Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo
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lunedì 23 novembre 2020

Ugo Fleres giovane poeta, testimonianza di un amico 1888

 



ritratto in fototipia


Testimonianza di un amico 1888 

 A me che gli chiedevo più particolari notizie della sua vita, Ugo Fleres ha in questi giorni risposto col sonetto che qui riferisco :

« Son messinese ed ho ventinov'anni ; 

scriver di me mi sembra uggioso assai ; 

credo esser nato all'arte e, ov'io m'inganni, 

spero convinto non restarne mai.

Delle mie gioie come degli affanni 

non soglio far pubblici bandi e lai : 

di tal superba timidezza i danni 

nell'altrui noncuranza io già provai.

Stampo su pei giornali e non li leggo, 

studio senza patenti e professori ; 

idolatro la musica e non suono.

Disegno un poco e tra i pittor' non seggo ;  

scrivo a diluvio e mancan gli editori : 

ecco pur troppo, amico mio. qual sono ».

Proprio così: nessun ritratto poetico fu mai più somigliante di questo per la parte morale. Ugo Fleres, uno degli spiriti artistici  meglio dotati che io  mi  abbia  conosciuto,  costretto dalla vita all'articolo o al pupazzetto quotidiano su pe' giornali, ha viva la fede dell'arte come se ogni giorno per la prima volta ei s'avviasse, nel segno di lei, verso le regioni ideali dove essa regna incontaminata. E l'arte, che lo riama, lo domina così gelosamente che non gli consente pensiero il quale non sia di lei : soffiano violenti o mordaci nelle redazioni de' giornali i venti della politica; il Fleres o non se n'accorge o cerca subito sottrarsi all'impeto loro ne' suoi sogni diletti. — No, non ne parliamo! mi   diceva  giorni   sono,   uscendo   meco   dal Fracassa. Non ne parliamo : tanto, che giova? Io a queste cose  non  ci voglio pensare, per avere il diritto di non arrabbiamoci ! — E ripigliammo a chiacchierare d'arte. Svelto e corretto disegnatore, intelligente di musica,  egli passa la vita tra pittori e maestri;  ed  Uriel, ch'è lo pseudonimo suo nel Fracassa, ha nome di critico onestissimo ed acuto. Ma Ugo Fleres lascia ad Uriel giornalista il diletto e la cura dei concerti e delle esposizioni, e, quando può, si dà tutto alla poesia. Chi non conosce la vita romana in genere, e le necessità dei giornali, non può intender quanto amor vero per l'arte, quanta   forza  di  tenace  volontà  attestino  le novelle e i versi dell'amico mio: né io li giudico; ma vorrei che   molti ne  lo  stimassero com'io lo stimo.


Nato nel decembre del 1857 a Messina, il Fleres studiò nelle scuole e nell'istituto tecnico; o piuttosto non studiò punto, ma s'industriò per conto suo nel disegno e nella poesia. La famiglia, credendo trarne miglior frutto, lo mandò a Napoli; si desse alla pittura: ed egli invece passò allora le giornate in biblioteca. Venne a Roma che non aveva diciassette anni; e cominciò ad effondere, qui la parola è propria, la sua giovinezza in dipinti ed in drammi. Mi scusi il Fleres se io non riesco a trattenermi dal sorridere e dal far sorridere il lettore rammentando, come mi è riescito saperli, que' suoi tentativi: un melodramma; Fingal, tragedia; i Vespri siciliani, tragedia; David, tragedia; Il paradiso degli assassini, dramma sul Vecchio della Montagna; Spartaco, tragedia; Raivallac, dramma; Diogene e Frine; varii Proverbii; tutto ciò in versi. Più, in prosa: Giordano Bruno, dramma; e di nuovo in versi: Labbra maledette, episodio della vita del Goethe; Roscio e i suoi comici, commedia d'argomento antico. Né basta: ridusse il Formione di Terenzio che, letto agli amici del Fracassa, non parve adatto alle scene ; e a Cesare Rossi presentò un dramma in martelliani, II Cieco, e il Rossi lo rifiutò; ma tanto gli piacque la disinvolta modestia dell'autore (il quale lo ringraziò persuaso del giudizio) che, caso raro, divennero buoni amici. E dire che inoltre il Fleres aveva già scritto un poema in isciolti I Saturnali, ed un altro poemetto d'argomento indiano ! « Le cateratte del cielo si apersero, dice la Bibbia, e piovve per quaranta giorni e per quaranta notti di seguito ».

Io non mi meraviglio punto che un giovane dell'ingegno del Fleres, e nelle condizioni sue, scrivesse tanto ; ma sì che non pubblicasse ; che a mano a mano che sfogava quella esuberanza di vena e di fantasia, non crescesse in lui la vanità dell'autore; che egli si facesse anzi giudice sempre più severo di se medesimo. E questo è per me migliore indizio di buona indole artistica che non quello della facile produzione. Fatto sta che di tanti scartafacci, donde io scommetto che a ben frugarli sarebbe da trarre assai di buono, il Fleres non fece altro conto. Al teatro ha ormai rinunziato: la compagnia Maggi ha una sua. commedia in tre atti Eredità vincolata, e Luigi Arnaldo Vassallo vuol ridurgli per le scene un dramma satirico, pure in tre atti, Le vittime ; ma egli afferma che, o bene o male che vadan le cose, non vi si proverà di nuovo.

Presentato a quei del Fracassa, prima che nascesse il giornale, da G. Aurelio Costanzo, che lo stimava come debbono stimarlo quanti lo conoscono, vi cominciò la serie ormai sterminata de' suoi articoli, con certe appendici su La musica dell' occhio, che anche oggi qualche intelligente rammenta. Ed entrato così ne' giornali, d'allora in poi ha scritto e scrive, come i giornali richiedono, affrettatamente ma non mai, sia pur in argomento lieve, contro l'animo suo. Rammento, su tal proposito, curiosi dialoghi tra lui e Beppino Turco: quando il Fleres ha ereduto concedere molto alle necessità del giornale sforzando la lode, sembra al direttore che egli abbia fatto, come si dice nelle redazioni, una stroncatura. Buttato giù l'articolo o il pupazzetto (quanti sorridono sulle figurine del Fracassa non sanno che spesso le debbono ad un gentile poeta !) corre a casa e si ripone a' suoi studi, proseguiti sempre con pertinacia e con fede mirabili. È un autodidatta, il Fleres ; e può tenersene; che pochi, usciti dalle università, han la coltura varia ed elegante di lui.

Messe da parte quelle molte opere della prima gioventù, soltanto per le insistenze di Angelo Sommaruga diè alla stampa i suoi Versi, nell'81. Non già che al Sommaruga importasse molto di lui poeta ; ma volle così procacciarsi la famigliarità d'un disegnatore abile ed agile per la sua Bizantina. A quel libretto accennò con lode il Carducci ; il Fleres oggi lo rinnega, perchè di que' versi gli spiace l'ideale artistico, e l'esagerazione di modernità, o modernismo che dir si voglia, troppo palese. Può rinnegarlo perchè già ha dato molto di meglio. Non parlo delle Profane Istorie, edite due anni fa, e troppo poco curate dal pubblico che avvezzo ai sapori grossi non ha gustato, come doveva, questi sottili ; né del romanzo Extollat uscito ora in luce pe' tipi del Triverio, o dell'altro romanzo Vortice che tra breve ci darà il Tropea di Catania, o delle novelle che stampa il Battei di Parma; il Fleres è per questa parte abbastanza noto al pubblico che ne cerca con curiosità le scritture ne' giornali letterarii. 

 Qui

Ma vo' dire qualcosa, con molta indiscrezione, di due lavori di lunga lena, in versi, cui l'amico mio attende; singolari   lavori  e, tralasciando ogni altra ragione, degni di lode perchè lontani da quanto oggi dà l'Italia in fatto di poesia. Vi sembra piccolo merito in arte, quello di serbare fattezze proprie ? Quale possa essere il pregio dei versi del Fleres, certo non mancherà loro l'originalità. Egli è infatti lo scrittore più ricco di fantasia narrativa che sia oggi tra'giovani: inventare e narrare è un bisogno dell'indole sua artistica, ed  egli inventa con incredibile varietà, e spesso narra con efficacia derivata dalla schiettezza della rappresentazione anzi che dalla vivezza sfacciata de' colori. Se la forma, a lavoro compiuto, risponderà al valore intimo della poesia, il Fleres avrà, nella Giovinezza del   Cid e nel  Don  Juan, fatto opera come poche  ne  vediamo da un pezzo. Ora che la lirica tiranneggia la nostra poesia, oh come mi piace ascoltare la voce di un giovine che osa narrare largamente, pianamente, le belle avventure degli amori e delle armi ! Nel racconto oggettivo all'antica  infondere l'osservazione psicologica alla moderna ; questo l'ideale d'arte che sta innanzi ad Ugo Fleres; il quale per ciò non va in cerca d'argomenti nuovi ma li accetta dalla tradizione. Ha così in pronto La Giovinezza del Cid; e sta lavorando gli ultimi canti del suo Don Juan. Il primo è un poemetto in dieci canti; gli ottonarli alla spagnuola sono variamente rimati canto per canto in istrofette sonanti o soavi, secondo che narrino le battaglie del Cid o i sospiri di Chimena. Il Cid, per vendicare suo padre dello schiaffo che ne ebbe, uccide il padre di Chimena: il re, meravigliato del valore del giovane, lo salva dal supplizio mandandolo a combattere gl'Infedeli; egli torna vittorioso ; Chimena, nella quale l'ammirazione divenne amore e spense l'odio per l'uccisore del padre, andata a chiederne al re vendetta, lo accetta invece marito. I lettori avranno modo di giudicare tra breve dell'analisi sottile che il Fleres ha fatto de' sentimenti di lei ; qui odano soltanto come dolcemente essa invochi il ritorno dell'eroe giovinetto:

«  Non hai già la rinomanza

come un falco in pugno stretta? lungo tempo non t'avanza per attingere la vetta de la gloria ? e non t'affretta de' miei baci la speranza? »

Di più lunga lena è il Don Juan, romanzo in versi che, a lavoro finito, saranno più di quindicimila, in una trentina di canti : ottave, terzine, sonetti, serenate, rime sempre a dovizia e rime buone. Il Fleres non è, né vuole essere, un cesellatore ma un aèdo moderno ; non s'indugia sul verso per amore del verso in sé, ma lo studia insieme con gli altri perchè soltanto dalla compagnia abbia la forza propria e l'effetto che deve. Neppure qui giudico : ma, come ho potuto ascoltando dall'amico a pezzi e bocconi, così riferisco del Don Juan quel che rammento o, quasi di nascosto, ne ho spigolato.

Don Juan  Tenorio,  gittate  sopra  un' isola deserta, è salvato, dopo nove anni, da una nave veneziana; e racconta al padrone di essa. Paolo Targa, e all'equipaggio come il padre suo lo imbarcò per mozzo, com'egli educato a vita signorile, si ribellò al capitano, e come ne fu punito con quell'abbandono.

«  All'erma isola pochi marinai mi recarono taciti vogando, mi baciaron, partir;  solo restai.

Solo, lì solo, io che in Siviglia, quando m'arrideva la vita, e amici e fanti avevo al mio piacere, al mio comando ;

solo, e la barca dilungava, e innanti a me, nel tempo e nello spazio, il mare, il consorzio dei flutti minaccianti ».

Questo il primo canto: nel secondo siamo a Roma. Si fa gran festa nel Vaticano (l'azione si svolge a' tempi di Leone X); l'ambasciatore di Venezia, ch'è Paolo Targa, il quale ama Lucrezia, figlia del marchese Oliviero, assalito da questo, manda l'amico suo Don Juan a rapire la signora per conto di lui, essendo ormai inutile ogni cautela. Mentre il palazzo dell'ambasciatore è assediato dalle genti di Oliviero, Don Juan corre sotto le finestre di Lucrezia:

« A pie della finestra dov'è il lume, egli tosto si fa tra l'alberata, e canta, come è veneto costume, il ritornello d'una serenata. Lucrezia il canto conoscer presume, e la finestra è schiusa, è spalancata: Juan lascia le note e dà di piglio ad un imminentissimo consiglio ».

Bisogna fuggire subito; e fuggono. Ma il canto III ce li descrive spersi per la campagna romana, mentre volevano riparare nella villa di Lucrezia. In un bosco, la sera, essa narra al suo rapitore per procura, l'amore di Paolo e come essa fu costretta a sposare Sesto, conte di Marmora. Don Juan profitta dell'occasione, ed ha con lei la sua prima avventura. L'avere ogni volta chiarito come egli riesca a piegar gli animi femminili e averlo rappresentato, corrotto ed ingenuo ad un tempo, ma nella varietà incessante dei casi unico e coerente in sé, sarà, ove il pubblico trovi che l'autore vi sia riuscito, il pregio maggiore di questo singolare romanzo.
Quando Paolo va alla villa per trovarvi Lucrezia, e sa ch'ella è fuggita con Don Juan, si accorda col marchese Oliviero alla vendetta comune. Raggiungono a Nemi i due amanti; Don Juan uccide in duello il marchese, e Lucrezia lo maledice:
«  Juan, la vita tua torbida scorra di tradimento in tradimento, come va la fiumana rea di forra in forra.
Juan, l'infamia penda sul tuo nome; ogni umano dolor ti dia tortura e ti trascini a morte per le  chiome,
dèmone della mia colpa e iattura  ».
Navigando co' Gitani (siamo al canto V) Don Juan s'innamora di Paquita; e seco la porta nel suo castello dove, sotto il nome di Don Pablo, ricupera l'immenso suo patrimonio.

Nel canto VI, in un ballo nuziale si scopre : nel seguente, così si dichiara ad un'altra bella, a Consuelo, ed è sfidato dall'amante di lei, il primo espada, Esteban :
« Segnorita, il cappel del vincitore sarebbe pésto in mezzo allo steccato se colto non lo avessi io, come un fiore che una dama al suo damo abbia lanciato.

Ma di renderlo a voi non mi dà cuore, se un guiderdone non mi fa beato, e convien ch'esso sia d'alto valore ; un bacio, per esempio, od uno Stato.

Così parla Juan a una procace bruna che morde, udendolo, il ventaglio, e, da cotanto ardir vinta, si tace ».

Ma accorre Esteban, e sfida l'insolente. Si battono; il povero espada è ferito. Qui gli eventi s'intrecciano per modo che non è facile esporli in breve ; né mi è consentito di accennarli tutti. « Le donne, i cavalier, l'armi gli amori » han ritrovato nel Fleres uno che si compiace del canto pieno e delle gioconde fantasie : la varietà dei tipi di donna che egli ha immaginati è incredibile ; noto tra i ricordi che mi si affollano una candida Velina, un'appassionata Dolores, una nobile Maria. E una folla d'altre persone, menestrelli, corsari, zingari, cortigiane, sicarii, cavalieri, pescatori ; fra i personaggi di nome storico, Leone X, il cardinal da Bibbiena, e la famosa Imperia. Il romanzo finisce con la scena dell'invito alla statua, e col volo terribile di Oliviero e di Don Juan sopra le turbe di pellegrini che si accalcano per le vie di Roma, verso i regni misteriosi della Morte.
Ed ora vorrei poter dare qualche altro saggio del libro, tanto ricco di fantasìe e copioso di rime. Ma lo spazio mi manca: né altro aggiungerò che un'ottava pour la bonne bouche. Don Juan, ospite d'un convento, ha sedotta la badessa e tutte quante le monache: l'episodio è trattato con una delicatezza che non si poteva maggiore; e chi conosce il Fleres sa che nel suo romanzo neppure un verso si troverà dove l'arte sia offesa da rappresentazioni poco degne di lei. Le monache, in quella strana vita tutta sogni di amore in che le ha precipitate il giovine bellissimo, non trovano pace :

« Caldo era il tempo ed ascendeano a sera le peccatrici su la torre annosa, sì come fanno le palombe a schiera se il vespro tinge i culmini di rosa : ed esalava qual da una cunziera la dolce lor malia peccaminosa, ma in nube di rimorso e di sgomento s'avvolgeva poi grave in sul convento.  »

Non affretto un giudizio che per più ragioni mi sarebbe oggi difficile : ma mi sia conceduto un augurio che m'esce dall'animo. Abbia presto Don Juan un editore, ed Ugo Fleres quella attenzione del pubblico ch'egli, artista onesto e valente, per tanti conti si merita.


Grafica:

Abilissimo nell'arte del disegno, Ugo Fleres ha pubblicato anche una preziosa raccolta di riproduzioni di lavori artistici intitolandola: 

La galleria nazionale in Roma (1896). 

Collaborò a Il Travaso delle Idee, «giornale umoristico sulla falsariga del Don Chisciotte e del Fracassa». Proprio sul Don Chisciotte, che era diretto da Gandolin, Ugo Fleres illustrò un articolo - intervista di Emilio Faelli a Luigi Pirandello intorno alle traduzioni del poeta delle Elegie romane

L'editore Loescher, che era disposto a stampare le elegie tradotte da Pirandello, morì prima che il progetto fosse stato realizzato e il libro venne comunque stampato dall'editore Giusti di Livorno con una ventina di disegni di donne romane realizzate dello stesso Fleres .

Innumerevoli poi sono gli articoli, le poesie, le novelle che ha scritto per le Riviste d'arte.




La canzone della spola, versi di Ugo Fleres, musica di Francesco Paolo Frontini Forlivesi 1905


http://frontini.altervista.org/ugo_fleres.htm







mercoledì 18 gennaio 2017

CARLO DOSSI - « Giornale di Sicilia », 26 agosto 1883

Tra i più importanti esponenti della scapigliatura milanese, fu particolarmente legato ad altri scrittori del genere come Emilio Praga e Luigi Conconi ed è ancora oggi apprezzato per la schiettezza dei suoi scritti, il linguaggio ricercato ma comprensibile a tutti, la spiccata ironia e la critica che mosse al suo tempo anche in ambito politico e sociale.


 « Giornale di Sicilia », 26 agosto 1883

A poco a poco questo Carlo Dossi han finito per istrapparlo dall'oscurità. Qualche editore stampa i suoi libri, e qualche giornalista se ne occupa. Ciò non ostante chi ne sa qualche cosa di costui? Dove abita? con chi vive? è egli giovane o vecchio? Non è facil cosa rispondere a tutte queste dimande. A Milano dov'io feci, assai tempo addietro, lunga dimora, e dov'era amico degli amici del Dossi, quest'ultimo non lo vidi che una volta sola, per caso. La sua figura mi colpì. Stetti un pezzo a mirare fisamente quella strana testa d'uccello appiccicata ad un esile corpo. Egli non proferiva che poche parole, per forza, come colui che si annoia   financo   ad   aprir  la  bocca.
Nel suo sguardo, nella sua voce c'era come una triste espressione di stanchezza. Pareva un uomo che avesse assai sofferto e assai pensato.

Carlo Dossi avea fatto parte di un cenacolo artistico, nel quale torreggiava la figura erculea di uno scrittore dalla coltura eclettica e dal vasto e poderoso ingegno, Giuseppe Rovani. Morto Rovani, quel cenacolo si sbandò. Grandi, lo scultore che sta lavorando nel monumento per le Cinque Giornate, cominciava a farsi un nome col suo Cesare Beccaria; Tranquillo Cremona aveva acquistato un'autorità pari al suo valore; Levi e Perelli s'erano buttati al giornalismo; Carlo Alberto Pisani Dossi, cioè Carlo Dossi, sebbene agiato, desiderava quel che si dice un'occupazione. Ognuno dunque cominciava a pensare al fatto suo. Non pertanto se il cenacolo più non esisteva come un'intima brigata di amici, continuava sempre ad esistere come un'affettuosa armonia d'intelligenze.
Ma il Dossi rimaneva ancora ignoto, o quasi. Del resto credo che egli rifugga del consorzio degli uomini. A me pare che questo forte originale e caratteristico scrittore debba nutrire un profondo disprezzo per la società. Ci aveva la mamma, una santa donna di alto e libero ingegno, e la mamma gli è morta. Ci aveva un cane, ma un rospo gliel'ha morsicato, e se n'è ito il cane. E adesso Carlo Dossi è rimasto solo.
Dico male: a Roma, dov'egli è impiegato al Ministero degli Esteri, ci ha due fidi amici, il Levi e il Perelli,   direttore  il   primo,   redattore   l'altro   della   « Riforma»,  ma costoro passano il santo giorno strascinando
la catena del giornalismo; e il Dossi non li vede che qualche volta la sera, a ora tarda. Li vede per salutarli, perché essi non s'impensieriscano sul conto suo; e poco dopo  se ne va,  meditabondo,  seccato.
Oh i bei giorni del cenacolo, a Milano! Oh come allora si sturacciavano allegramente le bottiglie, anfitrione, nume e protettore Giuseppe Rovani, là, in quella  rumorosa  Osteria del Gallo.
D'altronde a quei convegni io credo che il Dossi c'intervenisse di raro. Il suo intelletto è fatto per la solitudine. Tutto ciò che è folla lo annoia; tutto ciò che è rumore lo disturba. Che importa a lui della gente? Che importa a lui della società? Che gliene importa della rinomanza della gloria? Egli possiede una vasta coltura, ma la dottrina a lui non serve che come un nutrimento di cui ha bisogno. Egli conosce il latino, il greco antico, l'ebraico, il caldeo, ma tutta questa roba se la tiene in corpo, per sé. Pare che non avesse potuto resistere all'impulso di scrivere —- e scrisse; ma che ne fece, sino a poco tempo addietro, dei suoi romanzi? li stampò con gran lusso, in edizioni... di cento esemplari. Ognuno di questi esemplari era messo in vendita per cento lire; e così il Dossi raggiungeva il suo scopo, ch'era  quello  di  non  venderne  nemmeno  uno.
Un solo editore, il Sommaruga, ha potuto vincere una tale ripugnanza per la pubblicità che possiede in sommo grado il Dossi; e appunto il Sommaruga ha ristampato adesso due suoi vecchi lavori:  la Colonia Felice ed i Ritratti Umani, che in questi giorni ho letto, anzi  ho  riletto,   con  interesse grandissimo.

E le impressioni che ne ho ricevuto sono state molte e varie; questa anzitutto: che il Dossi non sarà mai popolare. Questo scrittore, che pure nei suoi intenti artistici è così democratico, è poi estremamente aristocratico nella forma. In lui non il periodo lindo e leggiero che scivoli elegantemente come slitta sul ghiaccio; ma il tocco forte e conciso, ma la frase concettosa ed efficace, ma il periodo muscoloso e breviloquente. Codesto ameranno senza dubbio lettori intelligentissimi dal gusto raffinato, ma non amerà la plebe folta dei leggitori dal breve comprendonio, dalla non nutrita intelligenza, dalla poca voglia di studiare e di imparare leggendo. A questo si aggiunga la numerosa introduzione che fa il Dossi nella sua prosa di nuovi o poco usitati vocaboli, tratti in gran parte dal dialetto lombardo; si aggiunga anche la strana accentuazione, non del tutto illogica e inutile da lui adoperata e ne avrete abbastanza perché i lavori di questo originalissimo scrittore non possano mai essere completamente accettati dalla moltitudine.
La originalità del Dossi, leggendo appunto i suoi libri, sembra dapprima che consista solo nella rude e ferrea magia della forma, e invece codesta originalità risiede non meno nella parte sostanziale dell'opera. Gli è  che  l'armonia  tra  le  due  parti   è  grandissima;   può dirsi   anzi,   senza   tema   d'errare,   che  l'una  s'immed sima   incosciamente  nell'altra  o  che  entrambe  scaturiscono  d'un  sol  getto  insieme.
Che fa il Dossi nei suoi libri? Studia e svela l'uomo, o, per dir meglio gli uomini, nella loro individualità e nella loro comunità. Ed è strano! Questo solitario, questo refrattario dal sociale consorzio, quest'uomo che ha vissuto e che vive tutto immerso in una solitudine triste e contemplativa, conosce la società e la vita in un modo che mette spavento. È per effetto di osservazione, o solo per effetto d'intuito? Certo l'osservazione vi ha avuto la sua parte, né sarebbe possibile altrimenti; ma la forza dell'intuito deve essere in quest'uomo ferrea e profonda. Tutto ciò che è vizio, ipocrisia, malignità egli lo conosce, lo anatomizza e lo svela; non v'è angolo del cuore umano che gli sia ignoto, non v'è arcano del pensiero che egli non intuisca e non afferri. Le sue dipinture, brevi ed efficaci, talvolta mettono i brividi; in una frase, in un motto egli è buono a scolpire un'indole, a fermare con efficacia scenica una situazione. Né egli è artista obiettivo soltanto. Egli, quasi sempre, rivelando, giudica, giudicando, condanna. I tipi ch'egli rappresenta, sembrano suoi nemici ch'egli aggredisce, doma e costringe a soccombere. Ed è una lotta disperata, corpo a corpo, alla quale il suo stile, che sembra opera di un bulino di cesellatore, dà efficacia strana e fortissima di contorni, di linee di espressioni e di movenze.

Questo è il Dossi. Tale è soprattutto nell'opera sua più seria e più completa che è la Desinenza in A, grande e luminosa lanterna magica di viventi. E la Desinenza in A, fa desiderare che il Dossi si accinga ad un'opera di più vasta mole: che tenti il romanzo sociale, dalle grandi linee e dalle molteplici figure. Vi riuscirebbe? Io non so; certo un suo tentativo, anche rimanendo semplicemente un tentativo, potrebbe chiamarsi  con  precedenza  un  serio  lavoro.
Ma dalla Desinenza in A son già trascorsi circa sei anni, e Carlo Dossi non ci ha dato più nulla di nuovo. Difatti la Colonia felice ed i Ritratti umani, che ci han fornito l'occasione di questo articolo, non sono che delle ristampe. Che fa egli dunque il Dossi, egli, l'artista dalla inesauribile tempra? La stanchezza l'opprime a tal segno, da fargli trascurare il suo unico svago, quello cioè  di  far  conoscere  gli  uomini   agli  uomini?
Se ciò è, io ne sono dolente per lui che soffre; dolente per l'arte, la quale, con suo detrimento, dalle sofferenze dell'uomo vede anche derivare l'inerzia dell'artista.
* Enrico Onufrio


domenica 25 gennaio 2015

Gino Raya - l'ira nemica continua a vivere oltre il rogo.



del prof. Pasquale LicciardelloIl 2 dic. 1987 Gino Raya lasciava questo discutibile mondo: un infarto perentorio ne aveva stroncato la pur solida fibra. Particolare non trascurabile, l’evento funesto capitava alla fermata di un bus, sulla strada, nel buio d’una gelida sera della Roma congesta di anonima folla, l’aria affocata negli odiatissimi veleni del traffico. La morte confermava, così, quella solitudine che aveva segnato la sua vita di studioso. Supplemento di conferma, Raya tornava, solo (a ottantun anni e mezzo), da una conferenza culturale.
“Oltre il rogo non vive ira nemica”, si diceva una volta; e Benedetto Croce citava la sentenza a suggello della sua teoria della Storia come pensiero e come azione. La Storia in fieri, in quanto azione, “giudica e manda”, combatte e condanna; ma come pensiero, cioè storiografia, non giudica, giustifica. Vale a dire, spiega (dispiegando ragioni). La dottrina si applica anche ai protagonisti della cultura? Certamente. Ma la pratica è altra cosa: quale, per esempio, si presenta nel nostro caso. No, a Gino Raya la massima non è stata applicata. Nei vent’anni dalla morte, nessun segno di corale attenzione è venuto dal mondo culturale”: né da quello accademico né dal giornalistico. Solo pochi amici ne hanno risvegliata la memoria in occasione del decennale: ma privatamente, lontano dal moltiplicatore mediatico. Il mondo ha continuato a ignorarlo. Gino Raya rimane un autore vitando, un maudit: l’“ira nemica” continua a vivere oltre il rogo. Espressione (tra l’altro) da prendersi quasi alla lettera, essendo stato, il corpo, cremato, per sua coerente volontà testamentaria di materialista convinto. Quasi un estremo gesto di rivolta contro il plurimo “disordine” etico-culturale, che quel divergente genetico aveva largamente contestato con un’indipendenza di giudizio gelosamente difesa perfino dentro la giovanile militanza crociana. Nonché usata, spesso e volentieri, con asprezza sferzante, specialmente contro i palloni gonfiati delle diverse categorie: letterati, scrittori, critici, pensatori, politici.

Varia e copiosa, perciò, la schiera dei nemici presi di mira dalla frusta rayana. Che talvolta è sottilmente ironica e tagliente non meno della barettiana, altre volte alquanto umorale. Non c’è dubbio: faceva ben poco per farsi “accettare”. Diceva, il fiero Pertini, che l’uomo di carattere ha sempre un brutto carattere: è proprio il caso del nostro amico e compianto maestro. Qui, brutto significa, essenzialmente, fiero, coerente, poco incline alla tolleranza pelosa (o magari soltanto pietosa). E basta, questo stigma caratteriale, a legittimare l’ottusa ostilità dei suoi persecutori? Ottusa, perché largamente preconcetta e personalistica; e perché consumata, in prevalenza, con la più miserabile delle armi: la “congiura del silenzio”. Anche ipocrita, quell’ostracismo, visto che degli studi verghiani del Nostro si servono tutti: e questo è il solo caso che costringa gli utilizzatori a citarne il nome. Non mancano, però, esempi di vero e proprio furto: ci si appropria di suoi giudizi critici su questo o quell’autore o evento culturale senza citarne la fonte. Un furto che il collerico saccheggiato in qualche caso denunciò con l’accusa di plagio.

Lo si è anche accusato di atteggiarsi a martire, e forse c’è stata una certa enfatizzazione del ruolo: ma questo, il poco gradevole ruolo, gli era stato imposto, e anno dopo anno confermato, vieppiù intossicandolo. Un circolo vizioso: più Raya approfondiva la sua divergenza (di critico e pensatore) e più crescevano ripulse e silenzi. Ma anche: più montavano questi chocs en retour più si inaspriva l’animo ulcerato dello scomunicato vitando. Il movimento ricalca, in piccolo, il feed back positivo della cibernetica: l’effetto retro-agisce sulla causa intensificandone la forza, e questo incremento causale rifluisce sugli effetti amplificandoli. E’ quanto accade nelle valanghe o negli incendi. Se si pensa che la chemio-dinamica dei fenomeni biologici si basa sul prevalere del feed back negativo (l’effetto retro-agisce sulla causa depotenziandola) a salvaguardia degli equilibri vitali, si può capire come e quanto la salute psico-fisica di un perseguitato di acuta sensibilità debba soffrire. Magari fino a certe esplosioni di narcisismo reattivo poco congruenti con la sobrietà del carattere (allergico all’enfasi e ai facili elogi). O fino ai saltuari dubbi insensati sugli amici più veri e devoti, a certi sprechi di spazio della sua rivista per inutili foto-riproduzioni di lettere verghiane. Legati, questi sprechi, a un sintomo ancora più allarmante: il masochismo da ritorsione, che lo induceva a rifiutare per la sua rivista testi validissimi di qualche devoto allergico a sue richieste di facili libelli d’ispirazione famista,

Ma con tutti i suoi limiti caratteriali egli mi appare ancora un Gulliver fra lillipuziani nel confronto con la media attuale e tardo-storica (l’ultimo mezzo secolo o più) dei baroni in cattedra e degli operatori culturali in genere. E sia detto non per negare valori eminenti fra quei “baroni” e fra questi “operatori”, ma per relegarne l’eminenza dentro i perimetri dell’acquisito e del consolidato. Come dire: quei valentuomini sono bensì gremiti di erudizione e capaci di spostare qualche tassello e virgola del contesto metodologico ereditato (crocianesimo, marxismo, strutturalismo, decostruzionismo,…) e nell’area critica di questo o quell’argomento; ma dove cercare, in quel folto di prevalenti carrieristi schierati, l’idea nuova, la proposta che ti fa saltare dalla sedia o cattedra che sia? Dove, il dissenso radicale e ben motivato dai “valori” correnti, nel nome di una meno pigra e più controllabile scienza del mondo umano che quei valori ridefinisca e ridimensioni? Anni fa un “consulto” di cattedratici del nostro ateneo si chiedeva quale novità reale, e insomma rivoluzionaria, si fosse verificata in quella cittadella del sapere (anzi Sapere): guardandosi in faccia quei valentuomini furono costretti a riconoscere che la novità stava tutta e soltanto nelle scandalose teorie rayane: famismo e conseguente critica fisiologica. E qui un marziano, immune dai meriti terrestri, si figurerebbe che da quel riconoscimento il destino del Raya abbia galoppato in trionfale corsa di contrito risarcimento. Ma noi siamo sul pianeta Terra.
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Per non millantare un copyright che non ci compete, riveliamo subito che quei marziani spettano alla scrittrice Pina Ballario, la quale, quaranta e più anni fa, scrisse questa scherzosa iperbole: “Gino Raya sarà, come Vico, apprezzato fra cento anni, dopo la epurazione fatta dai Marziani sulla terra. Non so perché si temono gli omini verdi dei dischi volanti. Io e gli amici miei sparsi un po’ in ogni parte del mondo li aspettiamo. E renderanno giustizia a Gino Raya” (“Gazzetta di Novara”, 23. 02, 1963)
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Si potrebbe persino chiedere dove stia l’eccellenza espressiva degli eminenti, baroni di cattedra e big della libera prosa, inventiva o giornalistica, tanto rari sono i veri campioni di stile: conosciamo fior di “emeriti” che “non sanno scrivere”. Vale a dire che sono capaci al più di una prosetta ammodino, ampollosa o asfittica, dove la correttezza sintattica resta confinata all’aspetto grammaticale, senza sfiorare quella più vera sintassi che è “monoblocco” di pensiero-passione profondo e fulgido stile di stretta fitness. Una sintesi che vuole estro, arguzia, ritmo sequenziale, originalità di immagini e agilità comunicativa (fuggendo come la peste le lungaggini le cacofonie e l’ingorgo ipotattico). Ebbene, questo binomio raro, sostanza ed eleganza, Raya lo realizzava in ogni suo scritto (e sia pure con l’inevitabile “più o meno” di ogni prova umana nel tempo); gli altri, quando sono al top, si fermano a rapsodici decori e calchi “brillanti”. Il prosatore Raya (sia critico che narratore) fa pensare, tra l’altro, alla “regola” di Ivo Andric: “una parola superflua non dovrebbe mai essere pronunciata”, e proprio perché “nulla più della lingua induce allo spreco e al peccato”. L’autore più lontano da siffatti sprechi e “peccati”: ecco il prosatore Raya. Una qualità che gli veniva riconosciuta dalle poche celebrità oneste e non prevenute. Parlando della rivista Narrativa (fondata dal Raya nel 1956, trasformata, nel 1966, in Biologia culturale), Maria Bellonci scriveva: “Pubblica racconti e scritti critici dove non una parola sia superflua o convenzionale o bugiarda, e dimostra […] l’assoluta coincidenza fra arte e morale” (Il Giorno, 26. 04. 1960). E Antonio Aniante, a sua volta, coglie nello stile rayano l’elegante sintassi qui segnalata, attribuendola “a una forte carica culturale, aggressiva, sadica, immaginosa”, declinabile in questi termini: “La carica culturale utilizza gli strumenti volta a volta più idonei, dalla scienza alla cronaca nera. La carica aggressiva spiega la schiettezza e la densità del dettato, che punta al suo tema senza preamboli complimenti mezzi termini in genere. Nel processo aggressivo-polemico si dispiegano due fenomeni: quello sadico e quello umoristico; entrambi connessi al senso del ritmo. Solo che il ritmo del sadico corrisponde ad un certo compiacimento impietoso, e il ritmo dell’umorista corregge la crudeltà del sadico dirottandola nell’arguzia o nella risata” (Antonio Aniante, Il famismo, Milano, Pan editrice 1977). Non ci vengono in mente che due soli nomi di scrittori paragonabili al Raya: Concetto Marchesi e Gesualdo Bufalino. In modi diversi, ma ugualmente eccellenti, ti deliziano con la loro arguzia, fantasia, discreta ma schietta sensualità, audacia traslativa, laica profondità di pensiero, ironia dissacrante e commossa saggezza. La loro prosa te la senti quasi in bocca, come una leccornia che seduce il palato. E sia detto senza nulla togliere alle buone scritture del nostro panorama letterario novecentesco.
Il titolo di Aniante ci riporta al maggiore contributo di pensiero osato dal Raya. Il quale, all’alba dei suoi cinquant’anni, comincia a sviluppare quella estrema reductio ad corpus che è la dottrina famista o biologia culturale. Testo fondamentale, La fame. Filosofia senza maiuscole (Padova, 1961, con prefazione di Luigi Volpicelli. 3a ed., Roma, 1974). Libro spregiudicato e geniale, che, risalendo, secondo un aggiornato metodo vichiano (“Natura di cose è nascimento di esse…”), la vicenda filogenetica, trova nell’innesco metabolico della primordiale chimica organica l’origine e la sostanza costante della vita nella sua infinita fenomenologia. Siffatta impostazione porta a includere in quell’unica matrice l’uomo intero, “dalla testa al calcagno” (come recita una celebre formula). Dunque, anche l’intera gamma dei fenomeni mentali e cosiddetti spirituali, con totale ripudio della millenaria interpretazione dualistica o platonizzante. Un itinerario, insomma, dove ogni parametro antropico specifico (razionalità, affettività, cultura, religione. arte…) viene letto come sviluppo fisiologico del corpo nelle sue strutture “nobili” (cervello, ecc.) e accostato ad analoghe e più elementari funzioni del mondo animale. Il punto focale dell’homo novus famista sta nell’unicità del primum movens di ogni sua azione, di muscoli o di pensiero. Il benservito spetta alla ragione come categoria metafisica e presunta motrice di pensieri “spassionati”, di teoresi libera dalle emozioni. Il famismo dice: nessuna azione o respiro senza il movente passionale, che ricondotto alla sua radice basale, è sempre una modalità della pulsione fagica, un appetito. L’unica razionalità possibile sta nell’autodisciplina tecnica della passione-appetito, che può rivolgersi a una pagnotta come a un libro, a un corpo o a un cuore, e cioè secondo una sterminata gamma di trasposizioni. In ognuna delle quale affiora la originaria bivalenza del rapporto fagico: gradire o rifiutare. Di qui la visione antropofagica dell’eros. Quella spinta originaria non può non agire in ogni emozione. La normalità del freno anti-incorporazione nell’amore non deve cancellare la ricorrente prova tragica del delitto passionale come metafora dell’ingestione; né i casi di regressione cannibalica verso il corpo bramato. In questa severa reductio biotrofica l’arte non può essere che danza, ossia mimesi ritmica dell’atto fagico comunque trasposto (dislocato, sublimato o mascherato).
All’uscita del libro era facile prevedere quanto si è puntualmente verificato: salvo pochissime, nobili eccezioni, il resto sono reazioni di indignato raccapriccio presso le anime timorate (ivi compresi i grandi Tartufi dotti e cattolici); di superciliose ironie nei campioni dell’accademia sedicente laica (così tributaria, in rebus, della secolare tradizione metafisico-religiosa: anche quando si autocertifica materialistica). Troppo sconvolgente, la Weltanshauung rayana, per la varia pigrizia mentale dell’intellighentsia maggioritaria, non solo italiana, ma planetaria. La quale risponde riconfermando ad augendum quei valori assolutizzati che Raya chiama maiuscole (per l’iniziale un tempo d’obbligo nei relativi lessemi). E che, purtroppo, stanno dimostrando una vitalità tetragona ai colpi dell’evidenza, moltiplicando l’orrore del mondo con le quotidiane stragi del terrorismo islamico e dell’altrettanto criminale stragismo indiscriminato dei cosiddetti Paesi civili e democratici, come gli Usa e certi loro satelliti. Che in entrambi i casi la catalisi religiosa operante nelle diverse forme del fanatismo strumentale sia evidente nel suo aspetto più cinico e catastrofico non turba i sogni del quietismo mammonico ammantato di sonanti ideali. La voce del fantasma rayano, così chiara e forte contro le maiuscole potenzialmente assassine, continua a gridare nel deserto.
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Questo è l’uomo cui si continua a far torto anche da cenere. Gli universitari, quando gli proponi di fare qualcosa per ricordarlo, si defilano. Qualcuno perfino “scusandosi col dir non lo conosco”. Ma non è solo il mondo accademico a recitare de Raya il poco gagliardo ruolo delle tre scimmiette (“non vedo non sento non parlo”): il variegato e altrettanto discutibile universo giornalistico non è da meno. Anzi. Giornali che il Defunto onorò per decenni si guardano bene dall’onorarne le ricorrenze. Tra questi spicca per assenza ribalda La Sicilia, che Raya illustrò per oltre mezzo secolo con i suoi eleganti elzeviri e “Servizi speciali” (da anniversari celebri: veri densi saggi critici).
Ma i responsabili del quotidiano hanno fatto di peggio. Alla notizia della morte, mi si chiese il classico coccodrillo (ero il seguace più in, e collaboravo, come tale, a quelle pagine culturali dal 1974). Lo scrissi, contenendolo nelle nuove misure imposte dalla rinnovata redazione culturale. Lo portai, come al solito, ignorando che lo stavo mandando al macello. L’articolo fu squartato: un pezzettino-civetta in prima pagina, il “servizio”, sfigurato da tagli infelici, a pg.24, tra il vario ciarpame dell’Attualità. Eppure era uno schietto pezzo da terza pagina. La piccola infamia suscitò indignazione tra amici conoscenti alunni del mio liceo: tra questi, una animosa fanciulla (Mariagrazia Finocchiaro) scrisse una vibrata lettera di protesta al giornale, che, con “piacevole sorpresa” dell’autrice, la pubblicò (18. XII. 1987, “La parola ai lettori”; titolo La biografia di Gino Raya): unica, inattesa, goccia di gratificazione pubblica (o piuttosto di risarcimento) in quel mini-evento di ordinaria cialtroneria. Ancora mi chiedo come mai sia stata pubblicata la lettera. E per opera di chi. Qualcuno, in quel cafàrnao di nuovi Soloni e grilli parlanti, dovette accorgersi che la si era fatta grossa: non s’erano offese soltanto due qualificate firme del giornale, ma lo stesso quotidiano, sfregiato da quel sezionamento imbecille. Altra inevitabile domanda: in quale sacco gastrico ribolliva l’incomprensibile odio verso il binomio così seviziato?
E il suo paese natale, la sua piccola patria, Mineo, che tanto giusto onore tributa al grande Capuana (Monumento in piazza, fondazione, vie, ecc)? Cos’ha fatto per quest’altro suo figlio? Nulla, che io sappia: neppure, forse, intitolarne una via, una piazza, un vicolo. Non ci è capitato di vederne, nei nostri due approdi a quella attraente meta natalizia. Si vedono, bensì, i libri del Raya che si occupano di Don Lisi, tra le mille pubblicazioni esposte nel palazzo di famiglia; ma tutto finisce lì. Chi dicesse a quei distratti amministratori che per valore culturale e genialità Raya è molto più alto del maestoso monumento del pur bravo narratore e critico e professore e folklorista e burlone fotografo ex sindaco don Luigi, li farebbe sorridere di ironia e compassione. Diremo, “Ai posteri”? Ma quali? Quando? Risuonano le dolenti note del Leopardi che fantastica del Parini, o della gloria. Egli, però, l’Infelice di Recanati, da cenere, di gloria ne ha avuta da riempire il pianeta e i secoli. Raya si deve accontentare di una dispersa presenza in rete (in vari siti è possibile trovare i suoi libri), dove lo studioso italianista (e dantista in particolare) nel suo sito internet Literary gli rende giustizia inserendolo fra i suoi densi Profili letterari siciliani dei secoli XVIII-XX (in cui ospita perfino il modesto sottoscritto). Gli siano rese grazie: non è quanto spetterebbe all’Ostracizzato, ma il poco è sempre meglio del niente. Al relativamente poco dell’infaticabile Ciccia è doveroso aggiungere il nome di Paolo Anelli, precoce autore di un vibrante pamphlet sul “Caso Raya”: Il silenzio delle farfalle infilzate. Sottotitolo: “La danza della vendetta di Gino Raya” (Firenze, Atheneum, 1991). Una testimonianza che è sempre un piacere rileggere. Intanto chi avrebbe pronti, da anni, un paio di robusti saggi, non può pubblicarli: la pensione di prof. di filosofia nei licei non consiglia consistenti spese extra-domestiche. Quanto alla famiglia del Rimpianto, opaco silenzio sull’argomento.  GINO RAYA, A VENT’ANNI DALLA MORTE










giovedì 8 maggio 2014

Saverlo Fiducia - Cantore di uomini e cose

Scrisse una volta Saverio Fiducia che pensando alla Catania dell'ultimo Ottocento, anche senza chiudere gli occhi, gli pareva di sognare. Chi lo conobbe, può credergli. Perché Catania l'amava veramente e più di tutti. E guai a chi osava disprezzarla o contraddirlo.

Saverio Fiducia, Catania 1878/1970 

Ricordava con precisione e minuzia ineguagliabili tutta la infinità di cose, di uomini, di avvenimenti visti e vissuti e per cui, fin da ragazzo, aveva sempre avuto sguardi non solo attenti, ma da vero innamorato. La sera del 31 maggio 1890 suo padre lo portò all'inaugurazione del Teatro Bellini. Non aveva ancora dodici anni e, dopo ottant'anni, Saverio Fiducia non aveva dimenticato nulla di quel sogno incantevole. Suo padre era impiegato al Comune. Naturale, quindi, che il piccolo Saverio vi si recasse spesso.                                 
Che cosa facesse di preciso non saprei dirlo. « Giovinetto lavoravo all'Archivio », ha lasciato scritto in certi suoi appunti di diario. Certo, l'amore per l'arte, per la storia, per i monumenti dovette germogliare in lui fra le montagne di carte, in mezzo agli austeri saloni e scaloni, ai monumentali archi e alle possenti colonne del sontuoso palazzo Vaccariniano. Perciò, quando nel 1944 lo incendiarono, Saverio Fiducia ne soffrì più di tutti. Aveva frequentato solo le tecniche, compagno e coetaneo del poeta Giovanni Formisano. Avrebbe poi voluto recarsi a studiare pittura a Napoli, o a Roma, o a Firenze. Non fu possibile. Si accontentò di frequentare la scuola serale di disegno « Figli del lavoro ». Vi insegnava, fra gli altri insegnanti, Francesco Toscano, disegnatore e acquarellista dell'architetto Carlo Sada. E Fiducia, alla fine dei quattro anni di corso, vinse il primo premio. In gioventù non solo disegnava, ma dipingeva bene. E chi, come il sottoscritto, ha potuto ammirare suoi disegni e dipinti, sa quello che dice. Frequentò anche una scuola di scherma e divenne amico di Agesilao Greco.
Mentre come giornalista Saverio Fiducia esordì nel 1923 con gli articoli apparsi in « Siciliana », la rivista fondata e diretta da Natale Scalia e poi, morto Scalia, dallo stesso Fiducia; la sua passione per il teatro, che s'era rivelata in lui quando ancora quinquenne il padre lo portava agli spettacoli di lirica e di prosa, aveva dato i primi frutti nel 1912 con due atti unici in lingua: « La nube » e « Il singhiozzo nell'alcova », che però non furono mai rappresentati. La prima affermazione l'ebbe con la commedia in dialetto « Notti senz'alba », la quale, presentata nel 1914 da Giovanni Grasso jr. al Politeama Garibaldi di Palermo, riscosse un gran successo. Il 2 luglio 1921 Grasso senior la fece trionfare anche al Lirico di Milano. E ciò nonostante, come ebbe a scrivere lo stesso Fiducia, fosse stata « stroncata da Renato Si-moni, plagiata da Ugo Betti e poi lodata da Saverio Procida ». Nel 1929 lo stesso Grasso senior ne farà una delle sue migliori interpretazioni in una sua serata d'onore al Rojal Theatre di New York.
Altri notevoli successi sono all'attivo di Saverio Fiducia: nel 1928 « Li du' surgivi » (Siracusa, interprete Turi Pandolfini); nel 1929 « Dòmini » (Palermo, interpreti Giovanni Grasso jr. e Virginia Balistrieri); nel 1930 « Vicolo delle Belle » in lingua e col commento musicale del maestro F. P. Frontini (Catania, interprete Turi Pandolfini).
A proposito de « Li du' surgivi », quando nel giugno del 1968 furono riprese nel nostro Teatro Rosina Anselmi con la regìa di Carmelo Molino, che suggerì a Fiducia, e Fiducia accettò, alcuni tagli e variazioni, il successo si rinnovò. Specialmente alla fine del secondo atto, quando escono di scena, muti e sotto lo scampanio festoso della vicina chiesa, i due vecchietti (massaru 'Nniria e 'a matri scanusciuta), il pubblico andò in delirio. E Saverio Fiducia, commosso e felice come un giovane autore alle prime armi, disse che mai quel suo lavoro era stato recitato così stupendamente.
Ma per il teatro non scrisse soltanto codesti lavori. Ne scrisse molti altri che per brevità non elenchiamo e che non tutti furono rappresentati. Ricordiamo soltanto « Solitudini », tre atti scritti nel 1936, che piacquero a Maria Melato e che li avrebbe rappresentati se intanto, per ragioni politiche, non fosse stata sciolta la sua Compagnia.
Per la RAI, oltre il bozzetto in un atto « Caffè notturno » e a svariate conversazioni e riduzioni, tra cui « La lupa » e « La caccia al lupo » di Verga, « San Giovanni decollato » di Martoglio, « U spirdu » di A. Russo Giusti, tradusse « Bellavista » di Pirandello e, dal napoletano, « Addio mia bella Napoli » di Ernesto Murolo, che, giudicata « felice », fu data nel nostro Teatro Coppola la sera del 12 febbraio 1920 con un discorso introduttivo di Francesco De Felice. 



A eccezione delle cento e una « Passeggiate sentimentali » raccolte nel volume edito dal Giannotta, la produzione di Saverio Fiducia è rimasta disseminata e dispersa in giornali e riviste, e, per la parte teatrale, nei copioni i quali, insieme con i racconti in gran parte inediti, sono custoditi, con non pochi altri ricordi e manoscritti del padre, da una delle sue due figlie, la signora Santuzza Cambellotti.
Dopo il suo esordio in « Siciliana » Saverio Fiducia collaborò al « Giornale dell'Isola », allora diretto da Gioacchino Di Stefano; fu dal 1929 al 1935 con Luigi Gandolfo segretario di redazione della rivista del Comune « Catania », diretta da Guido Libertini, e, chiamatovi da Piero Saporiti e Vito Mar Nicolosi, fu critico cinematografico del « Popolo di Sicilia », incarico poi passato, con grande amarezza del Fiducia, a Ottavio Profeta. Nel 1952, riprese le pubblicazioni la rivista del Comune, vi fu richiamato e vi rimase, spiegando grande impegno e amore, fino alla cessazione, avvenuta nel dicembre del 1962. Sorta, anzi risorta, nel 1947, « La Sicilia », vi iniziò la collaborazione. Qui, in queste colonne, apparvero tutte le sue « Passeggiate sentimentali » (l'ultima rimase incompleta nella macchina da scrivere), diecine e diecine di articoli vari d'interese storico, civico, artistico, nonché racconti e novelle e, inoltre, delle rubriche come « Echi », « Cartoline illustrate ». Rubriche simili aveva tenuto anche in altri quotidiani. Ricordiamo: « Periscopio cittadino », « Itinerario sentimentale », « Le luci della città » e altre.
In merito ai racconti e alle novelle, ecco un particolare che nessuno o solo pochi ìntimi conoscono. Ne aveva preparato un volume, per lo più inediti, ma non ebbe il tempo di vederlo stampato. E fu questa, certo, un'amarezza che si portò nella tomba. Lo aveva consegnato circa un anno prima di spirare a un libraio, che voleva iniziare la sua attività editoriale proprio con un volume di Fiducia. Ma poi, per varie ragioni, le cose andarono alle lunghe, Tutte le volte che Fiducia andava a sollecitarne la stampa voleva che lo accompagnassi io, non per altro che per l'amicizia che ci legava. Ma quando il male si rivelò inesorabile, volle (rammento con angoscia ancora la telefonata di casa sua) che andassi io a ritirare il manoscritto. E quando lo riebbe, provò tanta gioia che sembrava guarito.
Un'altra cosa conosciuta da pochi, è questa. Le « Passeggiate » non dovevano essere raccolte in volume dall'editore Niccolò Giannotta, bensì dal prof. Venero Girgenti, direttore de « La Tecnica della scuola ». L'accordo tra Fiducia e Girgenti era stato raggiunto. La spesa sarebbe stata divisa a metà. Ma, a un certo punto, entra in scena Giannotta, e riesce, consenziente però Girgenti, a guadagnare Fiducia alla sua casa editrice. E così, il primo volume delle « Passeggiate sentimentali », anziché Girgenti, lo stampò Giannotta. Girgenti ne ebbe una copia con la seguente dedica: « A Venero Girgenti, artefice principale della pubblicazione di questo libro, memore e grato Saverio Fiducia ». Chi volesse saperne di più, vada a leggersi, nel fase. n. 8 di giovedì 25 gennaio 1973 de « La Tecnica della scuola », l'articolo di Venero Girgenti.

"Vicolo delle belle" commedia di Saverio Fiducia con commenti musicali di F.P. Frontini (1930)



La mia amicizia con Saverio Fiducia nacque subito dopo la guerra '15-'18, quando io, giarrese, venni a stabilirmi a Catania. E se anch'io, non catanese, mi sono innamorato di Catania, lo devo principalmente a Saverio Fiducia. Fu il suo amore che infiammò il mio. Del resto, non si poteva essere suo amico se non si amava Catania.

* La Sicilia, 13.05.1975 Francesco Granata 

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ll dramma di una vita - Francesco Paolo Frontini 1860/1939



martedì 17 gennaio 2012

Vaccalluzzo Nunzio, critico letterario (Leonforte il 2 gennaio 1871 - Catania 26 marzo1937)

-Io scendo dalla cattedra a testa alta, dopo aver dato tutto alla scuola, nulla chiesto e nulla avuto. Scendo sereno, senza rancore per nessuno; senza tessera sul petto, ma con l'Italia sempre nel cuore." -
Compì gli studi secondari classici in Acireale e gli universitari in Catania, dove si laureò in lettere.
Dedicatosi all' insegnamento fu destinato prima alle classi aggiunte del R. Liceo ginnasio Spedalieri di Catania, quindi passò alla cattedra di lettere italiane nel R. Liceo Cutelli della medesima città, libero docente fin dal 1921, fu uno studioso e critico. Al suo congedo dalla scuola poteva vantare un'intensa attività scolastica e letteraria: 40 anni di insegnamento tra liceale e universitario e 19 volumi pubblicati. In sintonia con la storiografia desanctisiana, Vaccalluzzo prediligeva gli scrittori di forte coscienza morale e civile.
Conoscitore degli scrittori Risorgimentali, Vaccalluzzo scrisse una esauriente biografia su Massimo D'Azeglio, nella quale era indagata non solo l'attività del letterato e dello scrittore ma anche quella dell'agitatore politico e dell'uomo di stato. Inoltre curò un'antologia della poesia di Mario Rapisardi, al quale riserbò giudizi penetranti che incontrarono il plauso di Antonio Gramsci, che cita Vaccalluzzo nei "Quaderni del carcere".
Fu incline alla ricerca erudita accoppiata a una fine sensibilità estranea al neostoricismo crociano e alla critica estetica.
Francesco Guglielmino, professore di letteratura greca all'università di Catania, che ebbe Vaccalluzzo collega al liceo Spedalieri, così lo ricordò dopo la sua scomparsa: "Come insegnante fu austero e rigido, giacché aveva un alto concetto del compito educativo della scuola […]. Come uomo fu un carattere sdegnoso di accomodamenti e di transazioni, di piaggerie ai potenti e doppiezze". Parole che spiegano bene il perché della sua breve carriera universitaria che, impedendogli di dialogare con gli interessi culturali della collettività catanese, lo angustiò non poco. Carriera universitaria ostacolata dal fatto di non avere mai sconfessato la firma sottoscritta al manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce e pubblicato sul "Mondo" il 1° maggio 1925.
Vaccalluzzo non piegò le esigenze della sua disciplina a quelle superiori della politica.



(di Vitaliano Brancati)*** ..... La sua è la generazione di Salvatore Battaglia e Vincenzo Pernicone – che frequentano il Ginnasio ad Adernò (Adrano) per poi scegliere di fare il Liceo a Catania, allo Spedalieri – e di Gino Raya, con cui fonda la rivista «Ebe», piena di velleità estetizzanti e poco longeva. Hanno tutti tra i quindici e i sedici anni quando vanno a scuola con Francesco Guglielmino e Nunzio Vaccaluzzo.
«Fu al Liceo Spedalieri di Catania che scoprimmo la nostra vocazione agli studi letterari, sollecitati da due insegnanti di eccezione per la loro cultura di livello universitario: Francesco Gugliemino per latino e greco, Nunzio Vaccalluzzo per l’italiano», scriverà anni dopo Vincenzo Pernicone ricordando la figura dell’amico, grande filologo e critico, Salvatore Battaglia. Entrambi a lungo docenti della sezione “A classica”, liberi docenti presso la Facoltà di Lettere di Catania e amici nella vita, Guglielmino e Vaccalluzzo, si collocano su una linea che confluisce – attraverso la critica romantica e positivistica – nella tradizione della scuola storica; Vaccalluzo in particolare, che continuò per decenni ad adottare il manuale di Bacci e D’Ancona, dovette rimanere inizialmente spiazzato di fronte alle prime ubriacature crociane, che considerava una ingiusta svalutazione del metodo del D’Ancona e del Rajna. Dalla difficoltà nel muoversi nello scivoloso terreno del giudizio estetico deriva la sua titubanza timorosa nelle valutazioni e nelle stroncature e forse anche il ritardo con cui la Biblioteca d’Istituto acquisisce i testi fondamentali di Croce. Ma era animato da un forte senso della virtù e della funzione pubblica dell’intellettuale (diresse per decenni a titolo gratuito la Biblioteca civica “V. Bellini”), ciò che spiega il suo antifascismo e la sua propensione per gli aspetti politici e civili della produzione degli autori, che traspare anche dai titoli dei temi da lui assegnati in terza liceale (cfr. Annuario 1924-1925).
..Perché proprio Guglielmino e Vaccalluzzo furono in grado di mettere in ombra l’operato degli altri insegnanti e di ritrovarsi al centro di una vicenda di formazione, in alcuni casi intesa come vera e propria Bildung esistenziale? Erano due docenti a cavallo tra scuola e università, dove potevano lavorare a fianco di un Momigliano o di un Casella. Attorno a loro si respirava la stessa aria che era stata di Rapisardi (maestro di Vaccalluzzo), di Verga, di Capuana, di De Roberto (amico di Guglielmino). Pur non godendo di una consolidata fama scientifica (ma il valore della monografia di Vaccalluzzo su D’Azeglio fu da più parti riconosciuto) pubblicavano incessantemente saggi e studi, erano aperti, attenti, curiosi, attivi all’interno della pubblicistica locale e sufficientemente collegati al dibattito nazionale. L’apprendistato presso di loro fu un volano fondamentale per quanti, come Raya, Brancati, Battaglia e Pernicone, nutrissero ambizioni nell’ambito critico o letterario. Attorno a loro (specie attorno a Guglielmino) presto si coagulò un mito....

**Bibliografia:
La Sicilia Intellettuale, Catania 1912
Da La Sicilia di Mercoledì 08 Giugno 2011 di Lorenzo Catania
I luoghi, la memoria, i miti di Anna Carta
OPAC SBN



*Opere















Dei poeti latini della battaglia di Lepanto / Nunzio Vaccalluzzo Catania : r. tip. cav. N. Giannotta, 1909



Carlo Goldoni / Nunzio Vaccalluzzo Messina : Principato, 1914





Una lettera inedita di Pietro Giordani / Nunzio Vaccalluzzo Napoli : Societa Anonima Ed. F. Perrella, 1917








Milano : Hoepli, 1921











Massimo D'azeglio Roma : Anon. Romana Edit., 1925 (R. Garroni)

Francesco Petrarca, Rime : Con note del prof. Nunzio Vaccalluzzo Catania : C. Galatola Edit. Tip., 1925




Poemetti mitologici / Vincenzo Monti ; introduzione e note di Nunzio Vaccalluzzo Torino : Unione Tipografico-Editrice Torinese, stampa 1927






Ippolito Pindemonte a Catania / Nunzio Vaccalluzzo Catania : S. A. Editoriale siciliana tipografica, 1933

Livorno : R. Giusti, 1933

Dante esule / Nunzio Vaccalluzzo Catania : Studio Editoriale Moderno, 1934




La poesia di Mario Rapisardi / Nunzio Vaccalluzzo Roma : Nuova antologia ; Bestetti e Tumminelli, s. d