Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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mercoledì 18 gennaio 2017

CARLO DOSSI - « Giornale di Sicilia », 26 agosto 1883

Tra i più importanti esponenti della scapigliatura milanese, fu particolarmente legato ad altri scrittori del genere come Emilio Praga e Luigi Conconi ed è ancora oggi apprezzato per la schiettezza dei suoi scritti, il linguaggio ricercato ma comprensibile a tutti, la spiccata ironia e la critica che mosse al suo tempo anche in ambito politico e sociale.


 « Giornale di Sicilia », 26 agosto 1883

A poco a poco questo Carlo Dossi han finito per istrapparlo dall'oscurità. Qualche editore stampa i suoi libri, e qualche giornalista se ne occupa. Ciò non ostante chi ne sa qualche cosa di costui? Dove abita? con chi vive? è egli giovane o vecchio? Non è facil cosa rispondere a tutte queste dimande. A Milano dov'io feci, assai tempo addietro, lunga dimora, e dov'era amico degli amici del Dossi, quest'ultimo non lo vidi che una volta sola, per caso. La sua figura mi colpì. Stetti un pezzo a mirare fisamente quella strana testa d'uccello appiccicata ad un esile corpo. Egli non proferiva che poche parole, per forza, come colui che si annoia   financo   ad   aprir  la  bocca.
Nel suo sguardo, nella sua voce c'era come una triste espressione di stanchezza. Pareva un uomo che avesse assai sofferto e assai pensato.

Carlo Dossi avea fatto parte di un cenacolo artistico, nel quale torreggiava la figura erculea di uno scrittore dalla coltura eclettica e dal vasto e poderoso ingegno, Giuseppe Rovani. Morto Rovani, quel cenacolo si sbandò. Grandi, lo scultore che sta lavorando nel monumento per le Cinque Giornate, cominciava a farsi un nome col suo Cesare Beccaria; Tranquillo Cremona aveva acquistato un'autorità pari al suo valore; Levi e Perelli s'erano buttati al giornalismo; Carlo Alberto Pisani Dossi, cioè Carlo Dossi, sebbene agiato, desiderava quel che si dice un'occupazione. Ognuno dunque cominciava a pensare al fatto suo. Non pertanto se il cenacolo più non esisteva come un'intima brigata di amici, continuava sempre ad esistere come un'affettuosa armonia d'intelligenze.
Ma il Dossi rimaneva ancora ignoto, o quasi. Del resto credo che egli rifugga del consorzio degli uomini. A me pare che questo forte originale e caratteristico scrittore debba nutrire un profondo disprezzo per la società. Ci aveva la mamma, una santa donna di alto e libero ingegno, e la mamma gli è morta. Ci aveva un cane, ma un rospo gliel'ha morsicato, e se n'è ito il cane. E adesso Carlo Dossi è rimasto solo.
Dico male: a Roma, dov'egli è impiegato al Ministero degli Esteri, ci ha due fidi amici, il Levi e il Perelli,   direttore  il   primo,   redattore   l'altro   della   « Riforma»,  ma costoro passano il santo giorno strascinando
la catena del giornalismo; e il Dossi non li vede che qualche volta la sera, a ora tarda. Li vede per salutarli, perché essi non s'impensieriscano sul conto suo; e poco dopo  se ne va,  meditabondo,  seccato.
Oh i bei giorni del cenacolo, a Milano! Oh come allora si sturacciavano allegramente le bottiglie, anfitrione, nume e protettore Giuseppe Rovani, là, in quella  rumorosa  Osteria del Gallo.
D'altronde a quei convegni io credo che il Dossi c'intervenisse di raro. Il suo intelletto è fatto per la solitudine. Tutto ciò che è folla lo annoia; tutto ciò che è rumore lo disturba. Che importa a lui della gente? Che importa a lui della società? Che gliene importa della rinomanza della gloria? Egli possiede una vasta coltura, ma la dottrina a lui non serve che come un nutrimento di cui ha bisogno. Egli conosce il latino, il greco antico, l'ebraico, il caldeo, ma tutta questa roba se la tiene in corpo, per sé. Pare che non avesse potuto resistere all'impulso di scrivere —- e scrisse; ma che ne fece, sino a poco tempo addietro, dei suoi romanzi? li stampò con gran lusso, in edizioni... di cento esemplari. Ognuno di questi esemplari era messo in vendita per cento lire; e così il Dossi raggiungeva il suo scopo, ch'era  quello  di  non  venderne  nemmeno  uno.
Un solo editore, il Sommaruga, ha potuto vincere una tale ripugnanza per la pubblicità che possiede in sommo grado il Dossi; e appunto il Sommaruga ha ristampato adesso due suoi vecchi lavori:  la Colonia Felice ed i Ritratti Umani, che in questi giorni ho letto, anzi  ho  riletto,   con  interesse grandissimo.

E le impressioni che ne ho ricevuto sono state molte e varie; questa anzitutto: che il Dossi non sarà mai popolare. Questo scrittore, che pure nei suoi intenti artistici è così democratico, è poi estremamente aristocratico nella forma. In lui non il periodo lindo e leggiero che scivoli elegantemente come slitta sul ghiaccio; ma il tocco forte e conciso, ma la frase concettosa ed efficace, ma il periodo muscoloso e breviloquente. Codesto ameranno senza dubbio lettori intelligentissimi dal gusto raffinato, ma non amerà la plebe folta dei leggitori dal breve comprendonio, dalla non nutrita intelligenza, dalla poca voglia di studiare e di imparare leggendo. A questo si aggiunga la numerosa introduzione che fa il Dossi nella sua prosa di nuovi o poco usitati vocaboli, tratti in gran parte dal dialetto lombardo; si aggiunga anche la strana accentuazione, non del tutto illogica e inutile da lui adoperata e ne avrete abbastanza perché i lavori di questo originalissimo scrittore non possano mai essere completamente accettati dalla moltitudine.
La originalità del Dossi, leggendo appunto i suoi libri, sembra dapprima che consista solo nella rude e ferrea magia della forma, e invece codesta originalità risiede non meno nella parte sostanziale dell'opera. Gli è  che  l'armonia  tra  le  due  parti   è  grandissima;   può dirsi   anzi,   senza   tema   d'errare,   che  l'una  s'immed sima   incosciamente  nell'altra  o  che  entrambe  scaturiscono  d'un  sol  getto  insieme.
Che fa il Dossi nei suoi libri? Studia e svela l'uomo, o, per dir meglio gli uomini, nella loro individualità e nella loro comunità. Ed è strano! Questo solitario, questo refrattario dal sociale consorzio, quest'uomo che ha vissuto e che vive tutto immerso in una solitudine triste e contemplativa, conosce la società e la vita in un modo che mette spavento. È per effetto di osservazione, o solo per effetto d'intuito? Certo l'osservazione vi ha avuto la sua parte, né sarebbe possibile altrimenti; ma la forza dell'intuito deve essere in quest'uomo ferrea e profonda. Tutto ciò che è vizio, ipocrisia, malignità egli lo conosce, lo anatomizza e lo svela; non v'è angolo del cuore umano che gli sia ignoto, non v'è arcano del pensiero che egli non intuisca e non afferri. Le sue dipinture, brevi ed efficaci, talvolta mettono i brividi; in una frase, in un motto egli è buono a scolpire un'indole, a fermare con efficacia scenica una situazione. Né egli è artista obiettivo soltanto. Egli, quasi sempre, rivelando, giudica, giudicando, condanna. I tipi ch'egli rappresenta, sembrano suoi nemici ch'egli aggredisce, doma e costringe a soccombere. Ed è una lotta disperata, corpo a corpo, alla quale il suo stile, che sembra opera di un bulino di cesellatore, dà efficacia strana e fortissima di contorni, di linee di espressioni e di movenze.

Questo è il Dossi. Tale è soprattutto nell'opera sua più seria e più completa che è la Desinenza in A, grande e luminosa lanterna magica di viventi. E la Desinenza in A, fa desiderare che il Dossi si accinga ad un'opera di più vasta mole: che tenti il romanzo sociale, dalle grandi linee e dalle molteplici figure. Vi riuscirebbe? Io non so; certo un suo tentativo, anche rimanendo semplicemente un tentativo, potrebbe chiamarsi  con  precedenza  un  serio  lavoro.
Ma dalla Desinenza in A son già trascorsi circa sei anni, e Carlo Dossi non ci ha dato più nulla di nuovo. Difatti la Colonia felice ed i Ritratti umani, che ci han fornito l'occasione di questo articolo, non sono che delle ristampe. Che fa egli dunque il Dossi, egli, l'artista dalla inesauribile tempra? La stanchezza l'opprime a tal segno, da fargli trascurare il suo unico svago, quello cioè  di  far  conoscere  gli  uomini   agli  uomini?
Se ciò è, io ne sono dolente per lui che soffre; dolente per l'arte, la quale, con suo detrimento, dalle sofferenze dell'uomo vede anche derivare l'inerzia dell'artista.
* Enrico Onufrio


domenica 20 aprile 2014

Necrologio per Mario Rapisardi - 1912


«Niun saprà delle mutate genti / quale io vissi e chi fui; cadrà ne’ gorghi / del tempo il nome mio, su cui maligne / tele d’alto silenzio il vulgo ordisce; / ma l’ideal de’ giorni miei, la face / che il mio misero corpo oggi consuma, / splenderà sotto a’ firmamenti eterno».  
M. Rapisardi -  XIV  Epigrammi



Di Nunzio Vaccalluzzo - 1912








martedì 1 aprile 2014

Domenico Milelli un poeta dimenticato (Catanzaro 1841 – Palermo 1905)

"Tu che venduta l'anima all'incanto
Or godi e dormi come un buon borghese.."

"Domenico Milelli, non poco genio e molta sregolatezza, canto' e visse da refrattario, pagando in privazioni e in persecuzioni la sua fedelta' alle idee rivoluzionarie e a uno stile di vita non conformista. Ex seminarista, volontario garibaldino, animatore di circoli scapigliati, professore di scuola media piu' volte sospeso e revocato, si affermo' come poeta dal temperamento esuberante, con speciale predilezione per l'epos e l'eros, spesso associati nei suoi versi. (...) La vita raminga, la poverta' inseparabile, l'estraneita' alla societa' ufficiale, la produzione disordinata ma spesso eccellente, la coerenza ideale collocano Domenico Milelli fra i piu' rappresentativi interpreti di una "boheme" italiana, di schietta radice meridionale" (Pier Carlo Masini, Poeti della rivolta", Milano, Rizzoli, 1978; pag. 129).


A Domenico Milelli nobile poeta dimenticato della mia forte e nobile Calabria. Saggio di Federico Turano (circolo Calabrese di Roma) 
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In una delicata pagina per Aurelio Costanzo, giovanissimo autore, in quell'aureo periodo di rinascita delle lettere in Italia, di quella poesia che tanto piace e va direttamente al core.

Io  canto  come  canta l'alma mia 
perchè  son certo  che non  erra  mai 
che parla sempre  come parla il core...

l'ignorato poeta dell'anima squisitamente gentile, schietto ed aborrente della finzione, innamorato della bellezza, ma già pervaso da un'onda di vago scetticismo, frutto di delusioni e di disinganni, ad un tratto si domanda bruscamente :
—- Che cosa sarà mai del Costanzo in avvenire, quando messo più da vicino a contatto del mondo, sperimenterà davvero gli uomini e la vita? — Sarà un miracolo — risponde — se egli continuerà a credere e ad amare.
Noi, peraltro, che non la pretendiamo nè ad infallibili,  nè a profeti,  abbiamo una  nostra idea sul proposito e la vogliamo dire proprio tale e quale ci frulla pel capo.
O egli, il Costanzo, dovrà finire e turarsi la bocca o, continuando, dovrà mutare registro.
In questa triste e difficile vicenda, l'ultima sua canzone sarà il contrapposto esattissimo di tutte quelle pubblicate finora come l'odio è il contrapposto dell'amore, come la morte è il contrapposto della vita.
Tale era lo stato d'animo del nostro Poeta dimenticato che la sua vita trascorse in quel mondo d'illusi, di superbi e di pitocchi, di gente, insomma, che nell'ora stessa, ride e soffre e soffre per colpa propria;

Perchè rido e in cor mi piange 
il dolor dell'allegrezza? 
Perchè piango e in cor mi aride
l'allegria della tristezza?

si domanda il rapsoda, che l'allegria della tristezza più di tutti conobbe. 
IL POETA «BOHÉMIEN».
Era allora il periodo più acuto della cosidetta Bohème letteraria ed artistica che anche l'Italia ha avuto a simiglianza della Francia.
Ne hanno fatto parte artisti come Ercole Rosa, romanzieri come Giuseppe Rovani ed Iginio Ugo Tarchetti ; poeti come Emilio Praga, Arrigo Boito, Ferdinando Fontana.
E Domenico Milelli fu veramente l'ultimo poe-bohèmien.
La Calabria « dai clivi e rivi diffusi di smeraldo ai rai del sole » gli aveva dato i natali sulla metà del secolo scorso e quella naturale abbondanza immaginosa e coloritriee di che egli inondava i versi che declamava, peregrinando di loco in loco.
Trovatore errante, fu il vero e l'ultimo di quei bohèmiens che da ogni convenzionalismo e da ogni dogma si staccano e della vita si formano una particolare concentrazione che si nutre di chimere e di sogni e si riassume nella sregolatezza.
Essi hanno dei momenti ineffabili di gaudio, quei momenti ineffabili che dà l'ebbrezza del sogno, che dà l'illusione. Ma sono momenti fugaci cui succedono le ore tristi, ore di trepidazione febbrile, di dubbio terribile, di scoramento profondo. Ma essi scrollano le spalle, scrollano la testa, scrollano tutta la persona e così tentano di scacciare la trepidazione, il dubbio, lo scoramento, conselando le loro agonie con l'antico adagio che « i carmi non danno pane ».
Senza dubbio la Bohème è quasi il noviziato della vita artistica, vita di coraggio e di perseveranza, seducente e terribile, che conta i suoi vincitori, ma anche le sue vittime.
Quante creature sovrane nell'arte ricordano spesso, nella serenità della loro apoteosi, il tempo in sui nel sorriso della giovinezza non avevano altro che il sole dei loro vent'anni, il fulgore della verde speranza : Molière, Shakespeare, Rousseau e d'Alembert e fra i nostri più recenti Boito, Praga...
Ma il Milelli non riuscì ad allontanarsi mai da quella vita sbattuta da tempeste e da sogni e dal
giorno in cui----contava appena 20 anni — lasciò la
sua terra natia e col suo primo libro di versi « In giovinezza » raggiunse Milano ove ben presto fece parte di quel cenacolo in cui fulgeano i nomi dell'autore di « Mefistofele », dell'autore di « Penombre » e del Tarchetti malauguratamente rapito in giovane etade, sino all'ultimo suo giorno rimase col suo temperamento di sognatore pur essendo sparito quel mondo che il Murger ritrae nel suo delizioso romanzo, pur non avendo compagni, pur aggirandosi in un ambiente di sepolcro.
Forse il brillante ingegno del Poeta , se più disciplinato e non conturbato da quella vita di dubbi e di sregolatezze, era destinato a più rapida e
radiosa  ascesa !
Ciononostante, egli è sempre il verseggiatore dalla vena facile ; il poeta della giovinezza e dell'amore e se il suo temperamento che lo trascinò nel vestibolo di quella vita burrascosa non gli consentì di infondere alla sua opera d'artista spiriti di esistenza duratura, i frammenti della sua produzione multiforme valgono a rilevarci la sua più spiccata attidudine alla più bella poesia..
LE PRIME OPERE. IL POETA DI NATURA »
L'esordio fu lusinghiero : « In giovinezza » : quanta dovizia di rime e di metri ! Ecco rivelarsi subito poeta facile, e conquistarsi repentinamente le simpatie di quanti in quel tempo leggevano con passione poesie. Il suo canto era melodia che sgorgava dall'intimo con dolce metro ed ammaliava : era la canzone d'un cuore nobile, la strofe di un'anima tenera bisognosa d'amore, aperta al solere, ricca di bontà e malinconia.
Entusiasmo per la vita che sorge e malinconia per la vita che sparisce : sentimenti varii che confluiscono nelle artistiche dipinture di "Paesaggio breve"  ove paesaggi incantevoli e scene dal vero consacrano ancora il Milelli poeta di natura :

L'Etna grandeggia a l'ore mattutine 
Avvolto ne le sue cappe di neve 
E il ciel, sovresso,  curvasi in un fine 
Arco di  argentea  trasparenza  lieve.

Fuma il gran cono in nebule opaline, 
Che di roridi l'alba aliti imbeve; 
Mentre giù basso,  l'ultime colline 
Stanno ne l'ombra ancor fumida e greve.

Lungi a le ripe il mar freme in vocali 
Freschi risucchi co'l levante e splende 
Tutto diffuso di viole in fiore

E disdegnando i tedi e  le venali 
Cure del giorno, trepida e si accende 
Tra l'uno e l'altro,  viva lampa,  il core!
(Paesaggio Etneo)

Erompe sempre il sentimento nelle fini cesellature di tali descrizioni, esso fluisce abbondante dalla facile vena, e non è sentimento d'un vacuo sentimentalista, del trionfatore d'un'orà o di un giorno!

Non lo aveva creato poeta la natura e non doveva essa inspirarlo col suo mistero imperscrutabile e col suo fascino indefettibile?
IL POETA ROMANTICO.
Era un poeta nato, adunque, ed era pure un romantico, non di quel romanticismo inteso còme una particolare condizione di spirito, squilibrata, perplessa, straziata da antitesi, turbata da fantasmi, premuta da ogni parte dal senso del mistero, ma di quel romanticismo della terza maniera inteso come visione sconvolta, straziata ed antitetica della vita (Croce).
Aggiungasi che in quel periodo delle lettere in Italia era proprio la scuola così detta romantica che aveva imprigionati gli spiriti : l'Aleardi che si dibatteva tra due grandi amori : la donna e la Patria ; il Tarchetti che negli ultimi anni della sua vita ci viene descritto passeggiatore di cimiteri, mediatore di tombe, in perpetuo atteggiamento d'interrogatore innanzi alla vita e alla realtà ; Arrigo Boito che al tragico e all'orrendo si fa superiore col riso, non già col cinismo che — osserva il Croce — è aridità di cuore, ma con l'humour, coll'ironia di sè medesimo. Questa scuola, d'altra parte, non era che la più densa sfumatura di uno stato d'animo diffuso onde il romanticismo doveva avere le sue spontanee manifestazioni nell'arte e nella vita. Un giovine lombardo, Giulio Pinchetti, si uccideva a venticinque anni, lasciando alcuni frammenti poetici d'intonazione leopardiana : il vigoroso Brindisi del suicida, ed Arrigo Boito levava un grido innanzi alla « pallida giostra dei poeti suicidi » che si correva per l'Italia. Olindo Guerrini, intanto, usando l'artificio del Sainte Beuve, fingeva in Lorenzo Stecchetti un giovane che muore di tisi a trent'anni e gli attribuiva « Postuma », versi intonati a malinconia e a pensieri di morte.
In tale stato d'animo diffuso il Poeta romantico per natura è ovvio che ritrovasse sè stesso e le sue prime poesie possiedono tutta l'attrezzeria e il repertorio di quell'arte attraente : scene nuziali, canti di poeti innamorati sotto il verone della bella, banchetti, funerali tombe, visioni di fate « con gli occhi tinti ne'l color de'l mare », canzoni che ripetono il dolce verso d'amore in contrasto colla solitudine e con lo sconforto da cui talora è avvinto.

E la canzone dicea ; cor senza amore 
è tetra notte sovra morto mare 
e in larghe ripeteano onde sonore 
gli  echi notturni :   amare!

E il poeta girò d'intorno li occhi, 
come  fa il falco pria che  s'alzi  a volo, 
poi disse ricadendo in su'  ginocchi : 
Mio Dio,  come son solo!

Ma gemme più preziose tempestano la collana delle poesie racchiuse nel « Canzoniere » che il Mi-lelli compose tra l'84 e l'85.

S'io non sognassi mai, se non potessi, 
su l'ali  azzurre de  la  fantasia, volare, 
volare a' tuoi fervidi amplessi, 
maliarda del core,  o poesia,

se restare inchiodato io qui dovessi 
a 'l nero scoglio de la vita mia, 
a lottare sempre co' nemici istessi, 
cui son parenti invidia e codardìa.

Se mi vietassi inebriarmi a' tuoi 
labbri stillanti, o Venere divina, 
se Lieo mi negasse i doni suoi,

a' quattro venti anch'io ti griderei                                     
cieca noverca  e  lurida  sgualdrina 
anch'io, natura, ti bestemmierei.



L'IMITAZIONE DEL POETA

Senonchè i soliti ipercritici, poggiandosi su simiglianze od affinità d'arte poetica, ne hanno voluto intaccare l'originalità e la schietta spontaneità, forse una delle caratteristiche del cantore calabrese, ed in ogni giro di strofa hanno intravisto una imitazione, in ogni ode un ricordo pur evanescente di poeti a lui contemporanei.
Ma se nel « Canzoniere » — certamente — vi scuote in qualche sonetto il fremito stecchettia-no, se in qualche ode vibra il concitato verso del Carducci, e se talora il romanticismo aleardiano spande il suo profumo nella composizione del verso, forse non rimangono integre la genialità dell'ispirazione e l'originalità della costruzione poetica e dell'espressione che bastano a circoscrivere la personalità artistica propria dell'autore, a dare una propria fisonomia alla vasta e preziosa opera sua?

Io non posseggo perle o diamanti (dice ad Antonietta) 
per fartene un monile o una corona, 
quel che ti posso offrir sono i miei canti, 
e che poco ti dia, bimba, perdona; 
Me l'ispiraro i fior,  gli astri rotanti, 
di Lesbo i cedri e l'ombra di Dodona, 
dell'Ionio tuo mar l'onde sonanti, 
e le dolcezze della tua persona.

Questa è naturale ispirazione di canti melodiosi, di leggiadre canzoni, di possenti invocazioni. E' l'anima sua schietta che in ogni verso dischiu-desi qual boccio! di rosa alle aure primaverili : è il suo temperamento franco e leale che si rivela nella dedica ad Antonietta : tutti i suoi carmi commuove e sommuove quel sentimento pieno di freschezza che trabocca dal cuore gonfio del poeta.
Che se per caso gli tocca di ripetere cose già dette, egli le ridice con accento personale come di uno che proprio allora le scopra e le riscopra, se gli tocca di usar frasi logore, egli le riatteggia in modo che riacquistino vigore.

Amor è desiderio di carezze lascive 
brama d'ebrezze  fervide, di voluttà furtive; 
amor le labbra tumide al colmo nappo appende 
e i nervi agita e stimola, le tarde linfe accende; 
è amor febbre e delirio, è amor peccato e Dio 
oblio lungo dell'anima, dolce e penoso oblio.

E' amore, Olga, il tuo petto, che anela avido e stanco, 
la tua bocca che brucia e non può dire: io  manco.

Così canta all'amata, e in sublime slancio poetico evoca le angeliche visioni di un tempo felice,  fantasmi fluttuanti nella glauca marina

E mi stava su gli occhi una figura 
bella siccome gli angioli che il Frate 
di Fiesole pingea........

le albe rosate, il molle idillio e gl'incantesimi del mare. Ma quelle visioni sono purtroppo larve passeggere e vacui miraggi quegl'incantesimi poichè la realtà presto si disvela... ed allora egli piange di amaro pianto, odio trova dove cercava amore, tutto è deserto intorno a lui e non gli rimane che il cuore della madre. Quel contrasto che aveva permeato la natura intima dell'artista ha così la sua più gagliarda espressione :

Oh,  meglio era morir, morir tra i veli 
candidi della culla, 
come  dicevi tu, sognando i cieli, 
morir, morir senza conoscer nulla.

Ma  allorchè  il  pensiero  della  donna  amata risveglia al poeta il più dolce dei sentimenti che per un momento gli dona l'oblio che tutto avvince, a lei, mostrando la sua mortal ferita che gli rode l'anima e lo tormenta, esclama

e,  se mancasse in me questa infinita 
fede nell'amor tuo,  credimi,  allora 
io,  come un cencio,  gitterei la vita.

Ed ancora :
"Rottami" sono riproduzioni di bellezze antiche e moderne, di certe delicate composizioni dell'Heine o di vcchie ballate straniere : se si sfogliano quelle dolci poesie sì sente a volte il profumo della musa carducciana che vi carezza l'anima come in « Ritorno » :

Ella è tornata e mi ha fatto tremare... 
Mi ha fatto orribilmente abbrividire.

Come in « Locomotiva » che ricorda l'« Inno a Satana » :

Ruggite, o folgori, venti ululate 
le immani ei svincola braccia ferrate 
e fischia;  e indomito di loco in loco, 
passa terribile signor del foco.

Altre volte vi scuote il fascino dell'arte stec-chettiana bella per la sua vivacità di ritmo e di espressione :

Giace il paese e dorme 
nella notte,   siccome 
un camposanto enorme.

Ma non è vuota imitazione, non è sterile riproduzione : il Poeta, invece, scompone ab imo la materia ed il crivello della sua anima la ricompone, la riplasma dandole l'impronta della propria personalità artistica si che la intonazione del verso rimane originale e le sue liriche vivono di vita propria e non riflessa.
La favola di Giurfredo Rudel e Melisenda di Trìpoli ne è magnifica prova. Il Carducci del racconto poetico heiniano aveva già fatto una mirabile riproduzione, il Milelli rimaneggiando, rifaceva, assimilando, ci presenta la scena tutta nuova di pensiero e di forma, di contenuto e di spirito si che al lettore curioso non potrà capitare di contestarne l'originalità della strofa.
D'altronde anche nelle sue imitazioni è sempre sincero e mette a nudo tutta quanta la sua anima d'artista.


.....   io giro
ape leggiera e instabile 
di loco in loco e aspiro 
i profumati balsami, 
onde natura è lieta, 
che mi cangia in poeta.

Ed aspirò ancora « le disperate melanconie del Senan, le bizzarre e mordaci ironie dell'Heine, le strane ed affascinanti fantasie del Poe, le ingenue preziosità del Drossinis, le festive spontanee lucentezze del Blemont, così semplici e così belle nella purezza sentimentale delle loro concezioni ».
A Maria (da Bikelas), l'Addormentata (da Poe) nel suo volumetto di traduzioni « Gemme sparse », e poi « il picciolo diamante » da Drossinis :

Talvolta un picciol pezzo di vetro
gittato  a caso  vien  su  la via;
del sole un tremolo raggio l'accende
e tutto il picciolo vetro risplende;
un bel diamante crede sia li
talun che il vede brillar  così.

Come una stella fulge il mi' amore 
e una fanciulla per tutti ell'è 
come tante altre; ma angel, ma fiore; 
angelo,  io splendere la veggio in me; 
per gli altri un picciol pezzo di vetro 
per  me  diamante degno di  Re!

Ma Domenico Milelli non si contenta delle imitazioni ma vuole dare all'arte il suo io, la sua personalità, vuole mostrare a vivo il suo temperamento che gli fa sprezzare la vita e lo fa inneggiare all'amore, gli dà slanci d'entusiasmo e schianti di uomo disfatto, accenti d'odio e trilli di gioia.
IL RITORNO AL CLASSICISMO
Nella nova Italia, intanto, l'ambiente si veniva allora gradatamente mutando e con la politica spuntavano le questioni sociali, risorgeva il materialismo mentre le scienze aveano nuove e più larghe applicazioni. Tale mutamento lo avevano avvertito artisti come Giovanni Prati ; già gli ultimi romantici contemplatori del mistero dell'esistenza apparivano malati. In conseguenza contro i deliri della scuola romantica sorse in  Italia un vigoroso movimento capeggiato da Giosuè Carducci, temperamento poetico, classico ed antiromantico che con la sua opera che doveva rispondere ad un ideale ben moderno, volle e seppe compiere la rivoluzione contro le idee e le forme che dominavano la vita e l'arte, la vita e l'arte di una società languida e molle.
E all'appello del nuovo poeta rispose serrando le file la gioventù italiana che già da alcuni anni lo ammirava e che sentiva ogni giorno crescere il suo entusiasmo  pel  Vate.
Naturalmente in tale movimento vivificatore delle lettere anche sul nostro Milelli gli scritti del Carducci dovevano avere sensibile influenza, e quando vennero pubblicate le « Odi Barbare », egli, fornito di cultura classica non comune che poteva essergli di buon viatico per salire alle altezze della gloria, al classicismo fece ritorno con le « Odi Pagane ».
« Incominciai così — dice il Poeta — per isva-gare l'animo triste ed annoiato, cacciandomi a rivivere un po' coi miei morti, co' miei cari morti, che io aveva appreso ad amare da giovinetto, e che mi          
pareva valesse la pena di ossequiare assai più che non certe burbanze e certe superbie di vivi   ...
« Ero nauseato ed uggito di tanta roba, cui 
una volgare frenesia di plauso aveva fatto e faceva 
largo...
E m'indispettiva la dissennata presunzione di molta gente la quale si arrogava il diritto e la vanteria gloriosa del più compassionevole disprezzo per quanto di veramente grande era stato prodotto tra noi, prima che i taumaturghi della così detta arte moderna si fossero assunta la poco disinteressata e niente difficile missione di bandire alle genti il verbo novello ...
 Ero  uggito e  nauseato ;   ecco  tutto ».
Lo vediamo così, seguendo il consiglio del Carducci, cercare Orazio e Anacreonte, Catullo ed Omero raccogliendo le versioni in « Verde antico » ove unica si rivela la forza dell'immaginazione insieme con la schiettezza della rappresentazione del pensiero dell'autore.
V'ha la solennità di Omero e la freschezza di Anacreonte, la mitezza di Virgilio, il sorriso scettico oraziano : con la molteplicità dei motivi non comuni insuperabilmente ritratta la bellezza della classica poesia.
Ecco un saggio della versione anacreontea :

Amore  un  giorno  un'ape 
non vide,  che dormìa 
fra le  rose,   onde   quella 
a un ditino il  feria.
Subito un grido  ei mise 
dalla  man   dolorando 
e a Citerea la bella 
ratto corse volando. 
Ahi! Ahi! madre, ch'io moro. 
Ahi! ch'io moro,  ei piangea, 
mi morse un picciol serpe 
che  ape il villan dicea. 
E lei : Se una puntura 
d'ape  fa  tanto  danno, 
quelle,   che dar tu suoli, 
o  Amor,   che   cosa  fanno?

E da Catullo :
Donna non è che possa amata esser tanto vantarsi 
Quanto davver tu amata da me, mia Lesbia, sei, 
Fede all'amore suo cotanto nissuno mai tenne 
Quanta,  per  la  mia parte,   io  ne ho  serbata  al  tuo. 
Or sento, e tu ne hai colpa, o Lesbia, travolta la mente 
A tal che di se stessa perde l'ufficio, ond'io 
Quel  che  chiederti debba  non  so;   nè se amarti ancor
[buono 
nè se odiarti, o insieme d'amore e d'odio morire.

In questo torno di tempo ha inizio la prodigiosa attività di Domenico Milelli che da Milano prima e poi da Bologna era venuto a Roma.                       
Era l'epoca del più vivido fulgore del Som-maruga che nell'81 si era recato nella Capitale per stabilirsi ed era il momento più fortunato dell'Abruzzo nell'arte: Michetti, Tosti, d'Annunzio: la pittura, la musica, la poesia. Essi — così racconta il Chiarini — si univano nei Saloni gialli del Capitan Fracassa (una sala di pochi metri quadrati), che raccoglievano spesso le più note celebrità contemporanee : Giovanni Prati, Pietro Costa, Paolo Ferrari, Giosuè Carducci, Olindo Guerrini, Enrico Panzacchi, Ferdinando Martini, Anton Giulio Barrili, Mario Rapisardi, Girolamo Rovetta,  Gabriele
d'Annunzio.
Il Sommaruga ben presto maturò il progetto di una combinazione col Capitan Fracassa per la fondazione di una grande Casa Editrice e, impadronitosi di quel cenacolo, prese in affitto il cantone di via Due Macelli, quel magazzino che poi dovea diventare la famosa redazione della Cronaca Bizantina. Nei nuovi Saloni gialli troneggiava Adele Mai che doveva essere, secondo « Gandolin », la Vittoria Colonna di quella Corte letteraria.
Domenico  Milelli  fece bella  parte di  questa Corte letteraria e  collaborò nella  Cronaca Bizantina distinguendosi ben presto con Edoardo Scar-foglio e con Gabriele d'Annunzio.
La Cronaca procedeva a vele gonfie ed il Som-maruga inondava il mercato librario di una quantità di libri di sua edizione, alcuni dei quali ottennero fortuna straordinaria. In quel periodo favorevole Sommaruga curò la pubblicazione del Canzoniere ed incitò il poeta a scrivere le « Rime » in risposta alle « Rime » della Contessa di Lara, che con entusiasmo era stata applaudita. Il Milelli si volle allora chiamare « Conte di Lara » e sotto tale pseudonimo leggiamo quei versi delicati che

Son di sogni  diafani 
stanche larve.....
Son di ebrezze e di spasimi 
fatue   vampe   fuggenti
Son di gioie e di lacrime 
ombre e  memorie  vane
...........
Sono i  cori di  un'orrida tragedia 
che tu, bugiarda, ricordasti al mondo

Tu, bugiarda — grida il Poeta — e l'invettiva acre ferisce in pieno l'orgoglio d'una donna che con la sua posa e la sua venustà irresistibile, aveva intessuto il poema d'un amore colpevole a dispetto del marito tradito.
Ma l'avidità del guadagno momentaneo e la smania di réclame ben presto segnarono il tramonto del Sommaruga e col Sommaruga tramontava la fortuna del poeta. Ed allora incomincia la triste o-dissea : da Roma ad Alcamo in Sicilia e da Alcamo a S. Severino delle Marche come un antico rap-soda : una ombra leggera di scetticismo la avvolge ma l'arte — soave lampa — splende sempre, lo attrae col nuovo incanto, si che in nobile slancio offrendole ogni suo intimo dolore prorompe in un grido :

Son tuo,  son tuo,  possente 
Maliarda divina, 
Resti tu  sola  quando 
Ogni altro Iddio rovina.

LA PERSONALITÀ ARTISTICA DEL POETA. L'ANIMA DEL POETA. IL SUO CAPOLAVORO.
Sullo squallido ghiaccio di Weroén, nella regione polare, mentre stride il nembo tra le vampe del crepuscolo sanguigno, su quella glauca corazza di cristallo senza un fil d'erba o fiore, Kokodè — fatal mistura di selvaggio e di romito — solo, attendendo ormai l' ultimo suo giorno, guarda cogli occhi sbarrati il mare che freme.
Nessun segno di vita, solo il mugolio del mare, l'ululo eterno del vento che avvolge l'onda che s'innalza e poi stride e si frange schiumando, e poi ribolle su sè stessa fremebonda nel gorgo che spalanca : L'orrore degli antri, lo scintillio argenteo del ghiaccio, il biancor spento della luna, tutta la scena selvaggia d'un paesagio boreale.
E Kokodè impersona tutta la freddezza di questi luoghi che tanto ama mentre la sua figura si stacca man mano da questo sfondo poetico desolante per balzar viva e piena di freschezza quando gli avvampano l'anima i ricordi di bei sogni svaniti.
E il solitario, nella notte, scrive, scrive, scrive le sue memorie ed una leggera aura di dolcezza in contrasto col freddo soffio dello sfondo boreale carezza il racconto di quelle soavi memorie ! E canta il jonio fiammeggiante di topazi e di brillanti che cinge la patria sua, il Jonio sulla cui distesa azzurra un dì ebbe ampio il volo la sua fantasia, e canta il vecchio ulivo che su la materna rupe scuote i rami sotto l'impeto del vento e ripete la sua lunga istoria che è la storia di Sibari, la città dell'amore e dei conviti, come narran gli autori delle vecchie favole greche, e scioglie in ultimo un inno alla sua Calabria dai clivi e rivi diffusi di smeraldo. Poi ricorda il padre la cui ferrea tempra mai fiaccò la notte oscura che la vita intorno avvolge, il padre che tanto amò e venerò, rammenta i verdi anni in cui per la prima volta si schiuse alla dolce poesia : il suo primo spasimo ...

..... chi dentro all'anima 
questo spasimo mi ipose? 
perchè irido  e  in  cor  mi  piange 
il dolor dell'allegrezza? 
perchè piango e in cor mi ride 
l'allegria della tristezza? 
Chi  di voi  codesto  enigma 
può  spiegarmi  in  cortesia? E le genti — è questo il fiore 
della dolce  poesia.

Ma la tempesta s'abbatte, e schianta ben presto i dolci sogni del poeta ; alla dolcezza del canto della giovinezza si contrappongono i singhiozzi, le lacrime amare della catastrofe che bussa prepotente e spietata alle porte della sua casa : muore il padre, e, come le foglie, il fato terribile stacca dal tetto natio Lidia, cui l'implacata tosse aveva infranto il giovane petto e poi Lelio ghermito alla madre in sì giovane etade e poi Lina, « ultima aurora di pace », e a tanto strazio la madre come pazza scoppia nella tragica interrogazione :

Dio,   s'è  ver  che  tu  ci  sei, 
Dio,   perchè   questo  supplizio? 
Che ti han fatto i figli miei?

sublime impeto di umano dolore che come un ruggito erompe dall'anima sconvolta e sanguinante... Ricordiamo __

Nè le lacrime a' materni 
occhi  espresse dagli  affanni, 
nè i dì nudi ad uno ad uno 
noverati   in   sedici   anni

rallentar della maligna 
sorte gli odii un'ora sola, 
colpa  il  pianto   in   sulle   ciglia 
e  sul labbro  la  parola.

Quante volte,  al poveretto 
gramo desco il pan mancando, 
scarso un obolo ci corse 
per   le  vie  limosinando :

Quante volte irrigidito 
dal fatal verno inclemente 
alle  lacere  si   chiese 
coltri il sonno  inutilmente,
mentre   tu,   madre,   tremando 
della vita de' tuoi figli 
t'affannavi  a  consolarli 
di amorevoil consigli.

---------------

Alle fosse avide intanto 
spalancate   in   cimitero 
preparava il pasto infame 
il  bisogno   orrido e nero;

e  di Lidia macerando 
pria le fibre delicate 
alla triste  iliade  schiuse 
le   miserrime   giornate.

Su quel volto a poco a poco 
come più si fea nel core 
vivo il senso della vita 
si  effondea letal pallore.

Della  luce  azzurra  il raggio 
nei sereni occhi languìa 
il sospiro era un lamento, 
il sorriso un'elegìa.

Triste larva,   ella passava 
come  nebula d'incenso 
della sua dolente casa 
pel deserto arido,  immenso;

finchè  un dì,   dalla  implacata 
tosse infranto il giovin petto 
le sue diè, povera martire, 
membra bianche al cataletto.

E la madre come pazza : 
— Dio s'è ver che tu ci sei, 
Dio perchè  questo  supplizio? 
Che  ti han  fatto i figli  miei?

E, qual ramo a giovin faggio, 
dalla grandine  strappato, 
l'esil  corpo dalle pustole 
del vaiuolo difformato,

dall'attigua,  invan pregando, 
sua  stanzetta,   intanto  aita, 
Lelio il fior vedea perire 
della sua giovine vita.

— Oh! levatemi da  questo 
di  carboni orrido letto, 
piombo fuso ho nelle vene, 
ho l'inferno entro nel petto,

per  pietà da  questinc'endio
che mi brucia e mi divora
chi  mi  salva?   O  madre,   aiutami,
per  pietà non  far  ch'io  mora!  —

E il funesto estremo  rantolo 
afferrandolo alla gola, 
gli togliea tra le sue spire 
rabbiose  la  parola.

Così giacque e gli luceva 
nella immobile pupilla
 come gocciola gelata 
del dolor l'ultima stilla.
*
*    *
E soffiando umido il vento 
dell'autunno le penose 
grigie nebbie dell'ottobre 
avvolgea tutte le  cose.

E te pur,  chiusa ne'  loro 
scuri e tetri abbracciamenti 
te,  di pace ultima aurora 
tolser, Lina, a' tuoi parenti.

Fur trent'ore di martirio 
per te lunghe interminate; 
trenta secoli d' anelito 
per quell'anime affannate.
Finchè — madre,  ahimè! — dicesti:
—   Muoio !  —  e  tacque  la tua voce 
strangolata  dal   difterico
uccisor spasimo  atroce.

E la madre il macro e lìvido 
corpicin forte abbracciando, 
nei tuoi  spenti  occhi i suoi  freddi 
impietrati occhi fissando :
—  Tu  —  gridò :   —  Morta  tu   pure, 
Lina,  o santo angelo mio;
Ah! Tu sei padre d'infamia, 
non d'amor,  perfido Dio! —
(Bare, da Kokodè).

Ma finalmente l'alba spunta « la rosea desiata alba dei forti » e ritorna con essa quella dolcezza a carezzare il canto del poeta : insuperabile virtù di contrasto che anima il temperamento artistico del Milelli che con travolgente forza suggestiva passa dal dolore alla gioia, dall'estasi allo schianto, dalla maledizione alla vita all' inno all' amore, dal sorriso del vincitore al truce sguardo del disfatto. Ritorna così il dolore e l'anima ricomincia a sanguinare : epilogo d'una lotta interiore che travaglia l'artista, lotta senza tregua tra una realtà fitta di sventure e la forza smagliante degli ideali che lo spirito umano sublimano : sublime travaglio spirituale finchè quegli ideali lo avvolgono in una fiammata di entusiasmo e nella Trilogia ch'io chiamo a contenuto sociale, (Prometeo - Laocoonte -Ercole) hanno la più alta e bella affermazione.
IL PATRIOTTISMO DEL POETA.
Prometeo è incateanto alla rupe scitica delle ingiustizie sociali, e l'avvoltoio della società gli rode il fegato : sola speranza tra i dolori di quel più antico dei martiri dell'idealità umana ; il canto delle Oceanidi. Non è il Prometeo della tragedia eschilea, simbolo della lotta fra la ricerca umana della verità e della scienza contro la somma potenza del nume offeso e neppure è il Prometeo dello Schelley che in esso impersonò l'ideale supremo dell'uomo, ma è il simbolo della resurrezione delle plebi contro l'oppressione dei privilegiati, resurrezione che trionfa nella fratellanza umana della terza parte della Trilogia.
Tali ideali sociali, però, non scoloriscono affatto nel Milelli l'amore che egli tributava immenso per la Patria e, quando l'aspirazione di un'Italia infiammò i giovani petti, egli combattè con Garibaldi al Volturno dando magnifica prova di grande attaccamento verso di essa. « In giovinezza è tutto un fremito di romanticismo patriottico come essenzialmente romantico fu il nostro Risorgimento :

Viva! — egli grida — omai dall'Alpe al mare 
Leva Italia un sol vessillo; 
Viva!  i  tempi  ormai ritornano
di Duilio e di Camillo.

Pertanto quei concetti sociali dovettero formarsi nel Milelli proprio quando, realizzato il sogno dell'unità nazionale, si fece strada in Italia un vigoroso movimento di riscossa contro viete costruzioni d'una classe privilegiata che con la rivoluzione francese aveva perduto il dominio politico, movimento di intellettuali cui certo il poeta bohémien, il romantico non potea non partecipare.
Così tale suo atteggiamento spirituale ha la spontanea e sincera spiegazione.
E pur sbattuto incessantemente dalla bufera di loco in loco, il Poeta sempre in core sigillato conserva col ricordo della patria il ricordo della sua terra natale :

Io t'ebbi sempre in core e tu del mio 
lavoro, onde levarmi alto tentai, 
non di conforto un picciol segno, un pio 
segno d'affetto non avesti mai.

E volser gli anni. E poi ch'oltre il desìo 
qualche cima dell'arte anch'io toccai, 
che dissipasse di sì triste oblio 
la nebbia un raggio solo invan sperai.

Forse legge dei fati. Eppur se alcuna 
lode concederanno i dì venturi 
al mio nome, vincendo la brutale
gara degli odii, io pago di quell'uno 
sarò,  che almeno a' miei figli assecuri 
l'amore della mia città natale.
(Al mio  paese)

E  ancora in   « Notte umbra » :
Del mio Jonio io non so, del mio bel sole
Io non la so scordar la poesia.....
Affascinante Poeta che dei romantici aveva le qualità migliori : l'abbondanza sentita, la melodia colorita, l'abbandono al fantasticar melanconico, tutto amore e gentilezza!
ALTRE OPERE MINORI.
ÌL SENTIMENTO DEL POETA.
IL SUO NAUFRAGIO.
Rifugiatosi nella bellezza della Conca d'oro dopo un pellegrinaggio senza posa, astretto dalla necessità imperiosa, volle raccogliere molte poesie inedite in un volume: « Nell'isola », che poi non potè vedere la luce perchè pazzescamente stampato da un editore siciliano al quale dovette vietare la pubblicazione, in quel torno di tempo abbozzò l'« Ercole », l'ultima parte della Trilogia e raccolse sotto il titolo : Le Cristiane » alcune poesie che rappresentavano il ritorno del Poeta all'antica fede religiosa.
Ma il bisogno lo assillava, lo spettro della miseria batteva tristemente alle sue porte ed in alcimi momenti di terribile sconforto egli aveva accenti di commozione straordinaria :

A me. intorno il deserto, a me davanti 
l'ombra e la morte, esco il retaggio mio, 
e chiuse dentro al cor, fiere, incessanti, 
due voglie,  anzi due furie : ira ed oblio.

Ed ancora :
Dentro le tempie il vuoto,  entro le ansanti 
vene la febbre ed il delirio,  ond'io 
oltre posar non so gli spirti erranti 
che del nulla nel gelido desio
E l'invoco e l'affretto..

Non aveva amato la natura, la Patria, la sua terra natale, la sua famiglia di cui parlava con le lagrime agli occhi? Ed allora perchè tanto soffrire?
Non aveva sì caldo affetto pei figli che finisce col dire :

..... dacchè Guido m'ama
ed Ugo mi sorride e mi accarezza
mi par bella la vita e dolce il mondo?
Non aveva oviunque cuore e gentilezza? Ma a che gli valsero? A che gli valse l'ingegno?
Di parecchi poeti suoi contemporanei che hanno avuto il vento in poppa, più arrisi dalla fortuna egli è certamente superiore e e perciò io credo che il tempo farà a Domenico Milelli giustizia riconoscendo i meriti non comuni che egli ebbe, dopo lo sprezzo che i contemporanei gli gettarono addosso e dopo l'oblìo cui dai contemporanei fu condannato. Le sue poesie non furono, come oggi si usa, declamate nelle sale e nei teatri, ne ebbero quella sapiente reclame che oggi sanno fare i poeti alla merce loro, ecco perchè non vinsero tutte le resi-stense per farsi leggere ed ammirare lungamente.
Fatalmente doveva naufragare e naufragò.
La paralisi che già lo aveva colpito gli dette, sul tramonto del -905, il colpo di grazia : la parola gli morì sulle labbra, e la dolcezza dei suoi carmi coi quali lui, meraviglioso dicitore, avea ottenuto in altri tempi umanimità e deliri di applausi si smorzò fulmineamente nelle tenebre del sogno che non ha più risvegli !...
Pochi, e la più parte giovani, accompagnarono il feretro al Cimitero ove gli stessi giovani che tanto lo amarono, sparsero fronde d'alloro sulla nuda tomba del Poeta.
Ed è tutta un'immensa poesia intorno al cippo che tra le croci di quel Camposanto distingue le ossa dello sfortunato cantore ...
E Palermo soffusa di splendore, in eterna primavera smagliante di luce, olezzante di fiori, gli canta nella bellezza della Conca d'oro l'immortale elegia.
FINE - 1932.



Mori a Palermo nella notte tra il 22 e 23 Dicembre del 1905, "povero come era sempre vissuto, realizzandosi quasi con fedeltà sconcertante ciò che lo stesso Milelli aveva poeticamente sognato in gioventù":
Povero e vagabondo anch 'io vorrei
di terra in terra errar di gente in gente,
Nè mi dorria se avessi i giorni miei
a consumar piangendo assiduamente.
Vorrei provar l'angoscia e l'irrequieta
febbre, o Torquato, che struggeati il cor..



Fotografia
Domenico Milelli
1911
s.m.napolitana
F.P. Frontini
Il tuo ritratto
Domenico Milelli
1911
Carisch
F.P. Frontini
Inno all'italia delle colonie
Domenico Milelli
1902
Carisch
F.P. Frontini
Luna che spunti
Domenico Milelli
1904
Venturini
F.P. Frontini


















domenica 5 febbraio 2012

Giacomo Sacchero, chi era costui? (Catania, 1813 – 1875)

Giacomo Sacchéro (Catania14 gennaio 1813 – Catania16 settembre 1875) è stato un librettistapoeta e botanico italiano.

AI LETTORI
Ho scritto questi miei versi in differenti condizioni della vita, come veniano dall'anima; o per dir meglio, secondo che il cuore o il pensiero ricevean moto o calore dalle memorie dalle contemplazioni e dalle fantasie meste o gioconde— aborrendo sempre dalla tormentosa ipocrisia dei sistemi. G. S.

(collezione Frontini, 1844)
FANTASIE LIRICHE
Delle memorie il languido
Bacio mi resta..............
                               Tommaseo
Un Pellegrino
La più bella tra le rose 
Ne' miei campi un di fioria ; 
Nelle note armoniose 
L'usignuol per lei languia. 
Ben per essa ad un sorriso 
Schiusi il core in gioventù ; 
Or quel fior di paradiso 
Sullo stel non sorge più.

Dentro gli umili imareti,
Tra'palmizii, al Fiume-d'oro, 
Nelle reggie dei profeti, 
Corsi in cerca al mio tesoro. 
Finalmente io ritrovai 
Quell'amor che mio già fu; 
Ma dormia — nè lo svegliai 
Perchè il ciel non volle più.

Pei giardin del Suristano 
Presso a'talami di fiori 
M'aggirai sperando invano 
D'obliar gli antichi amori; 
Ma quell'aura di diletto 
Non avea per me virtù ; 
Tutto assorto in quell'affetto 
Piansi lei che non è più.

Gli anni giovani ho passato 
Sotto i chioschi di cristallo, 
Le odalische ho visitato 
Tra le conche di corallo ; 
Ma scontento questo core 
D'ogni gioia di quaggiù, 
Pensa sempre al primo amore 
Che veder non può mai più.
*****
Marinaresca (Il Gondoliere)





******

Mattinata 

Sorgi, o il più bel degli angeli,
Lascia il guacial di fiori;
Già spiran dolci l'aure,
E l'alba i freschi umori
Stilla dall'aureo crin;
E sorridente e bella
Rallegra il ciel la stella...
Foriera del mattin.

Sorgi: vestito è l'aere
Di limpido zaffiro,
Simile a quel che splendere
Negli occhi tuoi rimiro,
Fanciulla mia fedel ;
E alla sua amica accanto
Scioglie d'amore il canto
L'armonioso augel.

Sotto i romiti salici
D'ombra ospital cortesi,
D'ove d'amor le timide
Tue prime voci intesi,
Vieni mio dolce amor;
E dai soavi incensi
Rapiti ancora i sensi
Ti volerò sul cor.

Ma non tardar-l'indugio 
Or m'è più reo che mai;
Tre lunghe notti io vedovo
Son dei tuoi baci, il sai
Nè ha tanta il cor virtù.
Vieni; abbracciarti io spero
Unico mio pensiero,
Per non lasciarti più !
ROMANZE



Il Masnadiero
Giovinetto, nei giorni felici
Ebbi anch'io fidi amici e fratelli;
Ma i fratelli, ma i reprobi amici
Mi lasciàro al lasciarmi di quelli:
E fratello ed amico leal
Mi rimase l'acuto pugnal.


Ebbi un padre — e la scure cadente
Pose fine a sua vita infamata ;
Una madre — ed è morta demente;
Un'amica—e me l'hanno involata...
Ahi! nel gaudio il superbo rival
Non temè quest'acuto pugnal.

In quell'ira un'orrenda vendetta,
Bestemmiando, giurai nel Signore.
Scorse un lustro — e in quell'anima abietta
Disbramai l' implacato furore :
E fumante del sangue rival


Solo e muto per monti e per grotte
Vo ramingo nel capo dannato;
Pur su'sterpi nell'umida notte
Dormo un sonno tranquillo e pacato,
Perchè sotto al mio rude guancial
Sta riposto l'acuto pugnal!
Volsi al cielo l'acuto pugnal.




*****
Caro Frontini,
Ho gustato e ammirato le vostre squisite romanze; bellissima la « Marinaresca ». Me la son fatta ripetere non so quante volte e ne sono commosso, e me la vado rimormorando nell' anima come un soave ricordo della giovinezza lontana. Lasciate che io vi abbracci e vi baci, mio caro, e mi dolga della fortuna che non v' ha dato ancora quei sorrisi che commuovono il mondo e consacrano la virtù. Mario Rapisardi

Biografia - Scritta per wikipedia



L'attività del Sacchèro si divide in due periodi, il primo dedicato alla letteratura e alla poesia, il secondo alle scienze con applicazione all'agricoltura.
Avviato alla carriera commerciale, nel 1835 si trova a Trieste, qui si dedicò agli studi letterari, verso i quali si sentiva attratto, stringendo relazione, a Venezia, con uomini eminenti. Scrisse da prima nei giornali; quindi seguendo l'impulso tentò la prova dei componimenti poetici. Negli anni 40 si trova a Milano, centro importantissimo della cultura italiana. "Scrisse non meno di 30 libretti d'opera, che furono tenuti in gran pregio, sia per la spontaneità del verso, sia per la rivelazione degli affetti, sia ancora per la forma, poiché uno fra i tanti meriti di quei suoi componimenti, fu quello di essersi cominciato a staccare dal così detto convenzionalismo, per quanto lo comportassero le ragioni artistiche dei tempi; sicché da taluno fu detto che molti dei libretti di lui, parevano scritti 20 anni dopo. La maggior parte di essi, dettati pel Teatro della Scala, per la Fenice di Venezia, pel Carlo Felice di Genova ebbero l'onore di venir musicati da Donizetti, dal Ricci, dal Pacini e da altri rinomati maestri" (G. Leonardi). Dopo il 48 è costretto all'esilio a Parigi, dove si appassionò degli studii botanici. Quando cadde il regime borbonico fu eletto deputato del nuovo Regno d’Italia, ma rassegnò il mandato di lì a poco. Continuò in politica, facendo parte della giunta comunale di Catania presieduta dal Cav. Antonino Alonzo. Morirà a Catania il 16 settembre 1875, all'età di 62 anni, in Via Garibaldi 154. Per i suoi meriti, i Savoia lo insignirono dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro(9 giugno 1861).                                                
« A GIACOMO SACCHERO anima gentile di poeta e di cittadino,
che gli ozii dolorosi dell'esilio decenne consolò con lo studio dei fiori
e con i fiori della. poesia,
la patria non immemore
pone questo ricordo. »
(Mario Rapisardi - Poemetti-Iscrizioni(1885))

Libretti d'opera 

  • Galeotto Manfredi, o Manfredi re delle due Sicilie, musica di Natale Perelli (Pavia, T. Re, 1839);
  • La Cantante per Gualtiero Sanelli (Milano, T. Re, 1841);
  • Corrado d'Altamura (Milano, Scala, 1841) e Vallombra (ivi, ivi, 1842) entrambi per Federico Ricci


  • Odalisa (Milano, Scala, 1842) 

  • Margherita di York (Venezia, Fenice, 1841)  per Alessandro Nini;

  • Caterina Cornaro p. Gaetano Donizetti (Napoli, S. Carlo, 1844);

  • L'ebrea p. Giov. Pacini (Milano, Scala, 1844) L;
  • I Luna ed i Pedrollo p. Pasquale Bona (ivi, ivi, 1844);

  • I Burgravi p. M. Salvi (ivi, ivi, 1845);

  • I Baccanti p. Uranio Fontana (ivi, Carcano, 1847)
  • Il profeta velato, dr., 4 parti, musica di Ruggero Manna (Trieste, Tr. Grande, autunno 1846)
  • Ariele, melo-dr., 3 atti, mus. Alberto Leoni (Milano, Tr. Filodrammatici, estate 1855)
  • Clarissa Harlowe p. Nat. Perelli (Vienna, Tr. Di Corte, 1858).

Poesie 

  • Fantasie liriche e Romanze, ed. Tipografia del Real Ospizio - Catania, 1844

Romanze 

(parziale)
  • Mattinata - melodia in sol - ed. F. Lucca
  • Marinaresca - ed. G. Perrone 

Bibliografia 

  • Giacomo Sacchero, un librettista Catanese alla Scala di Milano - di Giovanni Pasqualino - ed. Bastogi 2009
  • G. Leonardi, Elogio Accademico di Giacomo Sacchèro, nella seduta straordinaria dell'Accademia Gioenia il 16 luglio 1882, in "Atti dell'Accademia Gioenia di Scienze Naturali in Catania", Serie Terza - Tomo XVI, Tipografia di C. Galatola nel R. Ospizio di Beneficenza, Catania, 1882.
  • C. Schmidl, Dizionario Universale dei Musicisti, 2 voll. (Milano, 1887-89; 2a edizione, ivi, 1926-29; suppl, ivi, 1938; 3a edizione in 3 voli., Milano, 1938, vi. 2., pag. 445).