo di amplificare. È da premettere che l'imminente inizio delle pubblicazioni del Don Chisciotte (direttore De Roberto, redattore Pietro Aprile di Cimia, editore N. Giannotta) fu annunziato in questi termini di valenza politica « Ne è direttore un giovane distinto per cultura, e per ingegno, che tenne per qualche mese, anche la direzione del Plebiscito. Ne sono collaboratori poi quasi tutti i segretari e vice segretari del'Associazione Costituzionale, di guisa che non può essere dubbio il suo colore politico» (Il Plebiscito, quotidiano, a. II, n. 32, Catania, 9 febbraio 1881, p. 3). Chiarissimo il discorso; se si aggiunge che accanto a De Roberto vi è il coetaneo Pietro Aprile,, barone della Cimia, esponente della predetta Associazione e ben presto emergente nel giornalismo e nella politica il discorso diventa completo. De Roberto aveva già dato alle stampe un volume di saggi critici Arabeschi (1883), e una raccolta di novelle La sorte, nel 1887.

L'attacco, fin dal titolo «I seguaci di Martoglio» (senior), è all'ultimo furore. Dopo un capoverso di insulti (non si tratta ovviamente di critica), la prosa continua con livore «Eppure cotesto volume ha avuto la sorte di essere trasportato, a cavalcioni di articoli alati e [...] smaccati, negli spazi siderei della letteratura; ed ilFanfulla, essendo di Lodi, le [...] medesime ha profuso a piene mani, perfino con vocaboli nuovi, coniati alla zecca del mutuo fregamento». Segue altro capoverso con riferimento al periodico e ai duelli «si mise a donchisciottare, ma non volle assumere mai la responsabilità delle sue provocanti trullerie» (Unione, a. Vili, n. 45, Catania, 20 novembre 1887, p. 3). L'articolo non è firmato.
L'occasione dell'offensiva antiderobertiana fu data dalla candidatura del medesimo a consigliere comunale caldeggiata dal quotidiano Il Corriere di Catania, di cui è diventato proprietario dal 1° gennaio 1887 il giovane Aprile di Cimia, allora ventinovenne (nato a Caltagirone nel novembre del 1858). L'articolista, Crisostomo, dopo avere declinato la proposta di •candidatura per il barone Aprile (« siamo autorizzati a dichiarare ch'egli non accetta la candidatura») così prosegue, con un elenco di nomi, fra cui spicca quello di Giovanni Verga «Tra i nomi nuovi di giovani eletti per patriziato, intelligenza e carattere, come il Principe di Biscari, il Barone Camerata, il Villarmosa, il Ferlito Bonaccorsi, il Verga, il Majorana, etc. ve ne ha uno, che non compreso in alcuna lista autorevole, lo raccomandiamo con maggior calore perché può rendere degli utili al paese, e forse, diciamo, un pochino più degli altri, perché più abituato alla vita pubblica: è FEDERICO DE ROBERTO» (il carattere maiuscolo è nel giornale che citiamo). Aggiungeva ancora un invito e una forte perorazione finale «Tutti coloro che volessero votare per l'Aprile, noi li preghiamo in nome di Aprile, a votare per il De Roberto. Oltreché essi, gli elettori amici nostri, non perderebbero il loro voto, darebbero anche, indirettamente, un segno di stima all'Aprile. E noi di ciò fin da ora li ringraziamo» (Corriere di Catania, a. IX, n. 242, Catania, 7 ottobre 1887, p. 2 «Commenti della lista del Circolo degli Operai»).

La sostituzione proposta non fu gradita a tutti e un quotidiano, l'indomani, contrastava fermamente la candidatura alternativa «Non conosciamo il sig. De Roberto, e quindi non possiamo discutere il suo nome, che dobbiamo anzi ritenere commendevolissimo, appunto perché presentato dal Barone Aprile. Non possiamo, però, né intendiamo accettare la sostituzione, perché il voto dato al Barone Aprile, quest'anno deve rappresentare la riconoscenza affettuosa di una intiera cittadinanza, la quale siamo certi vorrà rammentarsi di chi nel momento del pericolo stette sulla breccia» (il Telefono — Eco dell'Isola, rivista quotidiana, a. I, n. 72, Catania, 8 ottobre 1887, p. 3 «Per il Barone Aprile»).
Un cenno di ragguaglio sui risultati elettorali ci sembra interessante (le elezioni si svolsero il 9 ottobre 1887, prevalse la lista «Circolo degli Operai»). Il barone Aprile, nonostante la dichiarata repulsione per la candidatura, fu eletto con voti 461 (era stato eletto per la prima volta nelle elezioni del 3 maggio 1885); Federico De Roberto — nonostante le raccomandazioni di così autorevole padrino — ottenne solamente 62 voti di preferenza, collocandosi come 54° dei candidati non eletti.
Per le elezioni del 25 settembre 1910, per il rinnovo del Consiglio comunale, i materiali sono abbondanti e le testimonianze numerose. Una notazione preliminare: De Felice per la composizione della lista dei candidati adoperava una «tecnica» collaudata, sperimentata per la prima volta nelle elezioni comunali del 1885 e perfezionata nelle successive del 1887 e del 1888. Consisteva essa nel coinvolgimento di rappresentanti della borghesia e dell'aristocrazia, di professionisti ben noti e di altri ceti del commercio e dell'industria, con la diplomazia della persuasione e di volere valorizzare qualità finora sprecate e l'assicurazione data di una sicura elezione (l'invenzione della formula appartiene al giurista Vincenzo Gagliani, che l'applicò per vincere le elezioni del 5 aprile 1813, quando a Catania nelle prime votazioni la borghesia, alleandosi con una parte dell'aristocrazia, conquistò il Palazzo comunale).
Nell'estate del 1910 la coalizione defeliciana, che amministrava Catania dal 1902 (ovviamente con i rinnovi delle elezioni parziali), scricchiolava, anzi stava per naufragare. Il sindaco cav. Salvatore Di Stefano Giuffrida (eletto il 25 febbraio 1910), il 20 luglio repentinamente si dimetteva; il 21 luglio poneva la candidatura a consigliere provinciale nel Mandamento San Marco, in contrapposizione ai candidati defeliciani; nel medesimo giorno al Municipio si insediava il Commissario prefettizio cav. Saverio Castrucci: « La consegna degli ufficii gli venne fatta dal sindaco cav. Di Stefano Giuffrida» (L'Azione, quotidiano, a. IV, n. 197, Cat., 22 luglio 1910). Contemporaneamente una vibrata lettera aperta di critica al metodo di amministrazione imposto da De Felice, veniva inviata — e pubblicata dal medesimo quotidiano — dall'avvocato Enrico Pantano, prestigioso consigliere della maggioranza, che segnava il distacco e il passaggio all'opposizione (lo ritroveremo nella lista del «Blocco cittadino»).
Domenica 24 luglio si votò per i consiglieri provinciali e nei mandamenti San Marco e Borgo i tre candidati defeliciani furono sconfitti. Immediate, e inaspettate, il 21 luglio, le dimissioni da deputato annunziate da De Felice con un messaggio agli elettori (cui seguì un immancabile discorso).
Seguirono settimane convulse. Le trattative ed i colloqui per la ricerca dei sessanta candidati che formeranno la lista, che avrà la denominazione suggestiva di «Fascio democratico» rimangono ovviamente segrete. A noi interessano solamente le vicende della candidatura di Federico De Roberto.
Il grande manovratore è all'opera: De Felice riesce a prendere contatti con molti, ricerca uomini nuovi non compromessi con il passato, da unire ai vecchi per dare un volto rinnovato e nuova credibilità alla futura amministrazione. Le conversazioni, svolte sotto l'incalzare del breve tempo non sempre ottengono una risposta pronta e chiara. Per quanto riguarda De Roberto è possibile ricostruire le fasi dell'invito a candidarsi, della resistenza, del diniego e della repulsa, per mezzo delle lettere scritte e pubblicate a Catania e a Roma.
In quella inviata ad Alberto Bergamini, direttore del Giornale d'Italia, pubblicata dal quotidiano il 22 settembre, molti i dettagli interessanti con riferimenti a personaggi noti come il prof. Francesco Guglielmino e l'avvocato e docente Vincenzo Finocchiaro, e che rimane fondamentale per la comprensione dell'intero episodio. Riportiamo la parte centrale di essa.
«Invitato la prima volta dall'on. De Felice addussi tutte le ragioni che mi impedivano di accettare e lo pregai vivamente > di rinunziare al mio nome. Quelle ragioni ripetei prima all'avvocato De Cristofaro, più tardi al prof. Guglielmino perché gliele confermassero più efficacemente. Ciò non di meno partito per la campagna ricevetti una nuova visita dell'on. De Felice accompagnato dal professore Finocchiaro e dal dott. Rapisarda, durante la quale commisi un errore che confesso con la stessa ingenuità che me lo fece commettere, quello di sperare che sarei riuscito a liberarmi con una resistenza cortese. Per evitare l'equivoco prodotto da questo errore misi sulla carta la precisa espressione del mio sentimento in due lettere indirizzate al Finocchiaro e al De Felice». Le lettere furono recapitate tempestivamente, prima della pubblicazione della lista, ma non sortirono l'effetto voluto dal De Roberto (cfr. La Sicilia, quotidiano, a. X, n. 263, Catania, 24 settembre 1910, p. 1).
Nella lettera pubblicata nei due quotidiani, De Roberto accennava a «un piccolo manifesto agli elettori», che a Catania fu affisso «sulle mura» mercoledì 21 settembre: «Agli Elettori, alieno e lontano per indole e proponimento dalle lotte della vita pubblica, dichiaro di non poter accettare la candidatura cortesemente offertami. F. De Roberto».
Severo il commento del quotidiano sul metodo di coinvolgimento di persone nell'attività politica, dando atto del corretto comportamento del De Roberto, che «appena venuto a conoscenza che era comparsa la lista popolare col suo nome, non esitò a far la pubblica dichiarazione che abbiamo riportato e che mentre onora lui, ricade ad onta e confusione di coloro che da lui avevano avuto l'audacia di servirsi per il proprio tornaconto elettorale» (La Sicilia, a. X, n. 261, giovedì 22 settembre 1910, «Un uomo di carattere»).
Leggiamo ora la versione del Corriere di Catania: l'on. De Felice e l'avv. De Cristofaro si recarono a Zafferana Etnea, dove si trovava in villeggiatura la famiglia De Roberto. Lì iniziarono le ricerche di Federico, con l'aiuto del fratello Diego, che poi li accompagnò a Catania. Qui altre ricerche e telegramma finale di Diego a De Felice «Riuscito impossibile trovare Federico. Suppongo partito per Nicolosi». Non manca la raccomandazione finale accattivante «A questo punto, pur apprezzando la squisita modestia dell'illustre scrittore, esortiamo gli elettori a dargli testimonianza solenne, il giorno 25, dell'alta stima di cui Egli è degnamente circondato» (Corriere di Catania, a. XXXII, n. 259, 22 settembre 1910, p. 3 «La candidatura di Federico De Roberto»).
La collocazione nella lista, per l'ordine alfabetico, viene subito dopo «De Felice Giuffrida Giuseppe, socialista«, ma la qualificazione per Federico De Roberto molto distinta e unica «letterato apolitico e amantissimo delle cose di Catania» (Corriere di Catania, a. XXXII, n. 264, martedì 27 settembre 1910).
La lotta di De Roberto per evitare la candidatura, defatigante per le lettere e i telegrammi, gli incontri e le fughe diplomatiche, fu dunque vana. Uno dei motivi che lo spingevano a rifiutare (nonostante due viaggi a Zafferana di De Felice, e le esortazioni di Guglielmino e di Finocchiaro) era certamente il fatto che la lista del « Blocco cittadino » aveva come capolista Pietro Aprile di Cimia, deputato al Parlamento, amico fraterno da trent'anni.
Siamo ansiosi di conoscere i risultati elettorali, ormai a ridosso del 25 settembre, giorno della votazione. Ancora una volta risultava vincente la lista del « Fascio democratico », che prevaleva con voti 3.895 (la lista del «Blocco cittadino» soltanto 3.159 voti). De Roberto risultava il 48° ed ultimo eletto della lista, con a cifra elettorale individuale di 3.524 (De Felice, il più votato, otteneva voti 4.724, ossia ben 829 preferenze aggiunte; opiniamo che De Roberto fu depennato da 371 elettori, forse in seguito al rifiuto della candidatura). La Sicilia, del 27 settembre, attribuiva a De Roberto voti 3.887 (in questo caso sarebbe stato depennato da pochissimi elettori).


***

Ormai tutto doveva rimanere alle spalle ed essere dimenticato: il 3 ottobre successivo fu eletto sindaco l'ing. Giuseppe Pizzarelli (capo della massoneria catanese). Federico De Roberto non presentò le dimissioni da consigliere, anche se la sua assenza non risultò giustificata nella prima seduta; sappiamo che collaborò con l'amministrazione civica in qualche manifestazione d'eccezione (nel 1913 dettò una lapide commemorativa per l'anniversario della morte di Mario Rapisardi, voluta dal Municipo). E il suo nome illustre fu registrato anche nelle guide con questa sola qualifica «De Roberto Asmundo Federico, consigliere comunale» (Guida-Annuario Galàtola per la Sicilia Orientale, Catania, 1911, p. 161).
(La Sicilia, 1985) Sebastiano Catalano





martedì 24 febbraio 2015

Mario Rapisardi - IL PROMÈTEO ETNEO


IL PROMÈTEO ETNEO

Una simpatica biografia del Rapisardi, di Giuseppe Patanè
ed. 1946 

qui PDF








".......L'aristocrazia dei fanatici del Rapisardi aveva in Catania il suo capo che era un calzolaio di sovrani e di nobili : don Alfio Scandurra, la cui bottega dalla tabella adorna di stemmi e di medaglie, guardava il marciapiede di lava sulla via Etna e il grigio palazzo della prefettura. Nella bottega di Scandurra si riunivano quasi ogni giorno i discepoli del poeta e i più autorevoli suoi ammiratori. Fra questi ultimi erano i deputati di parte democratica e alcuni professori e avvocati di vaglia, seguaci della politica del popolarissimo onorevole Giuseppe De Felice Giuffrida, il tribuno che adorava Catania ed era adorato dal popolo catanese per la sua povertà, la grandiosità dei suoi programmi e la fascinatrice ampollosità della sua eloquenza (« Catania è alla testa della civiltà e l'Europa ci guarda attonita! »).
Era il tempo in cui il poeta si era isolato quasi definitivamente dal mondo. Aveva egli, con le Religiose, l'Atlantide e i Poemetti, chiuso il ciclo dei suoi poemi.

...Cadrà nei gorghi
Del tempo il nome mio, su cui maligne
Tele d'alto silenzio il volgo ordisce...
......."

domenica 30 novembre 2014

G. Verga, F. De Roberto e Ricordi - Bozze del contratto per il libretto della Lupa - 1891


Scritto da Simone Ricci

Il "ferro" del Verismo andava battuto finché era caldo: si può forse riassumere con questo modo di dire riadattato la vicenda che ha visto come protagonisti Giacomo PucciniGiulio Ricordi e Giovanni Verga. Una vicenda che si colloca storicamente nel periodo in cui le opere liriche cercavano di seguire l'esempio lanciato nel 1890 da "Cavalleria rusticana" di Pietro Mascagni, il cui successo internazionale aveva intensificato la ricerca di soggetti simili. Questo sforzo cominciò prima ancora che "Manon Lescaut", il primo vero trionfo di Puccini, fosse rappresentata per la prima volta al Regio di Torino (1° febbraio 1893). Bisogna infatti tornare indietro al 1891.
Lo stesso Ricordi aveva deciso di siglare un contratto con Giovanni Verga: lo scrittore siciliano aveva il compito di fornire un nuovo libretto, prendendo spunto da una novella tratta da "Vita dei campi", un impegno da portare a termine insieme a Federico De Roberto, altro rappresentate del filone verista. Si trattava de "La lupa", la storia di una donna siciliana piuttosto "vorace" dal punto di vista sessuale (la pubblicazione della novella in questione risaliva al 1880). Comincia in questo maniera la storia di un'opera che non vedrà mai la luce, a causa di una serie di eventi concomitanti, primo fra tutti il maggior interesse nutrito da Puccini nei confronti di quella che poi sarebbe diventata "La bohème".

In seguito alla stesura del contratto, il lavoro era proseguito senza grandi squilli di tromba. Verga era ben immerso nella stesura del libretto, tanto che la sua novella si trasformò rapidamente in un dramma. Nel 1893, il compositore lucchese approvò il primo abbozzo, chiedendo comunque qualche lieve modifica: ad esempio, la parte della figlia della "lupa", Maricchia, aveva bisogno di maggiore tenerezza. Verga andò ben oltre le richieste di Ricordi e nel 1894 l'abbozzo stava prendendo sempre più forma, al punto che Puccini dimostrò un entusiasmo crescente.  "La lupa" aveva buone possibilità di vedere la luce di lì a poco, come testimoniato da una lettera di Verga a De Roberto:

Perché continui a essere felice, ora che sembra così ansioso di cominciare, potresti mandarmi una scena dopo l'altra appena le hai terminate.
Ma cosa pensava esattamente Puccini di questo progetto? A parte qualche scarno riferimento nelle sue lettere (Io per ora lupeggio), il suo obiettivo era quello di mettere in musica un'opera breve, di dimensioni non superiori ai "Pagliacci" o "Le Villi", un atto unico che necessitava di numerosi tagli. Ricordi pensò bene di far visitare Catania al suo pupillo, in modo da assorbire l'atmosfera locale e immedesimarsi meglio. Le distrazioni della Bohème, però, erano troppo forti per fargli pensare a un allestimento del genere. 
La tappa siciliana confuse ancora di più le idee. Una volta tornato a Torre del Lago, Puccini confessò a Ricordi di avere parecchi dubbi sulla Lupa: non voleva accantonare nessun progetto, ma il soggetto di Verga non faceva evidentemente per lui, come spiegato nel viaggio di ritorno alla contessa Blandine Gravina. Il musicista toscano la ascoltò disapprovare lo scioglimento del dramma, vale a dire l'uccisione della protagonista nel corso di una processione. Verga iniziò a sospettare che Puccini lo prendesse in giro, ma attese ben diciassette anni che la sua novella fosse messa in musica, prima di puntare su altri autori. 
Temo che sarà minestra riscaldata. Io e Ricordi parleremo insieme al Puccini, che vuole e non vuole, e lo metteremo al caso di dir netto sì o no.
L'amarezza dello scrittore è più che palpabile (la lettera risale all'estate del 1893), un sentimento che sfocerà in breve tempo in rassegnazione. Bisogna però sottolineare come il tempo perso con "La lupa" non fu inutile e sprecato in senso assoluto. In effetti, Puccini si ispirò a questi abbozzi per comporre il tema di Rodolfo nella Bohème, mentre altre idee e spunti furono sfruttati in seguito per la "Tosca". 
Soltanto nel 1948 (Verga e Puccini erano morti da oltre due decenni), la novella verghiana diventò un'opera, grazie a Santo Santonocito, il quale si avvalse del libretto di Vincenzo De Simone. Chissà come sarebbe stata la Lupa pucciniana: nessuno può dirlo, la vicenda verrà ricordata per i ripensamenti, i sospetti e le indecisioni dei protagonisti, il compositore scartò molti soggetti nel corso della sua vita, ma in questa occasione fu molto vicino a portare a termine il lavoro, prima di metterlo da parte in maniera definitiva.
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Bozze contratto, collezione privata di F. De Roberto (inedito)









giovedì 6 novembre 2014

Guglielmo Policastro, studioso e scrittore di storia catanese (Catania 1881-1954)



Distillò in una quantità enorme di volumi, opuscoli e articoli i segreti di mille archivi, spesso mai prima esplorati. La biografia del marchese Antonino di San Giuliano fu la sua prima opera di vasto impegno; la seconda fu una Storia del Teatro siciliano (che è del '24). Le sue maggiori fatiche, che lo impegnarono in un estenuante lavoro ventennale, sono Catania prima del 1693 (nel 1693 la città fu ineramente distrutta dal terremoto), Catania del Settecento (ossia dopo la ricostruzione) e Bellini, rispettivamente del 1952, del 1950 e del 1935. Altre biografie, altri studi egli dedicò ai siciliani (Musco, Francesco Di Bartolo, Angelo Majorana, Gioacchino Russo, Orlando, Natale Attanasio) e, più raramente, a italiani d'altre regioni (Mussolini, Oriani, Bissolati, Boselli). Collaborò al Marzocco, alla Lettura, a Matelda, al Resto del Carlino, al Popolo di Sicilia, al Popolo di Roma, al Bollettino della Sera (New York), eccetera. Non ignorò il teatro (Oltre il potere umano, Il ponte della vita, 17 sicretu di Puddicinedda, 'U misi di maiu) né la narrativa (Il cortile di San Pantaleo e Inutilità del bene, romanzi) e la poesia. Prima che morisse, l'amministrazione comunale di Catania gli affidò l'incarico di ricostituire l'archivio storico, distrutto, con tutto il palazzo comunale, dall'incendio sedizioso del 14 dicembre 1944; ma riuscì solo ad accingersi all'opera. Pochi giorni prima di spirare potè mettere invece la parola « fine » a uno studio su Bellini a Parigi e a Londra. - s. Nic.

(1909) LA FONTE
Come un sottile stelo di cristallo, 
fiorito in cima in un azzurro giglio, 
dal centro de la vasca, ov'è un groviglio 
mostruoso di rami di corallo, 

rapido s'erge, un cerulo zampillo 
che scrosciando ricade, poi con roco 
romore ne la conca che trabocca 
d'acqua, ov'un cigno vaga dal tranquillo 
occhio e si sciacqua, or sì, or no, per gioco. 
Canta la fonte sonora con bocca 
una lieta canzone: i lilla a ciocca
olezzano , a l'Intorno ne l'aiuole 
tra l'umor de la vasca e il caldo sole, 
e mirano de l'Acque il dolce ballo.
                                                   Guglielmo Policastro.

***

Ricordo di Policastro
La mia amicizia con Guglielmo Policastro nacque quando io, reduce dalla guerra 915-918, venni dalla mia Giarre, dove ero nato nel 1895, a stabilirmi a Catania. Lui era già maturo e noto. Era nato nel 1881. Io, invece, giovane ancora e agli inizi della mia attività pubblicistica. Poi, a mano a mano che l'amore per la vita e la storia di Catania mi avvicinava e legava sempre più a lui, i nostri rapporti divenivano più stretti e cordiali. Avveniva tra me e Guglielmo Policastro quel che nel medesimo periodo avveniva tra me e Saverio Fiducia. Due miei grandi amici, uno migliore e più caro dell'altro.                          ,
Poi, quando egli mise mano alla selezione e alla raccolta dei suoi articoli, disseminati qua e là in giornali e riviste, per la stampa dei suoi due volumi su Catania, ed io, valendomi di rari preziosi documenti, mi ero già occupato della storia dei Monasteri e della chiesa delle Clarisse in Catania, Guglielmo Policastro, che quei miei articoli aveva letto, mi espresse il desiderio di averli messi a sua disposizione. Inutile dire che fui felice di accontentarlo.
*   *   *
È noto che mentre altrove, dopo il terremoto del 1693, la vita continuò a svolgersi e a fluire senza scosse, a Catania invece, a causa appunto del cataclisma che l'aveva ridotta una immensa e spaventosa montagna di macerie e rovine seppellendovi sotto ben 16.050 abitanti dei circa 25.000 che la popolavano, secondo la relazione del Duca di Camastra, la vita si fermò tra lutti e lacrime dei superstiti. I quali, però anziché scoraggiarsi e fuggire, pensarono, seguendo l'esempio dei loro progenitori, di fare rinascere la loro città così come nel corso dei secoli, altre sette volte fino ad allora era caduta ed era risorta. Infatti, prima ancora che spirasse il triste secolo, la nuova Catania incominciò a delinearsi nelle strade, nelle piazze, nei palazzi, più grande e più bella di quella scomparsa. In una gara meravigliosa tra nobiltà e popolo, tra civili e religiosi, a mano a mano che la città si ripopolava e risorgevano chiese, monasteri, palazzi, ville, scuole, eccetera, la vita, la cultura, la religione il commercio rifiorivano come, ad ogni primavera, rifiorisce la natura.
È stato quindi merito di Guglielmo Policastro quello di aver calato il suo volume « Catania nel Settecento » in quello che fu per Catania il secolo d'oro, così straordinariamente fecondo di intraprendenza, d'iniziative, di coraggio e d'amore, in una parola di opere, senza di che non poteva certo risorgere dalla tremenda catastrofe del 1693. In altre parole, con questo suo libro Guglielmo Policastro ha tessuto un vasto e persino suggestivo diorama della Catania settecentesca.
Certo, non si può parlare di « Catania nel Settecento » di Guglielmo Policastro senza accennare al volume di Francesco Fichera: « G. B. Vaccarini e l'architettura del Settecento in Sicilia ». Il Fichera, però, in questa sua magistrale opera che spazia fra l'altro in tutta l'Isola nostra con frequenti richiami e rilievi non solo artistici e architettonici, bensì biobibliografici, da quel grande architetto e studioso che era, guarda e studia Catania principalmente, più che dal punto di vista storico, da quello dell'architettura e dell'arte, facendo continuo riferimento alle opere del Vaccarini, a cui attribuisce anche la chiesa di Santa Chiara, appartenuta, crediamo, sempre alle Clarisse e mai alle Benedettine, e dovuta all'architetto Giuseppe Palazzotto, come con documenti alla mano ha potuto dimostrare nel 1942 il sottoscritto, vivente l'arch. Fichera (1).
Accanto a « Catania nel Settecento » bisogna ricordare un'altra opera storica del Policastro, cioè « Catania prima del 1693, così notevole e diremmo indispensabile per chi voglia vedere e studiare Catania come era appunto prima del Settecento.
E « Bellini »? Ricco di notizie e avvenimenti anch'esso, nonché di illustrazioni documentarie, per cui meritava una edizione migliore e più degna, « Bellini » è un libro che fa palpitare il cuore dei catanesi, anche perché contiene delle parole (p. 102) rivolte da Vincenzo alla sua mamma veramente commoventi. Parole che oggi, purtroppo, i figli, tranne rare eccezioni, non sanno dire alle proprie mamme.
In seguito Guglielmo Policastro scrisse anche « Bellini a Parigi ». Quanto lavoro, ricordo, e quante faticose, pazienti, instancabili e anche dispendiose ricerche gli costò. Ma con sua grande amarezza non fece in tempo a vederlo stampato. Il manoscritto lo conserva, tra le carte del padre, il figlio avvocato Rosario.
Topo di biblioteca e soprattutto assiduo instancabile ricercatore d'archivio, Guglielmo Policastro, qualificato « diligentissimo » dal maestro Francesco Pastura, un altro grande catanese che, prima di scomparire, ebbe la forza di portare a compimento  il suo « Bellini secondo la storia », elevando all'immortale musicista il monumento più alto e solenne, Guglielmo Policastro, dicevamo, ha lasciato tra i suoi lavori più importanti diversi opuscoli, uno più pregevole dell'altro. Si tratta di: « La Cappella musicale del Duomo e l'Oratorio sacro in Catania nel 1600 », « La musica ecclesiastica in Catania sotto i benedettini (1091-1565) », « Cento anni di attività musicale a Catania e nel Convento di San Nicolò l'Arena », « Musica e teatro nel Seicento nella provincia di Catania », « I Teatri del '600 in Catania »: tutti argomenti che nessuno aveva trattato con tanta messe di notizie e di particolari di prima mano e con tanto zelo. E per dire della loro importanza basti il fatto che furono tenuti presenti dal Pastura nella elaborazione del suo prezioso volume: « Secoli di musica catanese ».
Ma Guglielmo Policastro, ingegno versatile e multiforme, che spiegò la sua attività letteraria, storica, giornalistica, collaborando ad una infinità di giornali e riviste, anche esteri, si occupò anche di teatro. Al teatro infatti diede « Il Teatro siciliano », un volume interessante e utile per la conoscenza di autori, attori e teatri della Catania ottocentesca, compresi quelli delle marionette. Al teatro diede inoltre ben cinque sue commedie, tre in lingua: « Il ponte della vita », « Oltre il potere umano » e « Il cortile di San Pantaleo », e due: « U misi di maju » e « U sicretu di Puddicinedda » in dialetto siciliano. « Oltre il potere umano » fu rappresentato con successo nel 1909 nel nostro Teatro Sangiorgi.
*   *   *
Nato nel 1881 e avviato dal padre all'avvocatura, ben presto invece Guglielmo Policastro abbandonò l'università per il giornalismo. Venne così a trovarsi nella scia luminosa di Giuseppe De Felice («Corriere di Catania»), di Giuseppe Simili («Sicilia»), di Carlo Carnazza (« Giornale dell'Isola »), di Paolo Arrabito (« Gazzetta della Sera »), nonchè del marchese di Sangiuliano e di altre eminenti personalità del mondo politico, giornalistico, della cultura e dell'arte.
E fu proprio all'inizio della sua carriera pubblicistica ch'egli scrisse e pubblicò i suoi primi saggi biografici. Nel 1909 « De Felice » con prefazione di Napoleone Colajanni e un giudizio di Leonida Bissolati. Nel 1912 « Un uomo di Stato: il marchese Di Sangiuliano », con prefazione dello storico Francesco Guardione. Nomi, quelli di codesti prefatori, che bastano da soli a dare la misura del concetto in cui fin d'allora era tenuto Guglielmo Policastro.
Ricordo che spesso, nei momenti di scoraggiamento dovuti agli attacchi del male che ne minava la forte fibra se la prendeva col destino. Diceva che il destino gli era stato avverso. Ma ciò non era vero. Chi non ha qualche cosa da rimproverare al proprio destino?
Che egli non aveva potuto mettere la parola fine o non aveva potuto vedere stampati « Bellini a Parigi », « L'Ottocento musicale di Catania » e « Il Teatro Comunale di Catania », tre lavori ai quali aveva lavorato o stava lavorando con l'impegno e la passione che soleva mettere in tutto ciò che faceva, questo sì, era vero. Ma non pensava, o dimenticava che « per meritare la riconoscenza degli studiosi in genere e dei catanesi in particolare » — come alla sua morte, l'8 agosto 1954, scrisse di lui Saverio Fiducia — bastavano e bastano « Catania prima del 1693 », « Catania nel Settecento » e « Bellini ». - di Francesco Granata 

* Enciclopedia di Catania
* LA SICILIA », 13 agosto 1976.  



lunedì 18 agosto 2014

La Rivista Popolare ed. 1905 - a Giuseppe Mazzini


"Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti è senza dubbio indizio della sua civiltà; ma, quando si pensi che molti di quei magnanimi a cui s’innalzano monumenti furono perseguitati e calunniati e odiati in tutte le maniere mentre durarono in vita, vien quasi voglia di conchiudere che molte che paiono manifestazioni di animi generosi non sono altro che misere ipocrisie, e gran parte di ciò che diciamo civiltà non è che industria d’inganni, onde un popolo si studia apparire quel che non è, non solo al giudizio degli altri ma di sè stesso.
Sarebbe perciò desiderabile, a decoro di una gente e ad onor vero dei grandi trapassati, che non ci si affaccendasse troppo a commemorare, a statuare, a monumentare coloro che furono grandi, e si guardasse invece di conformare i pensieri e le azioni nostre a quelle dei magnanimi, dico di coloro che tali furono veramente, non di tanti che prima e dopo morte usurparono tal nome, e fama e gloria ebbero di grandi non per fatti [p. 6]propri, ma per capriccio di fortuna che li pose in alto, e per adulazione di servi, che più adorano la fortuna che non rispettino la virtù.
Questa sarebbe da vero opera di nazione civile; ma i popoli, quantunque si dicano civili, seguiteranno probabilmente a far pompa di morti per coprire le miserie dei vivi: chè, inalzar marmi e bronzi costa soltanto danari, quando l’ingegnarsi di imitare i grandi costa tali sacrifici che, tranne pochissimi, nessuno è capace, non che di sostenere, d’immaginare." M.R.




MAZZINI
Dall' Atlantide  di Mario Rapisardi - Canto  undecimo

Sei tu, sei tu, con subito e profondo 
Estro d'entusiasmo Edea favella: 
Ben t'affiguro al mite aspetto, al fondo 
Sguardo, alla fronte pensierosa e bella ! 
O intemerato cavalier del mondo, 
Ben principia da te l' età novella, 
Da te, dal cui presago alto pensiero 
Raggiò, qual sole dall' oceano, il Vero !

Quando più pura e più sublime Idea 
Più puro cor, mente più alta accese ? 
Quando in età più tenebrosa e rea 
Raggio più bel di libertà discese ? 
Quando mai l'ala del Pensier che crea 
Finse più mite eroe, più sante imprese ? 
Quando sdegno che atterra, amor che molce 
Andar congiunti in armonia più dolce?

Dolce armonia, che nel tuo bronzeo petto 
Di vaticinj e di dolor nutrita, 
Dalle voci cresciuta, onde un eletto 
Stuolo agitò la tenebra abborrita, 
Alimentata dal perenne affetto, 
Per cui sì novi eroi dieder la vita, 
Resa divina dal sospir di tante 
Madri e dall' ira e dall'amor di Dante,

Nel tuo grido proruppe, e all'aure prave, 
Onda oscura intristia l' itala pianta, 
Diffuse a un tratto un fremito soave, 
Una speranza inusitata e santa; 
Dai pigri petti, dalle menti ignava 
Fugò la nebbia e la negghienza tanta, 
E come squillo di celesti trombe, 
Svegliò la terra ed animò le tombe.

Sorsero sette re, pallulàr sette
Venali turbe al mal d'Italia armate, 
E industri insidie e perfide vendette 
Fra l'erbe ordir dal pianto tuo bagnate; 
Il demonio dell'Odio e delle Sette 
Ti saettò con Farmi avvelenate; 
Ma il vermiglio Guerriero, un contro a tutti, 
Sguainò la sua spada e fùr distrutti.

Salve, o dell' Ideal nitido acciaro, 
Raggio di libertà puro ed ardente, 
Celere qual pensier, come Sol chiaro, 
Gloria della ridesta itala gente ! 
Per te dall' ombre dell' esilio amaro 
Rifiammeggiò del Ligure la mente; 
Per te l'Idea, che il cor gli arse perenne, 
Nella destra d'un dio fulmin divenne !




*****
La Rivista Popolare ed. 1905 n. 11/12




domenica 20 aprile 2014

Necrologio per Mario Rapisardi - 1912


«Niun saprà delle mutate genti / quale io vissi e chi fui; cadrà ne’ gorghi / del tempo il nome mio, su cui maligne / tele d’alto silenzio il vulgo ordisce; / ma l’ideal de’ giorni miei, la face / che il mio misero corpo oggi consuma, / splenderà sotto a’ firmamenti eterno».  
M. Rapisardi -  XIV  Epigrammi



Di Nunzio Vaccalluzzo - 1912








Tommaso Cannizzaro e Mario Rapisardi, i poeti amici.

Luigi Vita, valente direttore della rivista messinese Battaglia Letteraria, così scriveva, nel vano tentativo di rivendicare l'alto valore del poeta e letterato peloritano Tommaso Cannizzaro, deplorando il poco onore che in genere gli si rende dalla sua stessa città natale: Cannizzaro dovrebbe essere letto, studiato, ammirato assai più, non solamente dai suoi conterranei messinesi, ma da tutti i siciliani.
 
Giustamente il Vita sottolinea che Tommaso Cannizzaro fu onorato di stima e di amicizia da scrittori quali Victor Hugo, Carducci, Mario Rapisardi, G. A. Cesareo, Giovanni Pascoli, Luigi Capuana, Arturo Graf ed altri simili: il riconoscimento da parte dei Grandi è sempre quello che uno scrittore più ambisce e che largamente lo compensa della incomprensione dei superficiali e degli indotti e dei lettori frettolosi.
Opportuno è ripubblicare, qui, un magnifico sonetto che M. Rapisardi scrisse per l'amico T. Cannizzaro e che si legge tra le Foglie sparse, edizione Sandron.

A TOMMASO CANNIZZARO
Tommaso, invan dove la pugna ferve 
Richiami il tuo commiliton canuto, 
Che, libero fra tante anime serve, 
Per l'onore dell'arte ha combattuto.

Ben ei freme al pensier che di proterve 
Menti uno stuol di vanità pasciuto 
D'ogni pura bellezza ha il fior polluto, 
E alle turpi sue voglie Italia asserve.

Ferito al petto, in solitario loco,
Il sangue ultimo ei perde, e ala sua vista
Discolorasi il mondo a poco a poco.

Ma troppo del suo danno ei non si attrista, 
Se l'idea, che il temprò dentro al suo foco, 
Per opra tua novo splendore acquista.

Versi del Cannizzaro scritti per il Rapisardi , sono quelli che il poeta messinese pubblicò nella rivista catanese Istituto di Scienze lettere e arti del 30 Gennaio 1899 e intitolati A Mario Rapisardi, in occasione delle onoranze a Lui: in occasione, cioè, delle onoranze che Catania tributò al suo grande Poeta, allora poco più che cinquantenne, col plauso degli uomini più insigni d'Europa; onoranze di cui segno più duraturo rimase il busto bronzeo del Rapisardi nel giardino Bellini, opera dello scultore Benedetto Civiletti. In questi versi, il Cannizzaro esortava il festeggiato Cantore di Giobbe e di Lucifero a non badare al cavallo della gloria che nitriva alla sua porta, e gli faceva notare che i massimi poeti — l'Alighieri non escluso — non ebbero riconoscimenti e festeggiamenti, ma persecuzioni, incomprensioni, livori, povertà, esilio e che il poeta deve essere « odiato dai contemporanei e dimenticato dai posteri» (anche dai posteri?). Ma vediamo i versi di Cannizzaro:
« Del tuo quieto ostello a le severe porte
il cavai de la gloria odi, o Mario, nitrir,
esso ti attende, e — inforcami, — grida superbo e forte
—  del canto altero Sir. 
Io ti trarrò per selve di lauri maestosi 
dove i venturi secoli un peana a inalzar
verranno su la fulgida urna dei tuoi riposi
—  Mario, non l'ascoltar! 
Volgigli il tergo e lascia ch'ei corra ove più voglia 
dove la vana sete di fama il porterà:
a lui tu nega il varco della modesta soglia dove la Musa sta ... »
Evidentemente Cannizzaro esagerava: Rapisardi non fu mai avido di lodi e di onori: « Poco il biasimo e men la lode apprezzo » scrisse nell'epistola poetica ad Andrea Maffei, nel mandargli una copia del Lucifero. E in una delle Poesie religiose, dedicata a Felice Cavallotti, scrisse di sé:

« Io, che tutta donai la mente al Vero,
Né più mi tocca il cuor biasimo o lode ... ».

Ma che egli dovesse mostrarsi sordo e indifferente al cavallo della gloria, che finalmente nitriva alla sua porta, era troppo.
Rapisardi, rispondendo ai versi e ad una lettera del Cannizzaro, per ciò così gli scriveva nel febbraio del 1899:
« Il cavallo della gloria ha dunque nitrito alla mia porta, ed io, dovevo secondo te cacciarlo via a suon di pedate? Oh, perché, amico mio? Io credo aver fatto qualcosa di più gentile.
Mi sono affacciato allo sportello, in mutande e berretto da notte, e ho detto: Pegaso mio, io ti sono grato del cortese invito; ma, credimi, io non ho più voglia di inforcare le tue groppe e di caracollare per le regioni fragorose della gloria.
Certo non mi vergogno di averti un giorno desiderato (oh, perché dovrei vergognarmene, se i più nobili e fieri spiriti, non esclusi l'Alighieri e l'Alfieri, ti hanno ardentemente desiderato?); ma ora, credi, ho altro per la testa; e il mio vecchio cuore, a parte gli acciacchi e i disinganni dell'età, non ha palpito alcuno per tutto ciò che non si riferisce alla giustizia e alla pace degli uomini ». Coerentemente con questa affermazione, più tardi, nel maggio del 1906, in prefazione all'edizione Nerbini del suo Lucifero, scriveva di sé che « vicino ormai a dissolversi nell'infinito, nel fluttuare di tante idee, nel tramonto di tanti idoli, nella furia fragorosa di sì strane correnti artistiche e letterarie, egli rimaneva fermo in quei princìpi che aveva finalmente riconosciuti per veri, aspirava l'aura dei nuovi tempi, s'inebriava al sentore delle nuove battaglie, ringiovaniva alla certezza del trionfo della Giustizia e della Libertà ».
Chiudendo la lettera suddetta al Cannizzaro, il Rapisardi incalzava: « Mi parli di una gloria fatta di oblio ... dici che del poeta ha da essere obliato persino il nome, salvo poi a lasciar l'ufficio di ripeterne il canto alle foreste, al cielo e al mare. Mio caro amico, te lo confesso: codesti a me paiono indovinelli.
E tali, credo, li avrebbe stimati anche il povero Antero, che, nonostante il suo ascetismo, forniva gentilmente le proprie notizie biografiche ai suoi traduttori e credeva che l'essere onorato e stimato dai contemporanei era pure qualcosa ».
La chiusa della lettera accenna ad Antero de Quental, poeta portoghese, di cui il Cannizzaro, conoscitore sicuro di lingue moderne, tradusse in italiano i sonetti.
La lettera è a pag. 343-44 dell'Epistolario del Rapisardi edizione 1922 dell'editore Niccolò Giannotta di Catania, curata dal Dottor Alfio Toma-selli, il quale, dopo la morte del Poeta etneo, sposò la di lui amica e ispiratrice Amelia Sabernich Poniatowski.
Coerente con questo suo modo strano di concepire l'attività del poeta, il Cannizzaro pubblicava le proprie opere senza nome, o con pseudonimi: « Versi francesi di un anonimo »,« Le quartine di Umar Chayyàm recate in italiano dal traduttore dei sonetti Camoése di Anthero de Quental ». Ragion per cui il De Amicis, scrivendogli, lo invocava: « Gentilissimo Innominato ». E motto abituale del Cannizzaro era: « Nascondi la tua vita, diffondi le tue opere ». Qualcosa di simile pensava il Cesareo quando diceva, a noi suoi scolari nell'Ateneo di Palermo, che quello che resta di un poeta è la sua poesia; la quale, mentre è la sua gloria, è anche la sua giustificazione ».



Morto il Rapisardi, nel gennaio del 1912, il Cannizzaro non mancò di scriverne e notò, tra l'altro, che « Mario Rapisardi visse solitario come un eremita e morì come un filosofo antico, i cui ammaestramenti ci restano quale eredità preziosa che maturerà i suoi frutti nelle generazioni future ».

Ma scrivendo del poco onore in cui il Cannizzaro è tenuto dai messinesi, e dai siciliani in genere, non si può tacere il nome illustre di un altro poeta e letterato messinese cui sembra inflitta una simile incomprensione:   Giovanni Alfredo Cesareo.
Forte e fecondo poeta, che ha pagine degne del Foscolo, e critico saggista paragonabile al De Sanctis, egli è tuttora sottovalutato in Sicilia e in Italia. E non mi risulta che la sua Messina gli abbia eretto un busto; né glielo ha eretto Palermo, dove fu a lungo maestro insigne di Letteratura Italiana.

Per il Cesareo, come per il Cannizzaro e per il Rapisardi e per G. A. Costanzo si aspetta ancora la critica serena e chiaroveggente che assegni loro il posto preciso, cui hanno diritto, nella storia della letteratura moderna.

Bibbliografia
*Articolo apparso in rivista « Battaglia letteraria » di Messina, Gennaio-Febbraio 1967 e in rivista « Palaestra » di Maddaloni (Caserta), Luglio-Settembre 1967.
* Saggi e discorsi di Ignazio Calandrino.