Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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domenica 20 aprile 2014

Tommaso Cannizzaro e Mario Rapisardi, i poeti amici.

Luigi Vita, valente direttore della rivista messinese Battaglia Letteraria, così scriveva, nel vano tentativo di rivendicare l'alto valore del poeta e letterato peloritano Tommaso Cannizzaro, deplorando il poco onore che in genere gli si rende dalla sua stessa città natale: Cannizzaro dovrebbe essere letto, studiato, ammirato assai più, non solamente dai suoi conterranei messinesi, ma da tutti i siciliani.
 
Giustamente il Vita sottolinea che Tommaso Cannizzaro fu onorato di stima e di amicizia da scrittori quali Victor Hugo, Carducci, Mario Rapisardi, G. A. Cesareo, Giovanni Pascoli, Luigi Capuana, Arturo Graf ed altri simili: il riconoscimento da parte dei Grandi è sempre quello che uno scrittore più ambisce e che largamente lo compensa della incomprensione dei superficiali e degli indotti e dei lettori frettolosi.
Opportuno è ripubblicare, qui, un magnifico sonetto che M. Rapisardi scrisse per l'amico T. Cannizzaro e che si legge tra le Foglie sparse, edizione Sandron.

A TOMMASO CANNIZZARO
Tommaso, invan dove la pugna ferve 
Richiami il tuo commiliton canuto, 
Che, libero fra tante anime serve, 
Per l'onore dell'arte ha combattuto.

Ben ei freme al pensier che di proterve 
Menti uno stuol di vanità pasciuto 
D'ogni pura bellezza ha il fior polluto, 
E alle turpi sue voglie Italia asserve.

Ferito al petto, in solitario loco,
Il sangue ultimo ei perde, e ala sua vista
Discolorasi il mondo a poco a poco.

Ma troppo del suo danno ei non si attrista, 
Se l'idea, che il temprò dentro al suo foco, 
Per opra tua novo splendore acquista.

Versi del Cannizzaro scritti per il Rapisardi , sono quelli che il poeta messinese pubblicò nella rivista catanese Istituto di Scienze lettere e arti del 30 Gennaio 1899 e intitolati A Mario Rapisardi, in occasione delle onoranze a Lui: in occasione, cioè, delle onoranze che Catania tributò al suo grande Poeta, allora poco più che cinquantenne, col plauso degli uomini più insigni d'Europa; onoranze di cui segno più duraturo rimase il busto bronzeo del Rapisardi nel giardino Bellini, opera dello scultore Benedetto Civiletti. In questi versi, il Cannizzaro esortava il festeggiato Cantore di Giobbe e di Lucifero a non badare al cavallo della gloria che nitriva alla sua porta, e gli faceva notare che i massimi poeti — l'Alighieri non escluso — non ebbero riconoscimenti e festeggiamenti, ma persecuzioni, incomprensioni, livori, povertà, esilio e che il poeta deve essere « odiato dai contemporanei e dimenticato dai posteri» (anche dai posteri?). Ma vediamo i versi di Cannizzaro:
« Del tuo quieto ostello a le severe porte
il cavai de la gloria odi, o Mario, nitrir,
esso ti attende, e — inforcami, — grida superbo e forte
—  del canto altero Sir. 
Io ti trarrò per selve di lauri maestosi 
dove i venturi secoli un peana a inalzar
verranno su la fulgida urna dei tuoi riposi
—  Mario, non l'ascoltar! 
Volgigli il tergo e lascia ch'ei corra ove più voglia 
dove la vana sete di fama il porterà:
a lui tu nega il varco della modesta soglia dove la Musa sta ... »
Evidentemente Cannizzaro esagerava: Rapisardi non fu mai avido di lodi e di onori: « Poco il biasimo e men la lode apprezzo » scrisse nell'epistola poetica ad Andrea Maffei, nel mandargli una copia del Lucifero. E in una delle Poesie religiose, dedicata a Felice Cavallotti, scrisse di sé:

« Io, che tutta donai la mente al Vero,
Né più mi tocca il cuor biasimo o lode ... ».

Ma che egli dovesse mostrarsi sordo e indifferente al cavallo della gloria, che finalmente nitriva alla sua porta, era troppo.
Rapisardi, rispondendo ai versi e ad una lettera del Cannizzaro, per ciò così gli scriveva nel febbraio del 1899:
« Il cavallo della gloria ha dunque nitrito alla mia porta, ed io, dovevo secondo te cacciarlo via a suon di pedate? Oh, perché, amico mio? Io credo aver fatto qualcosa di più gentile.
Mi sono affacciato allo sportello, in mutande e berretto da notte, e ho detto: Pegaso mio, io ti sono grato del cortese invito; ma, credimi, io non ho più voglia di inforcare le tue groppe e di caracollare per le regioni fragorose della gloria.
Certo non mi vergogno di averti un giorno desiderato (oh, perché dovrei vergognarmene, se i più nobili e fieri spiriti, non esclusi l'Alighieri e l'Alfieri, ti hanno ardentemente desiderato?); ma ora, credi, ho altro per la testa; e il mio vecchio cuore, a parte gli acciacchi e i disinganni dell'età, non ha palpito alcuno per tutto ciò che non si riferisce alla giustizia e alla pace degli uomini ». Coerentemente con questa affermazione, più tardi, nel maggio del 1906, in prefazione all'edizione Nerbini del suo Lucifero, scriveva di sé che « vicino ormai a dissolversi nell'infinito, nel fluttuare di tante idee, nel tramonto di tanti idoli, nella furia fragorosa di sì strane correnti artistiche e letterarie, egli rimaneva fermo in quei princìpi che aveva finalmente riconosciuti per veri, aspirava l'aura dei nuovi tempi, s'inebriava al sentore delle nuove battaglie, ringiovaniva alla certezza del trionfo della Giustizia e della Libertà ».
Chiudendo la lettera suddetta al Cannizzaro, il Rapisardi incalzava: « Mi parli di una gloria fatta di oblio ... dici che del poeta ha da essere obliato persino il nome, salvo poi a lasciar l'ufficio di ripeterne il canto alle foreste, al cielo e al mare. Mio caro amico, te lo confesso: codesti a me paiono indovinelli.
E tali, credo, li avrebbe stimati anche il povero Antero, che, nonostante il suo ascetismo, forniva gentilmente le proprie notizie biografiche ai suoi traduttori e credeva che l'essere onorato e stimato dai contemporanei era pure qualcosa ».
La chiusa della lettera accenna ad Antero de Quental, poeta portoghese, di cui il Cannizzaro, conoscitore sicuro di lingue moderne, tradusse in italiano i sonetti.
La lettera è a pag. 343-44 dell'Epistolario del Rapisardi edizione 1922 dell'editore Niccolò Giannotta di Catania, curata dal Dottor Alfio Toma-selli, il quale, dopo la morte del Poeta etneo, sposò la di lui amica e ispiratrice Amelia Sabernich Poniatowski.
Coerente con questo suo modo strano di concepire l'attività del poeta, il Cannizzaro pubblicava le proprie opere senza nome, o con pseudonimi: « Versi francesi di un anonimo »,« Le quartine di Umar Chayyàm recate in italiano dal traduttore dei sonetti Camoése di Anthero de Quental ». Ragion per cui il De Amicis, scrivendogli, lo invocava: « Gentilissimo Innominato ». E motto abituale del Cannizzaro era: « Nascondi la tua vita, diffondi le tue opere ». Qualcosa di simile pensava il Cesareo quando diceva, a noi suoi scolari nell'Ateneo di Palermo, che quello che resta di un poeta è la sua poesia; la quale, mentre è la sua gloria, è anche la sua giustificazione ».



Morto il Rapisardi, nel gennaio del 1912, il Cannizzaro non mancò di scriverne e notò, tra l'altro, che « Mario Rapisardi visse solitario come un eremita e morì come un filosofo antico, i cui ammaestramenti ci restano quale eredità preziosa che maturerà i suoi frutti nelle generazioni future ».

Ma scrivendo del poco onore in cui il Cannizzaro è tenuto dai messinesi, e dai siciliani in genere, non si può tacere il nome illustre di un altro poeta e letterato messinese cui sembra inflitta una simile incomprensione:   Giovanni Alfredo Cesareo.
Forte e fecondo poeta, che ha pagine degne del Foscolo, e critico saggista paragonabile al De Sanctis, egli è tuttora sottovalutato in Sicilia e in Italia. E non mi risulta che la sua Messina gli abbia eretto un busto; né glielo ha eretto Palermo, dove fu a lungo maestro insigne di Letteratura Italiana.

Per il Cesareo, come per il Cannizzaro e per il Rapisardi e per G. A. Costanzo si aspetta ancora la critica serena e chiaroveggente che assegni loro il posto preciso, cui hanno diritto, nella storia della letteratura moderna.

Bibbliografia
*Articolo apparso in rivista « Battaglia letteraria » di Messina, Gennaio-Febbraio 1967 e in rivista « Palaestra » di Maddaloni (Caserta), Luglio-Settembre 1967.
* Saggi e discorsi di Ignazio Calandrino.

martedì 17 aprile 2012

Antonio Ghislanzoni, l'intollerante scapigliato. 1824/1893

Antonio Ghislanzoni (Lecco25 novembre 1824 – Caprino Bergamasco16 luglio 1893) è stato un librettistapoeta e scrittore italiano. Il suo nome è legato soprattutto al libretto dell'Aida di Giuseppe Verdi, col quale collaborò anche alle revisioni della Forza del destino e di Don Carlos.


Il Canto di Mignon

Vedeste mai quel paese gentil
Che il sol riveste di tanto splendor;
Il bel paese ove eterno è l'april,
Eterno il riso degli astri e dei fior ?

Ivi ogni murmure d'acqua o di vento
D'arpe celesti somiglia un concerto;
Ivi ogni nota d'umana favella
Somiglia un canto, un sospiro d'amor..

Di quel mio vagheggiato Eden natio
Ho qui nel core un vago sovvenir...
Lo veggo in sogno, e là tornar vogl'io,
Là voglio amare, e piangere, e morir.
                                                                                          
 Musica di Francesco P. Frontini ,1898

*****

Nasce a Lecco il 25 novembre 1824. All'età di dieci anni, il padre, medico e direttore dell'ospedale della città, lo fa entrare in seminario per seguire gli studi ginnasiali. La ferrea disciplina dell'istituto è però poco tollerata dal carattere insofferente del piccolo Ghislanzoni, che, diciassettenne, verrà espulso per il comportamento irriverente: l'anticlericalismo rimarrà una costante della sua ideologia.
Terminato il liceo a Pavia e iscrittosi a Medicina, presto si delineerà per lui una diversa carriera: prima cantante (baritono) e poi scrittore. Quella della scrittura, in realtà, sarà la sua vera attività. Dopo la Seconda guerra di indipendenza (1859) si lega a Milano al gruppo scapigliato. È giornalista assiduo: nel '59 dirige per alcuni mesi «L'uomo di pietra»; nel '62-63 dà vita al «Figaro»; nel '65 fonda la «Rivista Minima» (che, dopo una lunga interruzione tra il '66 e il 71, dirigerà fino al 1875); nel '77 fonda il «Giornale capriccio» (che chiuderà per problemi economici due anni dopo); per non parlare delle collaborazioni alle numerose testate che ospitano suoi romanzi a puntate, racconti, recensioni, interventi di varia natura. Ma non manca l'attività creativa vera e propria: narrativa e poesia. Tra le sue opere di narrativa segnaliamo: Suicidio a fior d'acqua (1864), Le donne brutte (1867), La contessa di Karolystria (X883),Abrakadabra (1884), Racconti e novelle (1884).
Per la poesia ricordiamo Libro proibito (1878), cui arrise un notevole successo di pubblico, tanto che nel 1890 giungerà alla settima edizione. Non vanno dimenticati, infine, i libretti d'opera: Ghislanzoni ne scrisse circa ottanta, tra cui quello dell'Aida verdiana. Un anno dopo la scomparsa della moglie, Maria Bosisio (sposata nel 1859 e da alcuni anni affetta da una grave malattia mentale), morirà anche Antonio Ghislanzoni: a Caprino Bergamasco, il 16 luglio 1893.(Roberto Carnero)

« Dicendo mal di tutti, il vero espressi / Lassù nel mondo; se parlar potessi, / Pietoso passeggier, ora direi / Ogni bene di te, ma.... mentirei. »  
(Antonio Ghislanzoni, Il mio epitaffio)

I suoi epigrammi possono, contribuire a documentare la temperie culturale, sociale e politica del tempo. «I versi del Libro proibito», scrive Gilberto Finzi (1997:165), «riprendono un'atmosfera polemica d'epoca che non tocca, forse nemmeno sfiora, la poesia, ma che bene riconducono a momenti collaterali tipici della Scapigliatura».
In tal senso l'opera di Ghislanzoni è da leggere «in relazione all'affermarsi della scapigliatura e alla sua frantumazione in posizioni e iniziative anche diverse e contrastanti fra loro ma riconducibili in genere a un atteggiamento di rifiuto o di insofferenza verso i valori della società borghese e i modelli letterari che li rappresentavano» (Zaccaria 2000:47). 
Quasi un anticipatore del movimento (cfr. Paccagni-ni 1995:1-48) in quanto di una generazione precedente a quella degli Scapigliati maggiori, su di lui è fortemente limitativo il giudizio di Gaetano Mariani (1967:696): «Dei suoi amici e nemici il Ghislanzoni accoglie in fondo l'esteriorità massiccia degli atteggiamenti, sia umani che letterari, assorbe la carica di rottura che è nell'opera di un Praga, di un Boito, di un Tarchetti nei limiti in cui tale carica si adeguava alla sua visione dell'umanità che è insieme indulgente e spietata, ironica e sentimentale, seria e sorridente...».

Ama, o fanciulla-d’una luce sola


     Si irradia il core, ed è luce d’amor;


     Non potrà il tempo che ogni gioja invola


     Mai quella luce spegnerti nel cor.





Ama! alla età dei disinganni amari


     Dei tedii lunghi, dei vani desir


     La primavera dei ricordi cari


     Sentirai nel tuo petto rifiorir.





Ama, o fanciulla! benedetto e pianto


     Poserà il cener tuo dentro l’avel,


     E all’angelisco spirto amor soltanto


     Presterà l’ali per salire al ciel.



I nostri tempi
La vera sintesi
      Dell’età nostra
      Con breve distico
      Qui si dimostra:
«Tutto si compera,
      Tutto si vende,
      E carta sudicia
      Per ôr si spende.»

La nostra musica

Nell'universo
      Regnò sovrana
      Fin che fu musica
      Italïana;
Volle esser musica
      Cosmopolita,
      E allor d'Italia
      Non è più uscita.

I pseudonimi

Quando d’una effemeride
    Tu imbratti le colonne,
    Presumi invan nasconderti
    Nel vel di un Ipsilonne.
    A ognun che il testo esamini
    Subito si rivela
    Che all’ombra del pseudonimo
    Un asino si cela.





Liriche per musica


Di Ulisse Cermenati, Milano, novembre 1924
Fu uno scrittore arguto, buono, squisitamente italiano: fu «poeta nella vita e nelle opere» così come giustamente è scolpito sul piccolo monumento, che amici e ammiratori, gli eressero nella sua Lecco, cinque mesi dopo la morte.
Nel capoluogo del teatro manzoniano, nella ridente cittadina lariana, che deve la sua fama all'autore dei «Promessi Sposi» e la sua ricchezza all'instancabile febbre di lavoro, Antonio Ghislanzoni nasceva cento anni or sono, al 25 di novembre. In quello stesso 1824, Lecco aveva dati i natali ad un altro suo figlio insigne, l'abate geologo, Antonio Stoppani.
Il padre, dottor fisico Giovanni Battista, avrebbe voluto fare dell'Antonio un continuatore della severa e delicata sua professione, e con questo intento, lo aveva ovviato agli studi classici, indi alle discipline mediche all'Università di Pavia.
Il giovane non era stoffa da Esculapio; in quei tempi egli si sentiva attratto irresistibilmente all'arte lirica. E dalla antica città degli studi, egli spiccava infatti il volo per i teatri d'Italia e dell'Estero, interpretando con la sua bella voce baritonale - così chiara e sicura nel canto, in lui ch'era balbuziente al massimo grado nella conversazione normale - le creazioni di Donizetti, di Bellini e di Rossini.
Della sua avventurosa vita di cantante, egli medesimo ha scritto briosamente in parecchie occasioni, e specialmente nelle «Memorie politiche di un baritono» e «In chiave di baritono», anche per rettificare inesatte dicerie che si sparsero sul suo conto, e che furono raccolte da biografi faciloni, i quali mettevano il Ghislanzoni in luce di eterno burlone, e di sfrenato gaudente, anziché in quella giusta e simpatica di uno dei più puri e geniali componenti la scapigliatura artistica e letteraria, che fiorì in Milano nella seconda metà del secolo scorso, e che tanto raggio d'intellettualità fece rifulgere sulla metropoli lombarda.

*
* *

Invero, anche sfrondata da tutte le leggende, la vita di Antonio Ghislanzoni, cantante e scrittore, costituisce una ricca collana di episodi brillanti, così come brillante e piacevole furono il suo carattere e il suo stile. Fu chiamato il Paul de Kok italiano, fa chiamato anche, per i suoi innumerevoli e salaci epigrammi, il moderno Marziale.
Agli antichi trionfi di teatro, egli, però non teneva molto. Anzi...!
«Ripensando a quei tempi - scrisse infatti - mi avviene spesso di meravigliarmi della spensierata gaiezza, che io mettevo nel rappresentare al cospetto del pubblico i personaggi del marchese di Bois Fleury, di dott. Malatesta, di Dulcamara, di Figaro e di don Basilio. Fatto è che una volta slanciato sul palcoscenico io m'investiva siffattamente dell'umorismo musicale di Donizetti e di Rossini da riuscire un attore comico esilarante e inappuntabile. E questo dico senza ombra di orgoglio; poiché ai miei successi di istrione io ci tengo pochissimo, e quasi mi vergogno di ricordarli».
Però amava intrattenersi su quella che fu la parte aneddotica di quei lontani tempi giovanili.
Debuttò nel carnevale del 1846 a Lodi; passò poscia al «Carcano» di Milano, e un episodio saliente di quella stagione teatrale è così narrato da lui stesso:
«Uscito, dopo lunga malattia, dalla casa di salute, l'impresario Boracchi mi mandò a Piacenza, e quindi a Codogno, per cantare nell'Attila la parte di Ezio. Partii da Codogno e scesi all'Albergo dell'Àncora a Milano nel teatrale costume di Ezio, colla daga alla cintura e il grand'elmo a cresta rossa sulla testa».
È facile immaginare le matte risate di chi vide capitare nell'albergo lo strano personaggio così camuffato!
Cantò nell'anno seguente ad Arezzo, e dopo lunghe e avventurose peregrinazioni tentò di recarsi a Roma, ansioso di prendere parte alla difesa della gloriosa e agonizzante Repubblica. Sotto le vesti dei più svariati «eroi» internazionali, di cavalieri antichi e di non meno antichi tiranni, l'artista da teatro non aveva dimenticato di essere italiano e Ghislanzoni il suo dovere di patriotta l'aveva fatto, - senza menarne scalpore in seguito, - anche a Milano durante le «Cinque giornate», delle quali descrisse poi in pagine gustosissime le scene comiche che si svolsero accanto a quelle epiche.
Il Ghislanzoni, s'avviò adunque verso la Città eterna, accompagnato da un'amica, desiosa di emozioni, e che per nascondere il sesso, s'era rivestita di abiti virili. Presso le porte di Roma la coppia fu arrestata dai soldati francesi. La signorina, cavallerescamente rilasciata dagli ufficiali, potè prendere la via del ritorno, ma il nostro Antonio, dichiarato prigioniero di guerra fu rinchiuso, prima all'isola di Santa Margherita poi trasferito a Bastia, in Corsica, dove sofferse quattro mesi di durissimo carcere.
Liberato alfine; un generoso ammiratore del suo talento e del suo inesauribile spirito, gli fornì i mezzi per recarsi in Francia.

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Egli ha raccontato da par suo questo nuovo periodo della sua carriera lirica, che culminò la sera del 2 dicembre 1851 - la sera storica del colpo di Stato, - cantando la parte di Carlo V nell'Ernani, a quel Teatro Italiano.
Il giorno dopo, scoppiati i tumulti, il teatro fu chiuso, e il baritono si trovò sul lastrico.
Nel marzo dell'anno seguente, formò una compagnia, e riprese a pellegrinare per i teatri di provincia, riducendosi a Nimes, con un guadagno netto di 200 lire, che sfumò immediatamente, per una grave malattia che lo colse.
Antonio Ghislanzoni, cantò, o meglio tentò di cantare, per l'ultima volta nel 1855, di ritorno a Milano.
Così da lui è rievocato quel burrascoso spettacolo che doveva di punto in bianco, tramutarlo da baritono, in letterato:
«Nelle varie riprese della mia carriera intermittente non mi era mai accaduto di sentirmi trapassare l'orecchio dal sinistro stridore dei fischi. Questa soddisfazione, che solo mancava a completare la mia biografia teatrale, l'ebbi a Milano clamorosa, spietata, degna di me. Il teatro Carcano, che era stato nel 1847 il mio campo di Marengo, si tramutava otto anni dopo nel mio Waterloo. I fischi, le grida, le contumelie che mi investirono mentre io adunava invano gli ultimi residui delle mie note agonizzanti, per cantare nel «Templario», la parte eroica di Briano, mi intimarono di cedere le armi. All'indomani della sconfitta, io presi risolutamente il partito di abdicare, e confesso che, deponendo i titoli di baritono assoluto e di cantante disponibile, mi parve di rifarmi uomo, di ricostituirmi cittadino.
«L'ottimo Rovani, ch'io non conoscevo di persona, narrando nell'appendice della «Gazzetta di Milano» quel mio primo ed ultimo fiasco, con quella squisitezza che era la luce simpatica di ogni suo scritto, si rallegrava che io abbandonassi la scena, promettendomi degli allori più invidiabili nel campo delle lettere».

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Da quel giorno adunque, Antonio Ghislanzoni, divenne scrittore, e scrisse molto in altri quarant'anni della sua esistenza, distinguendosi nelle forme letterarie più disparate; cosicché parecchi de' suoi lavori furono anche tradotti in lingue straniere.
Il suo romanzo-capolavoro: «Gli artisti da teatro», - col quale si prefisse lo scopo principale di descrivere la tumultuosa vita dei cantanti nella sua realtà inesorabile, ad ammonimento dei giovani che, sedotti dalle false apparenze, intendessero avventurarsi capricciosamente, inconsci ed illusi; e d'altra parte di mettere in evidenza le piaghe sanabili, richiamando su queste l'attenzione del pubblico e dei governanti - ottenne, e ottiene tutt'ora, un meritato successo.
«Gli artisti da teatro» comparso dapprima a puntate nel giornale «Il Cosmorama pittorico» fu raccolto in volume e riprodotto per numerose edizioni, anche recentemente dall'editore di quest'altro suo lavoro.
Molto opportunamente l'amico Matarelli ha voluto, con doveroso e affettuoso pensiero di omaggio, nell'occasione del centenario della nascita del geniale artista lombardo, toglier dall'ingiusto oblio, questa Abrakadabra, che è la dimostrazione di una fantasia fervidissima, e che ha preceduto di molti anni la fortunata opera di Bellamy.
Degli scritti del Ghislanzoni, si leggono ancora con diletto: Le memoria di un gatto - Le donne brutte - Angioli nelle tenebre - Un suicidio a fior d'acqua - La contessa di Karolystria - Le acque minerali di S. R. - Un viaggio d'istruzione - I volontari del 1866 - Un capriccio della rivoluzione - Il diplomatico di Gorgonzola - Il dott. Ceralacca - Due spie - Un apostolo in missione - Storia di Milano dal 1836 al 1848 - I due preti - Il sole della libertà - Dietro una valanga - Una partita in quattro - Autobiografia di un ex cantante - La Corte dei Nasi - Giuda Scariota - Il renitente - Se il marito sapesse - Un uomo colla coda - Cugino e cugina - Gianbarba - I primi passi alla scienza - Il corvo rosso - Ciò che si vuole - Il redivivo - Il violino a corde umane - La tromba di Rubly - Le vergini di Nyon - Memorie di Pavia - Il flauto di mio marito - Le sedici battute dell'Africana - Storia di Lecco dal 1832 al 1848 - I drammi del Natale - Giovane e sconosciuto - Una nuova opera al teatro della Scala - La predica di fra Veridico - L'arte di far debiti; e molte e molte altre novelle di maggiore o minor mole. Scrisse anche pel teatro di prosa, ma con minor fortuna, tre commedie: Tutti ladri - La moda nell'arte - I due orsi.
Assai noti sono inoltre i suoi libretti d'opera, - una ottantina circa, - e in questa forma d'arte egli potè ben essere chiamato «principe» poiché fu tra i primi che la risollevarono a dignità di concezione e di verso.
Il melodramma che gli diede maggior fama, poiché il suo nome fu accoppiato a quello grandissimo di Verdi, ma gli fruttò ben poco finanziariamente, fu senza dubbio l'Aida. Altri come Papà Martin, Francesca da Rimini, Re Lear, Fosca, Salvator Rosa, I lituani, I mori di Valenza, I promessi sposi, Salambò, Edmea, Spartaco, furono rispettivamente musicati da altri insigni maestri, quali il Cagnoni, il Cromes, il Ponchielli, il Petrella, il Catalani, e il Platania.
Ma non qui si è arrestata la sua attività letteraria. Oltre duecento sono gli epigrammi; a centinaia si contano i componimenti poetici sparsi su tutti i giornali letterari e le più importanti riviste d'Italia.
Militò pure nel giornalismo, e fu al Secolo nei primi anni di vita del quotidiano milanese; diresse la Gazzetta Musicale di Ricordi, e fondò la Rivista minima, Il Capriccio e La posta di Caprino, ove profuse a larghe mani le gemme del suo vivido ingegno, lo spirito sano della sua instancabile vena. Un doloroso, stridente contrasto con l'anima gioconda dello scrittore, è stato l'ultimo periodo della sua esistenza, trascorso nel romitaggio dell'alpestre paesello di Caprino Bergamasco, ove volontariamente si era ritirato, per sfuggire ai rumori delle grandi città, per godersi un tramonto tranquillo, fra gente umile e buona. Dettò allora un'epistola diretta «Al dott. L. V.», che resta come un gioiello di poesia, e di pungente satira.
Onesto sino allo scrupolo, disinteressato fino all'ingenuità, egli, che col solo libretto dell'«Aida» avrebbe avuto diritto di guadagnare tanto che gli bastasse per campare agiatamente, dovette invece lottare sempre con le più umili necessità quotidiane.
Ad un giovane discepolo, che stava per lanciarsi a quel tempo nel mondo giornalistico, affidava una lettera per un amico di Roma.
Lo scritto reca la data del 28 marzo 1893, pochi mesi prima cioè della morte.
Da quel foglietto, ormai ingiallito dal tempo, sotto il velo dell'arguzia, traspare purtroppo una profonda amarezza.
In un punto, fra l'altro, il solitario, esclama:
«Io vado invecchiando a Caprino. La mia vita è una, cambiale in sofferenza. Mi approssimo ai settant'anni, e devo scribacchiare per vivere!»
In quello stesso mese di marzo, egli traduceva una poesia di Tennyson, e la traduzione lo fece proclamare vincitore su ben seicento concorrenti.
Sono versi che sembrano preconizzare la fine imminente, e fanno comprendere come lo spirito del Poeta, che sentiva avvicinarsi l'ora suprema, abbia trovato ancora nell'interpretare il mesto canto del vate inglese, tutta la forza, tutto lo scintillio dell'estro giovanile.
Eccoli i versi, che furono il canto del cigno:

«Quando l'ora silente in veste bruna
Intorno al mio guanciale i sogni aduna,
Deh! non mi richiamate,
Mute voci dei morti,
Sì spesso avanti verso l'ima valle
A cui volsi le spalle,
Nè verso il sole che non dà più luce...
Me chiamate piuttosto, o silenziose
Voci, oltre il nulla, nell'etereo smalto
Della stellata via,
Che in alto splende, in alto, sempre in alto!...»

*
* *


Antonio Ghislanzoni, allo spuntar dell'alba del giorno sedici di luglio di quell'anno, moriva.
Quest'uomo, aveva data precoce prova della sua vena umoristica, da scolaretto, nel seminario di Castello sopra Lecco, con una scappatella che ben volentieri ricordava agli amici. Un vecchio e pedante professore di storia, aveva dettato il tema: Che cosa disse Muzio Scevola ai romani, mettendo la mano sul braciere ardente?
Doveva essere il compito più importante dell'anno, quello cioè che avrebbe deciso della capacità e del profitto dell'alunno per essere promosso. Gli allievi ebbero perciò un tempo abbastanza lungo, per riflettere e per svolgerlo con ampiezza.
Il futuro autore degli Artisti da Teatro, e dell'Abrakadabra, fu lesto, e naturalmente per il primo consegnò un foglio grandissimo su cui non aveva vergato che la dolorosa esclamazione: Ahi! ahi! ahi!
E infatti, che cosa avrebbe potuto dire di più mi uomo, sia pure Muzio Scevola, mentre stava bruciandosi le carni?
Il professore, solennemente, al cospetto della scolaresca, che a stenti tratteneva le risa - si indignò e con quel senso di divinazione, che è una specialità dei pedagoghi, scrisse un rapporto in cui sosteneva che il piccolo Antonio sarebbe sempre stato un idiota e un analfabeta.
È il preconizzato idiota e analfabeta, per molti lustri, sino alla più tarda, età, con le sue opere, seminò il più schietto buon umore, fustigò e corresse i costumi con la satira, divertì varie generazioni di lettori, e anche giunto sul passo estremo, poteva annunciare all'amico Monteggia, che sul suo marmo sepolcrale, sarebbe rifiorita ancora la sana e schietta risata!
Invece la sua morte fu crudele, straziante. Non si spense che dopo una lunga, atroce agonia, cosicché si dovette affermare, quando esalò l'ultimo sospiro, che aveva cessato di soffrire.
Qualche giorno prima di chiudere gli occhi per sempre e per, comporsi, finalmente, nella pace, Egli volle attorno al suo letto si raccogliessero i bambini più poveri del paese, per offrir loro a manciate, gustose ciliege.
Con gli occhi bagnati di lagrime, stette a contemplare il quadro simpatico, e a godere dell'ingenua gioia dei piccini. Innamorato d'ogni cosa bella e buona, amante dei deboli e degli innocenti, l'umorista, il poeta morente, volle allietare le ultime sue ore, col sorriso e la riconoscenza dei fanciulli, privi d'ogni altra consolazione, nella povertà della loro infanzia.
E prima d'essere chiamato «oltre il nulla», pur tra le torture del male spietato che l'uccideva, ebbe ancora la forza di mormorare:
«Voglio fiori, molti fiori, con me, nella bara!»,
E con questo omaggio alla bellezza e alla gentilezza del Creato, si irrigidì nella morte.
Da allora riposa nel cimitero di Lecco, ove le sue spoglie per volere dei concittadini, furono trasportate con solenni onoranze, accanto a quelle di Antonio Stoppani.
Sulle tombe dei due insigni lecchesi sta incisa la medesima data: 1824.