Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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venerdì 8 febbraio 2019

Archivio Francesco Paolo Frontini 1860/1939





Archivio Musicale -  "IMSLP stands for the International Music Score Library Project"
https://imslp.org/wiki/Category:Frontini,_Francesco_Paolo




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qui è stato censurato, ogni settimana cancellano una raccolta inedita(forse potrà servire per una pubblicazione che interessa a questi "signori", ormai hanno lasciato meno di un quarto di quello che ho pubblicato), ma li abbiamo fregati!! :)
https://archive.org/details/@frontini


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Quartetto in Do min. 1879 di F. P. Frontini



Quartetto in Do minore per 2 violini, viola e violoncello 1879 di F. P. Frontini riduzione per Liuti. エストゥディアンティナ・フィロドリーノ・ディ・キョウト第24回演奏会より。室内楽曲ステージのリハーサル映像です。 Dal 24 ° Concerto di Estudiana · Philodrino di Kyoto. È un'immagine di prova del palcoscenico di musica da interni. 石村隆行 Sempre Grazie!

venerdì 29 settembre 2017

Per canto e pianoforte il "Canto di Zilpa"


Musica di Salvatore Saya - parole di Mario Rapisardi



"Canto di  Zilpa"

Un paese io conosco ove non ride
Caldo e raggiante il sole; 
Ma quanto infido è il sol, tanto son fide
L'anime e le parole. 
Ivi oceani non son, non son vulcani,
Né abissi il suol nasconde; 
Non fiamme d'amorosi impeti umani,
Non mar d'ire profonde ; 
Ma deserti di fiori entro una blanda
Fascia di nivea luna, 
Laghi a cui fan gli azzurri ampia ghirlanda
Senz'onda ed aura alcuna. 
In palagi d'opàle e di coralli
Avvolti in roseo velo, 
Pallide giovinette intesson balli
Infra la terra e il cielo. 
Infra la terra e il ciel, come fragranza
Che il freddo aere molce, 
S'alza un canto di pace e di  speranza
Monotono ma dolce. 
O fratel mio, tal rigido paese
E qui dentro il mio core. 
O amico e difensor, bello e cortese,
Io non conosco amore.
                              Mario Rapisardi.
                                            (dal Giobbe, Lib. 2°).







* Natura ed Arte 1892/93

domenica 1 gennaio 2017

Frontini Martino, Catania 1827/1909.



Frontini Martino, contrappuntista valentissimo nato in Catania nel 1827 ed ivi morto il 7 novembre 1909.

Fu il maestro dei tanti maestri catanesi che ebbero nome stimato nella seconda metà del secolo scorso, molti dei quali gli rimasero gratissimi, e si mostrarono orgogliosi di avere imparato l'arte musicale dal Maestro Frontini.

Istituì la Banda Municipale e ne fu direttore per più di 30 anni: diresse anche la Banda del R. Ospizio di beneficenza.
Compositore di gusto squisito, produsse un numero notevole di pagine musicali che lo ricorderanno sempre in tutta Italia, come uno tra i meglio ispirati autori di melodie e di ballabili, specialmente di valtzers, in cui fu riconosciuto insuperabile come Straus.
Scrisse ancbe opere liriche e coreografiche che ebbero successi magnifici
Di Lui abbiamo l'opera in tre atti Marco Bozzari, assai lodata dal grande maestro Pacini, che aveva stima immensa del nostro Martino Frontini, e lo ebbe gradito ospite nella sua villa di Pescia.
Abbiamo inoltre il Fatima, azione coreografica, e la Rivolta dell'Olimpo, operetta fantastica riuscitissima; e poi infiniti pezzi da concerto per orchestra, per banda, melodie da camera, ballabili, ecc.
*La Sicilia Intellettuale contemporanea 1911 




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Il corpo musicale civico - Rivista del comune di Catania gennaio-febbraio 1933

(...)Dal verbale di seduta consiliare del 6 luglio 1861, sopra menzionato, sorge, per la prima volta, per il nostro Corpo Musicale civico, il nome di « Banda Musicale».


 Ne era direttore, in tale periodo, il M° Martino Frontini, padre dell'illustre musicista vivente, nostro concittadino, Comm. Francesco Paolo. La nomina definitiva a direttore il Frontini l'ebbe nel settembre 1861, perché nella seduta consiliare dell' 11 di quel mese, il Consiglio Comunale affidava al  Frontini,  quale Direttore della disciolta Banda, l'incarico di « ricostruirla».

  

 

Dunque, nonostante che la data ufficiale di nomina del Frontini a direttore sia quella dell'11 settembre 1861, il Frontini deve esserlo stato parecchio tempo prima, tanto che nel '60, quando le truppe della Guardia Nazionale di Catania si recarono a Siracusa per prende possesso di quella città sgombrata dai Borboni, la quale, in quella circostanza era già sotto la regolare direzione del Frontini, che prese personalmente parte a quella specie di spedizione.

 E che la Banda dovesse esistere parecchio tempo prima del '60 si desume da altre circostanze.
 Già l'Archivio Musicale della Banda, al Teatro Bellini, offre qualche partitura per «picco!a banda che rimonta a qualche decennio prima. Una «Marcia funebre, del M° Concetto Vezzosi porta la data del 6 marzo 1851, ed il Vezzosi era Vice-direttore della Banda al tempo in cui ne era direttore il Frontini.
 Anche i Maestri F.lli Nicolò e Carlo Sardo sembra che abbiano diretto, in questi albori, la 
banda Nazionale (sin dal suo sorgere e per oltre un ventennio, il popolo la chiamò sempre Banda Nazionale ). Vi fu, in quel tempo, un valente maestro a nome Martino Pappalardo, il quale, dopo la partenza dei F.lli Sardo, si interessò moltissimo delle sorti della Banda che, frattanto, si era sciolta. E poiché la cittadinanza reclamava i suoi bravi concerti pubblici, vi fu un tentativo di formazione di un'orchestra, che si provò, forse più di una volta, ad eseguire concerti in piazza sotto la direzione del detto Pappalardo, il quale era allora definito dalla Autorità Cittadina: 
« maestro di tutti i professori di orchestra di questa città . 
Pare altresì che precisamente in questo periodo di tempo, Giuseppe Verdi, lavorando ai suoi 
« Vespri Siciliani si rivolgesse al detto Pappalardo per avere qualche motivo popolare siciliano.
Ora, se pensiamo che i «Vespri» nacquero nel 1855 e che il detto Pappalardo fu, da quell'anno, per parecchio tempo assente da Catania, si può credere che la Banda Musicale già esistesse prima di tale data.
Se non sono facilmente documentabili le notizie intorno alla banda, prima del 1860, dal '61 
in  poi, però, si può seguire esattamente ogni suo movimento.





 Difatti, avuta la nomina definitiva a direttore, nel settembre '61, il Frontini volge tutte le sue cure al Corpo Musicale, che, come sopra si è ricordato, dal popolo era chiamato « Banda Nazionale oppure « Banda Nazionale della Guardia Nazionale ».

 II Frontini, con valido interessamento dell'autorità municipale, si accinge subito a formare una grande Banda, tanto che verso il 1865 c'è già un organico di 54 elementi, numero veramente imponente per quei tempi. E se a ciò si aggiunga che, allora, vi erano paghe mensili da L. 20 a L. 67 e che il Maestro direttore era remunerato con lo stipendio di L.100 mensili, possiamo comprendere in quanto onore e in quanta considerazione fosse tenuta la Banda cittadina. Essa accoglieva elementi di primo ordine. Dalle Bande militari affluivano, a getto continuo, suonatori assai provetti, e ancora si ricordano solisti di eccezione, quali i flautisti Giovanni Spampinato Torrisi, il clarinista Antonio Martinez ed il celebre Carlo Sardo, straordinario suonatore di cornetto, i quali, anche isolatamente, tenevano concerti da camera nei paesi vicini
 Con tali elementi e con un direttore quale era il Frontini, - coadiuvato per molto tempo dal M° Vezzosi - la Banda Musicale teneva sempre alto l'entusiasmo del popolo, il quale, non pago di assistere ai pubblici concerti, si accalcava anche alle prove, tanto che il M.° Frontini fu costretto, per il normale svolgimento della preparazione dei concerti, a richiedere l'intervento di una Guardia Municipale, perché questa impedisse 1' affluire del pubblico nella «Sala delle ripetizioni ».
 E che i pubblici concerti della Banda Municipale fossero tenuti in grande considerazione dal pubblico - che non era costituito soltanto dalla massa popolare - si rileva dal fatto che i più illustri musicisti catanesi dell'epoca confortano e propugnano, con la loro piena ed incondizionata adesione, lo sviluppo della Banda. 
 Difatti, il M.° Pietro Platania, che fu Direttore dei Conservatori Musicali di Palermo e Napoli; il M.° Pietro Antonio Coppola, il quale, dopo il suo ritiro da Lisbona, fu per parecchio tempo soprintendente municipale per tutto quanto riguardava manifestazioni musicali cittadine; i M° Antonino Gandolfo, operista molto stimato; il M°Rosario Spedalieri, Direttore stabile dell' orchestra del Teatro Municipale, e molti altri, frequentando assiduamente, quando erano in città, i pubblici concerti, mostrarono sempre la più viva simpatia e prodigarono i loro più larghi consensi alla Banda municipale.
 Assunta, pertanto, a tali fastigi, la Banda comunale seguiva laboriosamente la sua via.
  Autorità municipali, prefettizie e politiche, favori popolari, attenzioni e benevolenze di
illustri rappresentanti dell'Arte e delle Lettere, tutta  si può dire, la cittadinanza seguiva con legittimo orgoglio, lo sviluppo istituzione, la quale, sia per quello che offriva alla città, sia per i successi che otteneva nelle sue frequenti gite,  nei paesi e nelle cittadine della Provincia e fuori di questa, rappresentava un potente ed efficace mezzo di divulgazione e di educazione musicale.
 La Banda continuò, così, per la sua diritta via, quando nel 31 gennaio 1872, al Consiglio comunale vien fatta la.... melanconica proposta della trasformazione di essa in « Filarmonica ».
 II Consiglio rimanda la discussione ad altri seduta. Si insiste di nuovo, dopo un anno, nella seduta del 17 gennaio 1873, ma il Consiglio rimanda ancora, con l'impegno, però, che la giunta presenti un progetto di trasformazione della banda in Orchestra . 
 Nella seduta del 27 maggio 1873 non si  prende ancora alcun  provvedimento.
 Si rinvia il provvedimento ancora una volta e si giunge, così, al 1875, quando, nella seduta del 21 giugno di quell'anno, affermata, dalla maggioranza dei Consiglieri, 1a massima che l'Orchestra richiede maggiore spesa, è messa ai voti la proposta della più volte sostenuta trasformazione, la quale viene respinta con voti    14 contro 6. E la Banda municipale continua ancora la sua strada tra il sempre crescente consenso della Cittadinanza.
Nel 1882, sotto la direzione del Frontini, si reca a Roma in occasione del Pellegrinaggio Nazionale per il Re Vittorio Emanuele II e tiene due applauditi concerti al Plincio: avvenimento, questo, senza dubbio molto importante - e non unico - per l'entusiasmo che,  a memoria di molti, quei due concerti riuscirono a suscitare.
 Verso il 1890, dopo circa 35 anni di ammirevole direzione, il Frontini è costretto, per ragioni di salute, a trascurare un po' la Banda, la quale, difatti, dal 1890 al '92, attraversava un periodo di decadenza; fin tanto che, collocato a riposa il Frontini, viene nominato, il 25 luglio 1893, nuovo direttore del Corpo Musicale il M.° Domenico Barreca.










lunedì 7 dicembre 2015

Pietro Platania nobilissima figura di musicista e di maestro (Catania, 1828 - Napoli, 1907)

« Solo la guerra o le rivoluzioni possono indurre i governanti a non riservare attenzione adeguata alle arti, che riprendono tutto il loro vigore nello stato normale, fanno parte della vita civile, son decoro di un popolo, e segno non dubbio della sua civiltà… » P. P.


Fin da bambino mostrò una spiccata tendenza per la musica, e nonostante il desiderio del padre — il quale avrebbe voluto fargli seguire la propria professione di avvocato — inizio i suoi studi musicali con Giuseppe Abbatelli, in quel tempo maestro di Cappella della Cattedrale di Catania.
Quanto tempo e fino a che punto studiò con l'Abbatelli, non sappiamo, sappiamo però — dalle cronache locali — che nel 1843 fece eseguire una « Sinfonia del dilettante », un Quartetto e un gruppo di arie per canto e piano.
Nel 1844 fece eseguire alcuni brani di una sua opera (composta quando aveva sedici anni) ricavata dal famoso romanzo di Eugenio Sue: I misteri di Parigi.
A Catania continuò negli studi fino al 1848. Nel 1850 — grazie a un sussidio annuo assegnatogli dal Comune, in premio dei suoi evidenti meriti — decise di continuare e completare gli studi nel Conservatorio di Palermo sotto la guida di Pietro Raimondi, il grande contrappuntista che era direttore e insegnante di composizione in quel Conservatorio fin dal 1833. Gli bastò un solo anno per mettere in ordine e rinnovare la tecnica musicale appresa dal maestro di Catania, e sentirsi libero di esprimere il suo mondo interiore con perfezione di scrittura e di forma. Tra tutte le forme musicali, l'opera lo   attraeva   maggiormente, e appena uscito dal Conservatorio cominciò una Matilde Bentivoglio che fu rappresentata nel teatro Carolino di Palermo, nel marzo del 1852. Il successo fu veramente entusiastico; il ventiquattrenne compositore fu evocato alla ribalta oltre venti volte. Rappresentata a Catania, l'anno successivo, la Matilde confermò lo stesso entusiastico successo ottenuto a Palermo. Il giovane musicista catanese volle dedicare l'opera al Comune della sua città natale.
Un altro successo, il Platania, ottenne con l'opera successiva Piccarda Donati, rappresentata ancora al teatro Carolino di Palermo il 6 marzo del 1857, seguito dall'altro più clamoroso dell'opera Vendetta slava (Palermo, 1865). In esse il musicista appare padrone della tecnica compositiva che egli sa dominare con la sua ispirazione e sottoporre alla volontà di rinnovare la tecnica, le forme e l'espres-sione dell'opera in musica, ancora stretta tra i ceppi della convenzionalità.
Fin dal 1863, Pietro Platania era stato nominato direttore del Conservatorio musicale di Palermo e maestro di composizione, succedendo in queste cariche rimaste scoperte per dieci anni, a causa dei soliti intrighi che non hanno mai niente a che fare con l'arte, al suo maestro Pietro Raimondi.
Ma tutto questo non potè che ritardare lo sviluppo straordinario che prese l'antico istituto musicale siciliano. Il Platania aveva assimilato perfettamente dall'insegnamento del suo maestro la straordinaria perizia nell'intrecciare ed equilibrare le voci in vaste ed elaborate trame polifoniche.  Di  questo suo  veramente  eccezionale magistero  -     tanto  raro  nell'Italia  di   quel   tempo   — nacquero:   il   « Pater  noster »   a   5   voci   e  organo; l'« Ave Maria » a otto voci e 2 campane; la « Messa da requiem » per soli, coro e orchestra eseguita nella chiesa di S. Domenico di Palermo il 9 febbraio  1878 in occasione del trigesimo della morte di Vittorio Emanuele II; il Salmo « Laudate pueri », steso in forma di cantata per soprano, coro e orchestra;   composto  nel  1880,  fu  eseguito  in  Roma, nel palazzo Doria-Pamphili in occasione delle celebrazioni in onore del Palestrina; il Salmo « Exurgat Deus »  a 24 voci,  aggruppate in sei cori a 4 voci ciascuno,  che rimane l'inno più grandioso  e-levato alla Divina potenza di Dio Creatore. Composto  a Palermo  intorno  al  1872  esso   rimase   sepolto in un cassetto per nove anni  come un orgoglioso spiegamento di forze che difficilmente poteva tradursi in realtà sonora   (secondo una nota dell'Autore,  l'esecuzione  del  detto  Salmo  esige  32 voci  per  ogno  coro,  facendo  assommare  a   192   il totale degli esecutori). Ma a conoscenza della singolare  creazione,  gli  alunni  del Platania  spinsero il loro maestro,  nel  1881,  a presentarla  alle  esposizioni di Milano e di Parigi. In entrambe le città il  Salmo   « Exurgat   Deus »   venne   premiato   con medaglia d'oro. Dedicato a papa Leone XIII, il Salmo fu stampato in Germania.
Nello stesso anno 1881, Pietro Platania — su indicazione dei maestri Franco Faccio ed Amilcare Ponchielli — fu chiamato a coprire la carica di maestro di Cappella del Duomo di Milano, rimasta vuota dopo la morte del maestro Quarenghi.   Il  Platania  accettò  la  nomina  ma  temporeggiava a stabilirsi nella capitale lombarda poiché l'abbandono del posto di direttore e insegnante che teneva nel Conservatorio di Palermo, non gli avrebbe fruttato nessun riconoscimento, da parte dello Stato, del servizio prestato a Palermo per 19 anni.
Nei tre anni che tenne la carica di maestro di Cappella del Duomo di Milano, poche volte partecipò personalmente alle sacre manifestazioni che vi si svolgevano; ma espletò il suo dovere inviando musiche appositamente composte adeguandole alle ottime possibilità che gli offriva la Cappella, e cioè un buonissimo coro e due organi. E, infatti, tenedo presente quelle possibilità, egli compose tra l'altro, « Resurrexit » (1882) a otto voci e due organi; un « Credo » (1882) per due cori e organo; un « Gloria » (1883) a otto voci per soli, cori e 2 organi e la « Messa solennis » per soli, coro a 8 voci e 2 organi, scritta secondo il rito ambrosiano. Compose inoltre un gran numero di Inni, Corali e Mottetti.
A dette musiche sacre, composte per il Duomo milanese, dobbiamo aggiungere le altre composte dopo, a Napoli, tra le quali meritano particolare menzione la Fuga a sette voci « Stella quam viderunt Magi » (1892) e l'antifona « Ave Mater Fìlio Orbata» (1893), per soli, coro a 8 voci e strumenti a percussione. Composizioni, queste, che rimangono le ultime grandiose espressioni del magistero   polifonico   del   grande   compositore.
L'opera polifonica di Pietro Platania (e cioè tutta la musica sacra nella quale essa è sostegno e  trama) racchiude in sé ogni aspetto della sua complessa personalità di artista: tecnica, invenzione, padronanza dei mezzi, dominio sicuro e geniale impiego della materia; magistralmente fusi, questi elementi ci mostrano il mirabile equilibrio del   suo   spirito    di    costruttore   e   di   creatore   e
—  soprattutto — di credente.

Dal   punto   di    vista    della   tecnica   polifonica
—   fine a se stessa o mezzo per manifestare il proprio sentimento religioso — troviamo che i meriti del Platania non sono solamente artistici. Bisogna anche parlare del suo coraggio nel rimetterla in pratica. In un'epoca nella quale pareva che soltanto il teatro dovesse essere l'unica espressione della musica italiana, il catanese creava monumenti imperituri alla polifonia vocale, cioè al contrappunto puro (quale non si adoperava più dopo i secoli XVI e XVII) dando così all'Italia la sola, seria possibilità di allinearsi con le altre nazioni europee che quel genere di musica coltivavano ancora.
Pietro Platania fu il primo musicista italiano che sentì quel risveglio culturale che, negli altri paesi vicini — la Francia e la Germania in testa — aveva già rinnovato la tecnica, le forme e l'espressione  del  discorso  musicale.
Rinnovamenti che, nella musica del catanese, possiamo anche riscontrare nelle composizioni strumentali e vocali per il concerto e per la camera. Fin dalle prime manifestazioni del suo talento di compositore, anche nei pezzi da salotto, inni o marce occasionali, troviamo che il musicista cercava sempre una espressione nuova, sia nella linea della  melodia   che   nell'accompagnamento,   sia  nel le armonie che nel disegno ritmico.   Ciò   osserviamo nelle Cantate in onore, di Bellini, della regina Margherita, in celebrazione del centenario della Fondazione dell'Albergo dei poveri; l'osserviamo ancora nei brani per orchestra « Epicedio per Gaetano Donizetti», «Festa valacca», «Elegia a Giovanni   Paisiello»;   nelle  sinfonie  «L'Arno»,   «Italia »;  nella « Meditazione » per archi  e pianoforte; nell'« Ode » composta in onore di Rossini; nell'« Ode » per la traslazione in patria delle ceneri di Bellini; nella « Sinfonia funebre » in morte di Pacini; nel duetto   «Tra   i  fiori»,   la   caratteristica  «Preghiera  di  Agar  nel  deserto »;    nei    quattro    Quartetti per  archi   (in  mi  min.;   in  la  min.;   in  sol  min.; in do min.);  nel Quartetto per voci sole, su versi del Metastasio  e nel  Quintetto  per  soli  strumenti a  fiato   (flauto,   oboe,   clarinetto,    corno,   fagotto). Le sue ultime composizioni di musica strumentale, rimaste   inedite,   sono   un   fascicolo   di   Sonate   per violino e pianoforte,  e un fascicolo di Sonate per pianoforte solo.
A questa notevole attività di compositore, bisogna aggiungere quella non indifferente di insegnante, illuminato e rinnovatore che curava paternamente ma rigorosamente la propria scolaresca per la quale scrisse anche dei trattati didattici i quali certamente, misero in scompiglio — sia a Palermo che a Napoli — l'insegnamento tradizionale basato su regole utili nel secolo precedente ma in quello successivo alquanto invecchiate, poiché la didattica musicale aveva pressoché rinnovato il proprio indirizzo; ricordiamo soltanto il « Trattato d'armonia » e il « Corso completo di fughe e canoni », pietre miliari della nuova didattica introdotta dal Platania nelle scuole musicali.
E nemmeno nel campo del teatro, il Platania rimase inattivo. Alla Vendetta slava, rappresentata a Palermo nel 1865, seguirono — tra completate e no, ma mai rappresentate — le opere: La corte di Enrico III, Giulio Sabino, Francesca Soranzo, Il gladiatore di Ravenna, Carlo di Brianza, Il Mago e Camma; opere le cui partiture autografe, complete o frammentarie sono reperibili nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli.
Nel 1885, Pietro Platania abbandonò la direzione del Conservatorio di Palermo per assumere quella del Conservatorio di Napoli, rimasta scoperta fin dal 1870, dopo la morte di Saverio Merca-dante. La carica come è risaputo venne offerta a Giuseppe Verdi, dal corpo insegnante con Francesco Florimo in testa; ma Verdi si sentì costretto a rifiutare, rispondendo con una nobilissima le-tera rimasta famosa.
Il rifiuto di Verdi mosse l'appetito di molti pretendenti che — a furia di rimestamenti, maneggi, ripensamenti, compromessi ecc. — tennero la sede vuota per circa quindici anni, per poi essere occupata da Pietro Platania segnalato al Ministero fin dal primo momento. Il glorioso istituto musicale, in poco tempo, si mise alla testa degli altri conservatori italiani, grazie al nuovo impulso  conferitogli  dal  nuovo  Direttore.
Una benemerenza del Platania che non merita di  essere trascurata,  è l'avere  egli sostenuto,  con il peso della sua autorità, la validità artistica della Cavalleria rusticana di Mascagni, presentata al Concorso bandito dall'editore Sonzogno nel 1890, per un'opera in un atto. Il Platania faceva parte della commissione giudicatrice insieme con Filippo Marchetti, Giovanni Sgambati, Amintore Galli, Francesco d'Arcais e Alessandro Parisotti e fu il primo ad apprezzare il lavoro dell'allora sconosciuto musicista, mettendone in rilievo le singolari bellezze, il carattere italiano dell'espressione melodica, le novità della veste armonica, il vigore drammatico della musica. La gratitudine di Pietro Mascagni per il maestro catanese che gli tenne a battesimo l'opera primogenita, fu grande. « Non potrò mai dimenticare la sua paterna affezione — scrisse il compositore livornese in una lettera ancora inedita — ...e prosegue: « Le assicuro che nel mio cuore rimarrà per sempre scolpito il nome di chi mi ha dato la mano per sollevarmi dall'abbandono, dall'avvilimento; e m'incoraggerà nel lavoro e nello studio il bacio che Ella generosamente volle darmi... ».
Il 30 marzo 1891, al teatro San Carlo di Napoli, fu rappresentata l'opera Spartaco di Pietro Platania, su libretto di Antonio Ghislanzoni. E' la maggiore affermazione del musicista nel campo operistico.
Oggi lo Spartaco — pur nelle sue spettacolari dimensioni (4 atti e 8 quadri) — appare il lavoro di un musicista italiano che intende rimanere tale nella espressione e nella chiarezza del discorso melodico, pur mostrando di accettare l'evoluzione   subita  dal  melodramma  tradizionale  dalla seconda metà del secolo sia nel rinnovamento  del la forma che nella tecnica armonistica.
L'opera è redatta in pezzi chiusi  — molti dei quali presentano una forma assai diversa da quelle  consuete — ma ciascuno  di  essi è  collegato a quello  che  lo  precede  e  all'altro  che lo  segue  da sviluppi  tematici  trattati   sinfonicamente.  Ai recitativi   sono   sostituiti   dei   declamati   vigorosi,   aderenti alla linea prosodica e al carattere dei personaggi.   Spartaco,   insomma,   reca   i   segni  inequivocabili  di  un  radicale rinnovamento   dell'opera   in musica.  Come  esempio  citiamo  il  « Proemio  sinfonico »   che   sostituisce   il   tradizionale   preludio,   e nel quale contrastano — sinfonicamente trattati — i  due  temi  fondamentali  sui  quali   è   imperniata la vicenda dell'opera:  libertà e amore; l'assolo del soprano ricco di accenti passionali che manifestano i sentimenti che si agitano nell'animo del personaggio;   il   pel  duetto  d'amore  che  infrange  gli schemi usuali;  il baccanale nel quale il magistero del   compositore   e  l'arte  del  musicista  creano  un affresco  nel  quale l'equilibrio  tra  suoni,  colori,  espressione e vitalità dinamica può dirsi perfetto.
Lo Spartaco, che pur ottenne uno straordinario successo al San Carlo, oggi è totalmente dimenticato. Forse la scarsa fortuna che ebbe dovrebbe essere attribuita al nuovo orientamento del melodramma italiano di quell'epoca verso il genere verista, inaugurato l'anno avanti dalla 
Cavalleria Rusticana di Mascagni; genere immediatamente seguito  da una pletora  di  giovani.
Argomenti,  proporzione,   espressione   dell'opera tradizionale appaiono radicalmente mutati. Qua si credeva ai personaggi creati dalla poesia o dalle espressioni letterarie; là i palcoscenici dei teatri d'Opera appaiono popolati da personaggi, che presi dalla cronaca nera di ogni giorno, si esprimono rudemente con un linguaggio violento e, talvolta, volutamente volgare: naturalmente in omaggio alla verità.
Fu una svolta decisiva nella storia dell'Opera in musica, ma fu anche un movimento rinnovatore che rivelò l'arte di altri musicisti e diede nuovi successi all'Italia. Va da sé che questo movimento allontanò dai palcoscenici dei teatri d'Opera ogni altro lavoro che mostrasse di seguire il genere tradizionale. Tra le opere travolte dall'ondata rinnovatrice è da includere lo Spartaco di Pietro Plata-nia. Ma oggi — in tempi di assoluta magra come quelli che attraversiamo — la storia e la critica hanno il dovere di segnalare che lo Spartaco rimane l'ultimo contributo di un musicista alla più gloriosa creazione dell'arte musicale italiana: il melodramma.
Pietro Platania si spense a Napoli, e là è ancora sepolto. Catania attende, fin dal 1907, che i resti di uno dei suoi figli migliori, venga a riposare nel suo grembo materno.
                                                                             Francesco Pastura 
                                 Secoli di musica Catanese ed. Giannotta 1968 






giovedì 12 febbraio 2015

Lauro Rossi , compositore drammatico. 1812/1885


Al Maestro L. Rossi - l'allievo F. P. Frontini

Rossi Lauro , compositore drammatico, nato a Macerata il 20 febbraio 1812; morto a Cremona nella notte del 5 al 6 maggio 1885.



Entrato giovanissimo nel R. Collegio di S. Sebastiano in Napoli, studiò la musica coi maestri: Giovanni Furno, Nicolò Zingarelli e Girolamo Crescentini, e ne uscì musicista nel 1829 -
Inizialmente scrisse alcune messe , cantate ed altre composizioni vocali, poi esordì con l'opera buffa: Le Contesse villane (Napoli, teatro la Fenice , primavera 1829). 
A quel primo tentative, felicemente riuscito, seguirono poi gli altri 27 spartiti che più sotto sono enumerati. -  Viaggiò per vario tempo per mettere in scena i suoi spartiti ed occupando vari posti di maestro concertatore; dal 1835 al 1844 viaggio insieme ad una compagnia d'opera italiana il Messico. - Nel 1850 occupò il posto di direttore del R. Conservatorio di Milano; nel 1871 succedette al Mercadante nella direzione di quello di Napoli; carica che tenne, sino al 1878. - Nel 1882 si ritirò a vivere a Cremona. 
Fu socio onorario di diverse Accademie d' Italia, ricevette vari Ordini Cavallereschi. - Compositore approfondito nelle severe regole del contrappunto e dotato di una felice vena melodica, riuscì specialmente nel genere buffo , nel quale Felice Romani soleva dire : ch'egli era il vero successore di Donizetti.



- Gli altri spartiti scritti, sono : La Villana Contessa (Napoli , teatro Nuovo, carnevale 1830; rifatto dal suo primo lavoro) ; Costanza ed Oringaldo (ivi, teatro S. Carlo, 30 maggio 1830); La Casa in vendita o Il Casino di campagna (ivi, teatro Nuovo, estate 1831); Lo Sposo al lotto (ivi, ivi, estate 1831);  Baldovino tiranno di Spoleto (Roma, 1832); // Maestro di scuola (ivi, 1832); //Disertore svizzero (ivi, teatro Valle, 9 settembre 1832); Le Fucine di Bergen (ivi, ivi, 1833); La Casa disabitata o I Falsi monetari , teatro alia Scala, 16 agosto 1834), riprodotta su molti teatri;Amelia (Napoli, teatro S. Carlo, 31 dicembre 1834); Leocadia (Milano, teatro della Canobbiana , 30 aprile 1835); Giovanna Shore (Messico, 1836); // Borgomastro di Schiedam (Milano, teatro Re, primo giugno 1844); Dottor Bobolo o La Fiera (Napoli, teatro Nuovo, 2 marzo 1845);Cellini a Parigi (Torino, teatro D'Angennes, 2 giugno 1845); Azema di Granata (Milano, teatro alla Scala, 21 marzo 1846); La Figlia di Figaro (Vienna, teatro di Porta Carinzia, 17 aprile 1846); Bianca Contarini (Milano, teatro alla Scala, 24 febbraio 1847); // Domino nero (ivi, teatro della Canobbiana,.primo settembre 1849; uno dei suoi migliori lavori); Le Sabine (ivi, teatro alia Scala, 21 febbraio 1852) ; L'Alchimista (Napoli, teatro del Fondo, 23 agosto 1853); La Sirena(Milano, teatro della Canobbiana, 11 ottobre 1855); Lo Zigaro rivale (Torino, teatro Balbo, giugno 1867); // Maestro e la Canlante (ivi, teatro Nota, 1867); Gli Artisti alla fiera (ivi, teatro Carignano , 7 novembre 1868) ; La Contessa di Mons (ivi, teatro Regio, 31 gennaio 1874) eCleopatra (ivi, ivi, 5 marzo 1876). - 



Scrisse inoltre : messe, cantate, l'oratorio: 

Saul (Roma, Ospizio S. Michele, 1833); 
un'elegia In morte di Bellini (1835); 
A Giovanni Ricordi, serenata a voci sole (Blevio , 6 agosto 1850); 
l'elegia A Mercadante (Napoli, 1876); 
pezzi istrumentali; musica vocale da camera; 8 Vocalizzi e 12 Esercizi per canto. - Come teorico, pubblicò : Guida ad un corso di armonia pratica orale per gli allievi del Conservatorio di Milano (Milano, Ricordi).
*Schmidl - dizionario universale dei musicisti 1887








Lo «Strambottolo per la Posterità», un caso... strambo!

Composizione di Lauro Rossi

osserva lo stesso L.R. in calce allo spartito
"O io mi sbaglio, oppure è così che si fabbricala musica dell'avvenire. - Se sia facile o difficile costruire questa specie di musica non oserei dirlo, che bisognerebbe esperimentarsi in lunghi ed importanti lavori: dico però che per avere qualche cosa di meno comune fa d'uopo scostarsi dal passato. - Le leggi sull'Armonia, sul ritmo, sull'unità le hanno fatte gli uomini: ora cosa vi ha di strano se altri uomini svincolandosi dalle antiche catene cercano aprirsi una nuova via di progresso?... E se questa nuova via fosse guidata con assennato criterio perchè combatterla per deprimerla?... Ma la Melodia, e particolarmente la Melodia per le voci?... qui sta il busillis, perchè sino a che trattasi di accozzare note, alle quali sono estranee le voci, il campo dell'arte non è scarso di valenti campioni; ma appena nella lizza vi si immischi con qualche pretesa l'istromento VOCE UMANA il numero degli eletti si assottiglia assai. Sono dunque d'avviso che le innovazioni, di cui in musica si va attualmente alla pesca, siano una neccessità indispensabile; ma affinchè alla divina arte de' suoni venga conservato il miglior suo pregio, cioè il cuore, l'affetto, la commozione, fa d'uopo che la parte melodica cantante sia il primo pensiero del compositore. Ove tal pregio predomini, anche le più arrischiate astruserie possono riuscire soddisfacenti e piacevoli".

19 Giugno 1870 Lauro Rossi
Los monederos falsos : zarzuela en cuatro actos y en verso - 
Rossi, Lauro, 1812-1885








martedì 17 aprile 2012

Antonio Ghislanzoni, l'intollerante scapigliato. 1824/1893

Antonio Ghislanzoni (Lecco25 novembre 1824 – Caprino Bergamasco16 luglio 1893) è stato un librettistapoeta e scrittore italiano. Il suo nome è legato soprattutto al libretto dell'Aida di Giuseppe Verdi, col quale collaborò anche alle revisioni della Forza del destino e di Don Carlos.


Il Canto di Mignon

Vedeste mai quel paese gentil
Che il sol riveste di tanto splendor;
Il bel paese ove eterno è l'april,
Eterno il riso degli astri e dei fior ?

Ivi ogni murmure d'acqua o di vento
D'arpe celesti somiglia un concerto;
Ivi ogni nota d'umana favella
Somiglia un canto, un sospiro d'amor..

Di quel mio vagheggiato Eden natio
Ho qui nel core un vago sovvenir...
Lo veggo in sogno, e là tornar vogl'io,
Là voglio amare, e piangere, e morir.
                                                                                          
 Musica di Francesco P. Frontini ,1898

*****

Nasce a Lecco il 25 novembre 1824. All'età di dieci anni, il padre, medico e direttore dell'ospedale della città, lo fa entrare in seminario per seguire gli studi ginnasiali. La ferrea disciplina dell'istituto è però poco tollerata dal carattere insofferente del piccolo Ghislanzoni, che, diciassettenne, verrà espulso per il comportamento irriverente: l'anticlericalismo rimarrà una costante della sua ideologia.
Terminato il liceo a Pavia e iscrittosi a Medicina, presto si delineerà per lui una diversa carriera: prima cantante (baritono) e poi scrittore. Quella della scrittura, in realtà, sarà la sua vera attività. Dopo la Seconda guerra di indipendenza (1859) si lega a Milano al gruppo scapigliato. È giornalista assiduo: nel '59 dirige per alcuni mesi «L'uomo di pietra»; nel '62-63 dà vita al «Figaro»; nel '65 fonda la «Rivista Minima» (che, dopo una lunga interruzione tra il '66 e il 71, dirigerà fino al 1875); nel '77 fonda il «Giornale capriccio» (che chiuderà per problemi economici due anni dopo); per non parlare delle collaborazioni alle numerose testate che ospitano suoi romanzi a puntate, racconti, recensioni, interventi di varia natura. Ma non manca l'attività creativa vera e propria: narrativa e poesia. Tra le sue opere di narrativa segnaliamo: Suicidio a fior d'acqua (1864), Le donne brutte (1867), La contessa di Karolystria (X883),Abrakadabra (1884), Racconti e novelle (1884).
Per la poesia ricordiamo Libro proibito (1878), cui arrise un notevole successo di pubblico, tanto che nel 1890 giungerà alla settima edizione. Non vanno dimenticati, infine, i libretti d'opera: Ghislanzoni ne scrisse circa ottanta, tra cui quello dell'Aida verdiana. Un anno dopo la scomparsa della moglie, Maria Bosisio (sposata nel 1859 e da alcuni anni affetta da una grave malattia mentale), morirà anche Antonio Ghislanzoni: a Caprino Bergamasco, il 16 luglio 1893.(Roberto Carnero)

« Dicendo mal di tutti, il vero espressi / Lassù nel mondo; se parlar potessi, / Pietoso passeggier, ora direi / Ogni bene di te, ma.... mentirei. »  
(Antonio Ghislanzoni, Il mio epitaffio)

I suoi epigrammi possono, contribuire a documentare la temperie culturale, sociale e politica del tempo. «I versi del Libro proibito», scrive Gilberto Finzi (1997:165), «riprendono un'atmosfera polemica d'epoca che non tocca, forse nemmeno sfiora, la poesia, ma che bene riconducono a momenti collaterali tipici della Scapigliatura».
In tal senso l'opera di Ghislanzoni è da leggere «in relazione all'affermarsi della scapigliatura e alla sua frantumazione in posizioni e iniziative anche diverse e contrastanti fra loro ma riconducibili in genere a un atteggiamento di rifiuto o di insofferenza verso i valori della società borghese e i modelli letterari che li rappresentavano» (Zaccaria 2000:47). 
Quasi un anticipatore del movimento (cfr. Paccagni-ni 1995:1-48) in quanto di una generazione precedente a quella degli Scapigliati maggiori, su di lui è fortemente limitativo il giudizio di Gaetano Mariani (1967:696): «Dei suoi amici e nemici il Ghislanzoni accoglie in fondo l'esteriorità massiccia degli atteggiamenti, sia umani che letterari, assorbe la carica di rottura che è nell'opera di un Praga, di un Boito, di un Tarchetti nei limiti in cui tale carica si adeguava alla sua visione dell'umanità che è insieme indulgente e spietata, ironica e sentimentale, seria e sorridente...».

Ama, o fanciulla-d’una luce sola


     Si irradia il core, ed è luce d’amor;


     Non potrà il tempo che ogni gioja invola


     Mai quella luce spegnerti nel cor.





Ama! alla età dei disinganni amari


     Dei tedii lunghi, dei vani desir


     La primavera dei ricordi cari


     Sentirai nel tuo petto rifiorir.





Ama, o fanciulla! benedetto e pianto


     Poserà il cener tuo dentro l’avel,


     E all’angelisco spirto amor soltanto


     Presterà l’ali per salire al ciel.



I nostri tempi
La vera sintesi
      Dell’età nostra
      Con breve distico
      Qui si dimostra:
«Tutto si compera,
      Tutto si vende,
      E carta sudicia
      Per ôr si spende.»

La nostra musica

Nell'universo
      Regnò sovrana
      Fin che fu musica
      Italïana;
Volle esser musica
      Cosmopolita,
      E allor d'Italia
      Non è più uscita.

I pseudonimi

Quando d’una effemeride
    Tu imbratti le colonne,
    Presumi invan nasconderti
    Nel vel di un Ipsilonne.
    A ognun che il testo esamini
    Subito si rivela
    Che all’ombra del pseudonimo
    Un asino si cela.





Liriche per musica


Di Ulisse Cermenati, Milano, novembre 1924
Fu uno scrittore arguto, buono, squisitamente italiano: fu «poeta nella vita e nelle opere» così come giustamente è scolpito sul piccolo monumento, che amici e ammiratori, gli eressero nella sua Lecco, cinque mesi dopo la morte.
Nel capoluogo del teatro manzoniano, nella ridente cittadina lariana, che deve la sua fama all'autore dei «Promessi Sposi» e la sua ricchezza all'instancabile febbre di lavoro, Antonio Ghislanzoni nasceva cento anni or sono, al 25 di novembre. In quello stesso 1824, Lecco aveva dati i natali ad un altro suo figlio insigne, l'abate geologo, Antonio Stoppani.
Il padre, dottor fisico Giovanni Battista, avrebbe voluto fare dell'Antonio un continuatore della severa e delicata sua professione, e con questo intento, lo aveva ovviato agli studi classici, indi alle discipline mediche all'Università di Pavia.
Il giovane non era stoffa da Esculapio; in quei tempi egli si sentiva attratto irresistibilmente all'arte lirica. E dalla antica città degli studi, egli spiccava infatti il volo per i teatri d'Italia e dell'Estero, interpretando con la sua bella voce baritonale - così chiara e sicura nel canto, in lui ch'era balbuziente al massimo grado nella conversazione normale - le creazioni di Donizetti, di Bellini e di Rossini.
Della sua avventurosa vita di cantante, egli medesimo ha scritto briosamente in parecchie occasioni, e specialmente nelle «Memorie politiche di un baritono» e «In chiave di baritono», anche per rettificare inesatte dicerie che si sparsero sul suo conto, e che furono raccolte da biografi faciloni, i quali mettevano il Ghislanzoni in luce di eterno burlone, e di sfrenato gaudente, anziché in quella giusta e simpatica di uno dei più puri e geniali componenti la scapigliatura artistica e letteraria, che fiorì in Milano nella seconda metà del secolo scorso, e che tanto raggio d'intellettualità fece rifulgere sulla metropoli lombarda.

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Invero, anche sfrondata da tutte le leggende, la vita di Antonio Ghislanzoni, cantante e scrittore, costituisce una ricca collana di episodi brillanti, così come brillante e piacevole furono il suo carattere e il suo stile. Fu chiamato il Paul de Kok italiano, fa chiamato anche, per i suoi innumerevoli e salaci epigrammi, il moderno Marziale.
Agli antichi trionfi di teatro, egli, però non teneva molto. Anzi...!
«Ripensando a quei tempi - scrisse infatti - mi avviene spesso di meravigliarmi della spensierata gaiezza, che io mettevo nel rappresentare al cospetto del pubblico i personaggi del marchese di Bois Fleury, di dott. Malatesta, di Dulcamara, di Figaro e di don Basilio. Fatto è che una volta slanciato sul palcoscenico io m'investiva siffattamente dell'umorismo musicale di Donizetti e di Rossini da riuscire un attore comico esilarante e inappuntabile. E questo dico senza ombra di orgoglio; poiché ai miei successi di istrione io ci tengo pochissimo, e quasi mi vergogno di ricordarli».
Però amava intrattenersi su quella che fu la parte aneddotica di quei lontani tempi giovanili.
Debuttò nel carnevale del 1846 a Lodi; passò poscia al «Carcano» di Milano, e un episodio saliente di quella stagione teatrale è così narrato da lui stesso:
«Uscito, dopo lunga malattia, dalla casa di salute, l'impresario Boracchi mi mandò a Piacenza, e quindi a Codogno, per cantare nell'Attila la parte di Ezio. Partii da Codogno e scesi all'Albergo dell'Àncora a Milano nel teatrale costume di Ezio, colla daga alla cintura e il grand'elmo a cresta rossa sulla testa».
È facile immaginare le matte risate di chi vide capitare nell'albergo lo strano personaggio così camuffato!
Cantò nell'anno seguente ad Arezzo, e dopo lunghe e avventurose peregrinazioni tentò di recarsi a Roma, ansioso di prendere parte alla difesa della gloriosa e agonizzante Repubblica. Sotto le vesti dei più svariati «eroi» internazionali, di cavalieri antichi e di non meno antichi tiranni, l'artista da teatro non aveva dimenticato di essere italiano e Ghislanzoni il suo dovere di patriotta l'aveva fatto, - senza menarne scalpore in seguito, - anche a Milano durante le «Cinque giornate», delle quali descrisse poi in pagine gustosissime le scene comiche che si svolsero accanto a quelle epiche.
Il Ghislanzoni, s'avviò adunque verso la Città eterna, accompagnato da un'amica, desiosa di emozioni, e che per nascondere il sesso, s'era rivestita di abiti virili. Presso le porte di Roma la coppia fu arrestata dai soldati francesi. La signorina, cavallerescamente rilasciata dagli ufficiali, potè prendere la via del ritorno, ma il nostro Antonio, dichiarato prigioniero di guerra fu rinchiuso, prima all'isola di Santa Margherita poi trasferito a Bastia, in Corsica, dove sofferse quattro mesi di durissimo carcere.
Liberato alfine; un generoso ammiratore del suo talento e del suo inesauribile spirito, gli fornì i mezzi per recarsi in Francia.

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Egli ha raccontato da par suo questo nuovo periodo della sua carriera lirica, che culminò la sera del 2 dicembre 1851 - la sera storica del colpo di Stato, - cantando la parte di Carlo V nell'Ernani, a quel Teatro Italiano.
Il giorno dopo, scoppiati i tumulti, il teatro fu chiuso, e il baritono si trovò sul lastrico.
Nel marzo dell'anno seguente, formò una compagnia, e riprese a pellegrinare per i teatri di provincia, riducendosi a Nimes, con un guadagno netto di 200 lire, che sfumò immediatamente, per una grave malattia che lo colse.
Antonio Ghislanzoni, cantò, o meglio tentò di cantare, per l'ultima volta nel 1855, di ritorno a Milano.
Così da lui è rievocato quel burrascoso spettacolo che doveva di punto in bianco, tramutarlo da baritono, in letterato:
«Nelle varie riprese della mia carriera intermittente non mi era mai accaduto di sentirmi trapassare l'orecchio dal sinistro stridore dei fischi. Questa soddisfazione, che solo mancava a completare la mia biografia teatrale, l'ebbi a Milano clamorosa, spietata, degna di me. Il teatro Carcano, che era stato nel 1847 il mio campo di Marengo, si tramutava otto anni dopo nel mio Waterloo. I fischi, le grida, le contumelie che mi investirono mentre io adunava invano gli ultimi residui delle mie note agonizzanti, per cantare nel «Templario», la parte eroica di Briano, mi intimarono di cedere le armi. All'indomani della sconfitta, io presi risolutamente il partito di abdicare, e confesso che, deponendo i titoli di baritono assoluto e di cantante disponibile, mi parve di rifarmi uomo, di ricostituirmi cittadino.
«L'ottimo Rovani, ch'io non conoscevo di persona, narrando nell'appendice della «Gazzetta di Milano» quel mio primo ed ultimo fiasco, con quella squisitezza che era la luce simpatica di ogni suo scritto, si rallegrava che io abbandonassi la scena, promettendomi degli allori più invidiabili nel campo delle lettere».

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Da quel giorno adunque, Antonio Ghislanzoni, divenne scrittore, e scrisse molto in altri quarant'anni della sua esistenza, distinguendosi nelle forme letterarie più disparate; cosicché parecchi de' suoi lavori furono anche tradotti in lingue straniere.
Il suo romanzo-capolavoro: «Gli artisti da teatro», - col quale si prefisse lo scopo principale di descrivere la tumultuosa vita dei cantanti nella sua realtà inesorabile, ad ammonimento dei giovani che, sedotti dalle false apparenze, intendessero avventurarsi capricciosamente, inconsci ed illusi; e d'altra parte di mettere in evidenza le piaghe sanabili, richiamando su queste l'attenzione del pubblico e dei governanti - ottenne, e ottiene tutt'ora, un meritato successo.
«Gli artisti da teatro» comparso dapprima a puntate nel giornale «Il Cosmorama pittorico» fu raccolto in volume e riprodotto per numerose edizioni, anche recentemente dall'editore di quest'altro suo lavoro.
Molto opportunamente l'amico Matarelli ha voluto, con doveroso e affettuoso pensiero di omaggio, nell'occasione del centenario della nascita del geniale artista lombardo, toglier dall'ingiusto oblio, questa Abrakadabra, che è la dimostrazione di una fantasia fervidissima, e che ha preceduto di molti anni la fortunata opera di Bellamy.
Degli scritti del Ghislanzoni, si leggono ancora con diletto: Le memoria di un gatto - Le donne brutte - Angioli nelle tenebre - Un suicidio a fior d'acqua - La contessa di Karolystria - Le acque minerali di S. R. - Un viaggio d'istruzione - I volontari del 1866 - Un capriccio della rivoluzione - Il diplomatico di Gorgonzola - Il dott. Ceralacca - Due spie - Un apostolo in missione - Storia di Milano dal 1836 al 1848 - I due preti - Il sole della libertà - Dietro una valanga - Una partita in quattro - Autobiografia di un ex cantante - La Corte dei Nasi - Giuda Scariota - Il renitente - Se il marito sapesse - Un uomo colla coda - Cugino e cugina - Gianbarba - I primi passi alla scienza - Il corvo rosso - Ciò che si vuole - Il redivivo - Il violino a corde umane - La tromba di Rubly - Le vergini di Nyon - Memorie di Pavia - Il flauto di mio marito - Le sedici battute dell'Africana - Storia di Lecco dal 1832 al 1848 - I drammi del Natale - Giovane e sconosciuto - Una nuova opera al teatro della Scala - La predica di fra Veridico - L'arte di far debiti; e molte e molte altre novelle di maggiore o minor mole. Scrisse anche pel teatro di prosa, ma con minor fortuna, tre commedie: Tutti ladri - La moda nell'arte - I due orsi.
Assai noti sono inoltre i suoi libretti d'opera, - una ottantina circa, - e in questa forma d'arte egli potè ben essere chiamato «principe» poiché fu tra i primi che la risollevarono a dignità di concezione e di verso.
Il melodramma che gli diede maggior fama, poiché il suo nome fu accoppiato a quello grandissimo di Verdi, ma gli fruttò ben poco finanziariamente, fu senza dubbio l'Aida. Altri come Papà Martin, Francesca da Rimini, Re Lear, Fosca, Salvator Rosa, I lituani, I mori di Valenza, I promessi sposi, Salambò, Edmea, Spartaco, furono rispettivamente musicati da altri insigni maestri, quali il Cagnoni, il Cromes, il Ponchielli, il Petrella, il Catalani, e il Platania.
Ma non qui si è arrestata la sua attività letteraria. Oltre duecento sono gli epigrammi; a centinaia si contano i componimenti poetici sparsi su tutti i giornali letterari e le più importanti riviste d'Italia.
Militò pure nel giornalismo, e fu al Secolo nei primi anni di vita del quotidiano milanese; diresse la Gazzetta Musicale di Ricordi, e fondò la Rivista minima, Il Capriccio e La posta di Caprino, ove profuse a larghe mani le gemme del suo vivido ingegno, lo spirito sano della sua instancabile vena. Un doloroso, stridente contrasto con l'anima gioconda dello scrittore, è stato l'ultimo periodo della sua esistenza, trascorso nel romitaggio dell'alpestre paesello di Caprino Bergamasco, ove volontariamente si era ritirato, per sfuggire ai rumori delle grandi città, per godersi un tramonto tranquillo, fra gente umile e buona. Dettò allora un'epistola diretta «Al dott. L. V.», che resta come un gioiello di poesia, e di pungente satira.
Onesto sino allo scrupolo, disinteressato fino all'ingenuità, egli, che col solo libretto dell'«Aida» avrebbe avuto diritto di guadagnare tanto che gli bastasse per campare agiatamente, dovette invece lottare sempre con le più umili necessità quotidiane.
Ad un giovane discepolo, che stava per lanciarsi a quel tempo nel mondo giornalistico, affidava una lettera per un amico di Roma.
Lo scritto reca la data del 28 marzo 1893, pochi mesi prima cioè della morte.
Da quel foglietto, ormai ingiallito dal tempo, sotto il velo dell'arguzia, traspare purtroppo una profonda amarezza.
In un punto, fra l'altro, il solitario, esclama:
«Io vado invecchiando a Caprino. La mia vita è una, cambiale in sofferenza. Mi approssimo ai settant'anni, e devo scribacchiare per vivere!»
In quello stesso mese di marzo, egli traduceva una poesia di Tennyson, e la traduzione lo fece proclamare vincitore su ben seicento concorrenti.
Sono versi che sembrano preconizzare la fine imminente, e fanno comprendere come lo spirito del Poeta, che sentiva avvicinarsi l'ora suprema, abbia trovato ancora nell'interpretare il mesto canto del vate inglese, tutta la forza, tutto lo scintillio dell'estro giovanile.
Eccoli i versi, che furono il canto del cigno:

«Quando l'ora silente in veste bruna
Intorno al mio guanciale i sogni aduna,
Deh! non mi richiamate,
Mute voci dei morti,
Sì spesso avanti verso l'ima valle
A cui volsi le spalle,
Nè verso il sole che non dà più luce...
Me chiamate piuttosto, o silenziose
Voci, oltre il nulla, nell'etereo smalto
Della stellata via,
Che in alto splende, in alto, sempre in alto!...»

*
* *


Antonio Ghislanzoni, allo spuntar dell'alba del giorno sedici di luglio di quell'anno, moriva.
Quest'uomo, aveva data precoce prova della sua vena umoristica, da scolaretto, nel seminario di Castello sopra Lecco, con una scappatella che ben volentieri ricordava agli amici. Un vecchio e pedante professore di storia, aveva dettato il tema: Che cosa disse Muzio Scevola ai romani, mettendo la mano sul braciere ardente?
Doveva essere il compito più importante dell'anno, quello cioè che avrebbe deciso della capacità e del profitto dell'alunno per essere promosso. Gli allievi ebbero perciò un tempo abbastanza lungo, per riflettere e per svolgerlo con ampiezza.
Il futuro autore degli Artisti da Teatro, e dell'Abrakadabra, fu lesto, e naturalmente per il primo consegnò un foglio grandissimo su cui non aveva vergato che la dolorosa esclamazione: Ahi! ahi! ahi!
E infatti, che cosa avrebbe potuto dire di più mi uomo, sia pure Muzio Scevola, mentre stava bruciandosi le carni?
Il professore, solennemente, al cospetto della scolaresca, che a stenti tratteneva le risa - si indignò e con quel senso di divinazione, che è una specialità dei pedagoghi, scrisse un rapporto in cui sosteneva che il piccolo Antonio sarebbe sempre stato un idiota e un analfabeta.
È il preconizzato idiota e analfabeta, per molti lustri, sino alla più tarda, età, con le sue opere, seminò il più schietto buon umore, fustigò e corresse i costumi con la satira, divertì varie generazioni di lettori, e anche giunto sul passo estremo, poteva annunciare all'amico Monteggia, che sul suo marmo sepolcrale, sarebbe rifiorita ancora la sana e schietta risata!
Invece la sua morte fu crudele, straziante. Non si spense che dopo una lunga, atroce agonia, cosicché si dovette affermare, quando esalò l'ultimo sospiro, che aveva cessato di soffrire.
Qualche giorno prima di chiudere gli occhi per sempre e per, comporsi, finalmente, nella pace, Egli volle attorno al suo letto si raccogliessero i bambini più poveri del paese, per offrir loro a manciate, gustose ciliege.
Con gli occhi bagnati di lagrime, stette a contemplare il quadro simpatico, e a godere dell'ingenua gioia dei piccini. Innamorato d'ogni cosa bella e buona, amante dei deboli e degli innocenti, l'umorista, il poeta morente, volle allietare le ultime sue ore, col sorriso e la riconoscenza dei fanciulli, privi d'ogni altra consolazione, nella povertà della loro infanzia.
E prima d'essere chiamato «oltre il nulla», pur tra le torture del male spietato che l'uccideva, ebbe ancora la forza di mormorare:
«Voglio fiori, molti fiori, con me, nella bara!»,
E con questo omaggio alla bellezza e alla gentilezza del Creato, si irrigidì nella morte.
Da allora riposa nel cimitero di Lecco, ove le sue spoglie per volere dei concittadini, furono trasportate con solenni onoranze, accanto a quelle di Antonio Stoppani.
Sulle tombe dei due insigni lecchesi sta incisa la medesima data: 1824.