Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

lunedì 13 aprile 2015

La Biblioteca di Mario Rapisardi e intervista con Amelia Poniatowski



La Biblioteca di Mario Rapisardi - di Rodolfo de Mattei

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Rivista mensile "la parola e il libro" n.4 1963



Intervista con Amelia Poniatowski, compagna del Poeta
Oblio e odio, di Lorenzo Vigo - Fazio.

Pregai un mio amico adulto, il Prof. Giorgio Buscema, d'accompagnarmi, e andai con lui a bussare alla porta dell'appartamento, che fu l'ultima abitazione dello scrittore.

La Signora Amelia Poniatowski e il Dr. Alfio Tomaselli, a cui ella, da pochi giorni, era andata sposa, ci accolsero garbatamente e mi fornirono le notizie che desideravo.

Così, «Il Tirso» di Roma, periodico d'arte fondato da Gabriele D'Annunzio, nel n. 36 della decima annata, il 16 Novembre del 1913, pubblicò, in prima pagina, su quattro colonne, il mio articolo: «Oblio e odio alla memoria di Mario Rapisardi (Intervista con Amelia Poniatowski, compagna del Poeta ».

Ne riproduco, qui appresso, alcuni passi salienti: 

«- Oh, come sono contenta della loro visita!... Avrei dovuto mandare io qualche cosa ai giornali del continente, per protestare contro questa indegna congiura d'odio e d'oblio... Ma giacché loro hanno avuto la bella idea di venirmi a trovare, non ne fa più d'uopo. - Ci dice la Signora Poniatowski ».
...« - Come hanno veduto, la casa ha perduto la fisionomia di prima, perfino la terrazza, così cara a Mario, scompare... »

« - Ma ci dica: non ha reagito ella contro questa violazione? »

«- S'io abbia reagito!... - esclama calorosamente. - Ma se io mi sono votata a tutti i santi... del potere: a sindaci, a deputati, a municipi, a giunte...».

« E non le hanno dato ascolto? »

«Neanche per sogno. Il padrone di casa mi ha risposto che s'era messo d'accordo col Municipio.
Ne ho parlato ad artisti, a letterati, a politici. Nessuno ha saputo impedire... quest'accordo. »
«Sarà stato forse perchè Mario, ch'era un'anima alta e nobile, ed ebbe sempre il torto di dire la verità - la quale certe volte riesce amara - scrisse qualche parola frizzante contro municipi, sindaci, onorevoli, giunte comunali, amministrative, ecc. Ed ora se ne vendicano... »
« - E' la vendetta dei vili! - soggiunse il mio amico. »
« - Con l'odio, il disprezzo, l'oblio... Ma Mario resta sempre quello che è; io lo chiamo l'Uomo della verità. »

« - E sanno cosa se n'è fatto del cadavere? - ci chiede il dottore. »

« - Ecco, lo spiego loro subito. - soggiunge la Signora Amelia - Il 4 Gennaio, farà due anni che il Grande e scomparso. Ed è da quasi due anni, perciò, che il suo corpo giace, non ancora tumulato, nell'ufficio del cappellano del cimitero... Quel povero dottore che l'ha imbalsamato, affinché i sorci non lo mangiassero, ha usato tutti i mezzi... Perché le mosche non cadano nel piatto, ci mettiamo sopra una coppa di rete metallica, così hanno fatto con lui... »

« - E nessuno reclama? - gridai. »

« - L'altro giorno, un gruppo di giovani, in segno di protesta, venne ad apporre quella lapide - ci dice ella, mostrandoci col dito, appoggiata ad una sedia, una lastra di marmo d'un metro quadrato circa. -
Trascrivo quello che vi sta scritto:

RICORDANDO L'IMMORTALE MAESTRO MARIO RAPISARDI
GLI STUDENTI UNIVERSITARI
XX Settembre 1913

« - Si figuri che costoro che si dicono discepoli di Mario, attaccarono la lastra sul muro del domicilio del Signor Chiarenza!... E che chiasso fecero!... »
« Appena io mi fui accorta dell'errore, dissi: - Non sono ancora due anni che Mario Rapisardi è morto, e non vi ricordate più dove è vissuto! - »
« Ed ordinai subito che togliessero quella lapide. ».

-Ed i mobili?

« - Sono rinchiusi la dentro - ci dice, indicandoci la porta a tramontana (quella dello studio), che è chiusa con diversi lucchetti. - Un numero rilevante di volte ho mandato a dire al Municipio che li tolgano, e non li lascino rodere dai tarli, ma coloro fanno orecchio da mercante. Anzi, ogni volta, hanno mandato qualcuno, per aggiungere un altro lucchetto; e l'ultima volta, fecero ricoprire esternamente di latta le imposte dei due balconi dello studio. »

« I manoscritti, almeno, sono al sicuro? »

« - Ma che! Sono pure la dentro, gettati per terra, alla rinfusa... »
« Dio voglia che i topi li abbiano rispettati. Se ne trovano fra essi alcuni inediti, che Mario scrisse, adolescente, fra la vita e la morte. Anche quelli della "Palingenesi" e d'altre opere. »
« - Perché il Municipio non li rileva? E tutti gli oggetti sono catalogati? »
« - Niente affatto. Prima di morire, Mario mi diceva sempre: "Cataloghiamoli! Cataloghiamoli!" E loro: "C'e tempo! C'e tempo!" ».

...« Loro che sono liberi scrivano, scrivano tutte queste cose che il pubblico non sa! »

« Promettiamo di dire tutta la verità ai nostri lettori, e ringraziando, ce n'andiamo, con nel cuore, un sacro impeto di sdegno. »

La pubblicazione di tale mio articolo suscitò uno scalpore più grande del previsto. Numerosissimi furono i quotidiani, le riviste, i periodici che lo riprodussero o lo riassunsero; e tutti, prendendo le mosse dalla vibrante nota di protesta, che il Comitato di Redazione del « Tirso » vi aveva posto in calce. Anche taluni importanti quotidiani stranieri pubblicarono quanto io avevo denunciato all'opinione pubblica, biasimando l'incuria del Municipio di Catania.

La stampa catanese quotidiana e periodica faceva larga eco all'indignazione nazionale ed estera.
Così che l'amministrazione municipale fu costretta a provvedere al più presto a dare onorata sepoltura al Poeta; ed invitò Carlo Pascal a commemorarlo, nel Teatro Massimo Bellini.

Ricorderò sempre con compiacimento codesto coraggioso episodio giornalistico della mia adolescenza, il quale mi procurò la malevolenza dei responsabili dell'abbandono, in cui erano stati lasciati li cadavere di Mario Rapisardi e le sue cose; e d'altro canto, segno l'inizio della campagna, da me durata in Italia ed all'estero, per diffondere il pensiero del Poeta, rivalutarne l'opera e difenderne la fama(1).



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(1) Nel 1922, commemorai, in Catania, il X anniversario della morte di M. Rapisardi, pronunciando, nel Teatro Massimo Bellini, un discorso su « L'epistolario inedito di Mario Rapisardi », che fa parte del mio volume « Saggi e Discorsi», edito, nel 1925, da « Bottega d'Arte » di Carpi di Modena.
Ho scritto del Rapisardi, su tanti giornali e riviste; e nei periodici da me diretti «Endimione» (Casa editrice «Ausonia », Roma) e « Rivista di Catania e del Meridione », la vita e l'opera del Poeta vi furono ampiamente illustrate.

Nel 1930 l'editore Alfredo Formica di Torino pubblicò la raccolta, a cui avevo atteso per quindici anni: « Mario Rapisardi: Prose, Poesie, Lettere postume, raccolte e ordinate da Lorenzo Vigo-Fazio ».
Il 4 Gennaio del 1933, in Parigi, nella sede della «Dante Alighieri», commemorai il XXI anniversario della morte del Poeta, tenendovi un discorso su « L'opera e la fortuna di Mario Rapisardi», il quale, nel 1955, fu pubblicato in opuscolo estratto dalla « Rivista di Lecco ».

II 3 Febbraio del 1944, l'Assemblea dei Soci del Centro di Studi Rapisardiani, in Catania, mi elesse suo Socio onorario; e nella seduta del 7 Novembre 1954, in seguito alla morte del suo illustre Presidente, Prof. Francesco Marietta, mi chiamò, con voto unanime, a succedergli, in tale carica. Nel 1962, il Centro di Studi Rapisardiani in Catania pubblicò il mio libro: « Mario Rapisardi nel cinquantenario della morte ».


domenica 12 aprile 2015

Critica e polemica letteraria a Carduci, Croce e D'Annunzio di Andrea Lo Forte Randi, con cenni biografici sull'autore 1845/1916


"Una testa che pensa non evoca nulla dal regno della morte che non possa servire utilmente alla vita presente e interessare quella avvenire." 
 Andrea Lo Forte Randi, pseudonimo di Francesco Ladenarda (Palermo1845 –Palermo1916), è stato uno scrittore italiano.



Andrea Lo Forte Randi 1845.1916 Introduzione qui

La Polemica lett. 1° parte qui

La Polemica lett. 2° parte qui


  • Feticisti Carduccini, ed. G. Pedone Lauriel, Palermo 1912 - vedi qui

Tratto da Lettera aperta a Benedetto Croce, ed. G. Pedone Lauriel, Palermo 1915, di FR. Enotrio Ladenarda, pseudonimo di Andrea Lo Forte Randi, critico insigne. (Dello stesso autore: Giosuè Carducci Vol.1° e 2°, Feticisti Carduccini, 1912.)

Sul Carducci, scrissi due libri per dire alle genti: L'uomo di cui avete fatto l'apoteosi fu un volgare tornacontista, ed eccone qua le prove:

— Egli cantò la bianca croce di Savoia: ma a Versailles aveva già – con l'ajuto di Emanuele Kant – decapitato un re.

— Egli, nell'Adige, celebrò il re Umberto: ma nell' Anniversario della Repubblica aveva già detto corna della monarchia.

— Egli chiamò il Giuseppe Mazzini: «Ezechiele in Campidoglio»; ma aveva già chiamato il Mazzini: «il sultano della libertà che mandava sicari ad ammazzare i galantuomini.»

— Aveva cantato il diavolo in un inno che fece andare in visibilio tutti i marinatori delle scuole d'Italia, onde era salito, di primo acchito, alla gloria di poeta di Satana; ma poscia quell'inno egli chiamò chitarronata, e ragazzacci sgrammaticanti chiamò coloro che, a causa di quell'inno, avevano strombazzato il suo nome alle quattro plaghe del mondo.

— Aveva schiaffeggiato il Galileo di rosse chiome e decapitato Dio con l'ajuto del Robespierre; ma poscia inneggiò alla chiesa di Polenta, alla dolce figlia di Jesse, a Dio ottimo massimo.

— Aveva scritto: «Io non intendo lasciare la mia fede repubblicana sulla porta della Camera, e dentro la Camera spero di non dimezzarmi; se anche dovessi nella prova soccombere, io saluterei ancora, con l'anima piena di fede, il nostro ideale: Ave, Respublica, moriturus te salutat.» – Ma poi entrò nell'altra Camera eletto dal re e giurò fede al re.

— Egli aveva strimpellato: «Per quante aule di barbari signori vigilate dal pubblico terror bisogna aver contaminati i cuori e i ginocchi, e quante volte ancor rinnegata la misera latina patria e del suo comun la libertà, per poter di diritto alla regina tener la coda quando a messa va!» Ma poi, in Bologna, si genufletteva a Margherita e scriveva l'ode Alla regina d'Italia.

— Aveva scritto : «Meglio le ingiurie e i danni della virtude in isolitaria parte che assidersi coi vili a regia mensa.» Ma poi fu a colezione in Corte.

— Aveva gridato: «I ministri hanno un bel sudare a buttare le Commende addosso alla gente che passa per la strada. Che puzzo di freschiccio di vernice da per tutto!» Ma poi fu Commendatore.

— Era salito all'alta fama di poeta della «santa canaglia» a mezzo dei vecchi ritmi dell'«usata poesia» (Giambi ed Epodi): ma poi scrisse: «Odio l' usata poesia.»

— Si era lodato scrivendo: «A me piace esser plebeo nel concetto, nella forma, nel vocabolo proprio, nell'immagine, nella lingua, nello stile, in poesia e in prosa»; ma aveva anche detto, lodandosi: «Io sono aristocratico in arte.»

— Sua unica passione sincera fu il vino: spesso s'ubbriacava sconciamente come il piu abietto beone.

— Correva dietro alle sgualdrine – testimonio il Sommaruga, che si faceva mantenere dalle cocottes e le prestava agli amici.

— Conduceva le sgualdrine negli alberghi dai quali si faceva cacciar via. – (Chiedere informazioni ai camerieri dell'albergo dell'Ancora in Milano.)

Egli aveva sbraitato: «Io non voglio elemosine dalla patria!» Ma intanto studiava la via per esser fatto segno ad elemosine più possibili: l'ode Alla Regina d'Italia gli fruttò l'acquisto della casa coi denari di Margherita e la vendita a Margherita della sua biblioteca, che rimase sua.

— Era di cuor malvagio. Una povera maestra comunale che andò a trovarlo in casa per chiedergli una raccomandazione poco ci volle che ei non la gettasse dalla finestra. Quell'atto malvagio ha una attenuante: la maestra era assai brutta.

— Era massone; era salito all'alto grado di Grande Inquisitore presso la massoneria bolognese. Con l'intervento della massoneria egli scroccò il premio Nobel, al quale altri aveva diritto, e la pensione di dodici mila lire annue.

Eccetera, eccetera, eccetera. Tutto ciò il Ladenarda ha dimostrato con prove e documenti irrefragabili; ma ciò non ostante, la sua requisitoria contro l'indegno maremmano è – non è vero? — «una sconcia diatriba». — [rivolgendosi a Benedetto Croce] Voi no; voi – lo ripeto – voi, che avete tentato di assassinare proditoriamente il Mario Rapisardi con armi invisibili, con veleni impalpabili, con giudizi sibillini e forma concia, voi non scrivete sconce diatribe. Certo è che vi hanno gentiluomini che parlano piano, misurano le parole e, intanto, barano al giuoco: ora quello che voi avete scritto dell'opera del Rapisardi è una vera e propria baratteria. Voi cangiate le carte in mano, ma non sempre così destramente che qualcuno non vi colga sul fatto.

Così egli dice al Benedetto Croce, nella seguente « Lettera aperta » del 1915 :

« Si — vi siete detto — noi che tutto questo abbiamo fatto dobbiamo abbattere il terribile avversario del Carducci e di noi.
E' lui che dall'alto ove poggia coi suoi poemi ci conficca nelle vive carni le sue ironie, ci flagella le schiene colla sua sferza di titano, ci inchioda al pilori del ridicolo, ci uccide col suo disprezzo. 

E' necessario annientare quei suoi poemi coi quali egli mette a nudo la nostra miseria morale e la nostra pedestre mentalità ».

« E poichè della camorra che ha invaso ogni angolo dell'odierna repubblica letteraria voi siete — e potete vantarvene — il capo, voi, dico, avete — nel cospetto di tutti i camorristi — preso impegno di abbattere il colosso ».

« E all'alta impresa vi siete accinto coi mezzi che vi son propri. 
In primo luogo vi siete messo ad accusarlo per colpe da lui — come dimostrerò— non commesse, ma che, commesse su larga scala dal Carducci stesso, plagiario impenitente, avete non solo scusate, ma anche trasformato — come abbiam visto — in titoli di lode! ».

« In secondo luogo avete posto mano ad ammannire una sfacciata menzogna, allorchè — a impicciolire sino agli ultimi termini l'opera del Rapisardi — vi siete messo ad inventare gli effettacci volgari da lui ottenuti sui lettori della provincia, rifugio di mode smesse ».

La provincia, si capisce, era quella di Catania; chi applaudiva a quei volgari effettacci, si capisce ancora, erano i soli Catanesi.

« Sciagurato! Oh! che erano forse catanesi il Bersezio, il Graf, il Ranfani, il Trezza, l'Ardigo, il Dall'Ongaro , il Lenzoni, il Roux, il Mestica, il Gnoli, il Bonghi, il De Amicis, il Zumbini, il Bovio, il Cavallotti, il Rovetta, l'Ascoli, l'Ellero, il Lombroso e tantissimi altri del continente italiano che a quegli effettacci volgari diedero i loro migliori applausi? Ed erano catanesi anche quei luminari della critica europea che si chiamano Karl von Thaler, Georges Brandés, Assing, Gaussinel, Siegel? Ed erano catanesi Paul Heyse e Victor Hugo che nel Rapisardi salutarono il piu grande poeta civile dell'Italia moderna? — Non erano catanesi? Proprio? No? Ed allora?...». 

Vediamo s'io bene interpreto il vostro sorrisetto.
Voi pensate che il giudizio di tutti coloro deve essere tenuto in conto di zero, per la semplicissima ragione che nessuno di essi è autore — come voi — di un'elucubrazione estetica, mastodontica come la vostra, sicchè tutti costoro — pur non essendo catanesi — meriterebbero il castigo di esserlo.
Si, avete ragione, anzi — dico io — sarebbe opportuno proporre che i laudatori del Rapisardi, sparsi nei due mondi, si chiamassero d'ora in poi tout court « catanesi ».

Così, a fil di logica, e con precise e documentate argomentazioni, il Ladenarda condusse quella sua generosa battaglia, che limpidamente mostrò l'ingiustizia, il partito preso, l'incoerenza dell'assurbo giudizio di Croce sulla poesia rapisardiana.

Queste righe furono scritte dopo la morte del Rapisardi; il che attesta l'equanimità, il disinteresse, la sincerità. 

Incipit de La Superfemina abruzzese - vedi qui

I pettegoli della «critica» hanno lungamente discusso intorno alla data della venuta al mondo di Gabriele (D'Annunzio) e intorno al luogo dal quale egli rallegrò il mondo col suo primo vagito, come se il nostro «superuomo» fosse morto. Oh! che sì preziose notizie non potevano, oh! che non possono, anzi, chiederle al «divo» stesso, anziché gittarsi e smarrirsi in così affannose ricerche?
E dire che esiste l'atto di nascita presso l'ufficio di stato civile di Pescara e che c'è anche l'atto di battesimo presso la parrocchia di San Cetteo, nel quale, a edificazione e consolazione nostra, fra altre cose, si legge che il portentoso bambino «nacque il 12 marzo del 1863 nella casa di abitazione della puerpera




lunedì 23 marzo 2015

"Un santuario domestico" - Commedia rappresentata per la prima volta il 15 luglio 1893 - di Mario Rapisardi





Questa commedia, che aveva per titolo : La famiglia del signor Teofilo,(Col nuovo titolo Santuario domestico e riveduta di forti ritocchi, fu pubblicata nella « Rassegna Moderna » di Firenze, maggio-giugno 1899)  venne rappresentata per la prima volta la sera del 15 luglio 1893 dalla compagnia Pietriboni nel teatro Nazionale di Catania; e fu ripetuta per cinque sere di seguito.
Superfluo ricordare il pienone di quella prima recita e la festa del pubblico agli attori e all' autore che venivano a ogni fine di atto rievocati al proscenio; sebbene l'autore a quell' ora stava a letto, tranquillamente. Taglierini fatti in casa ? Forse. Peraltro, la commedia data dagli stessi attori fu ben accetta al pubblico di Messina e di Bari.
Quando la compagnia Paladini—Talli la rappresentò alla Commenda di Milano la sera del 19, agosto, l' esito parve contrastato. Al Valle in Roma, poi, il 28 novembre, com'era da   prevedersi, la commedia  ebbe   il tracollo. E qualcuno, gongolante, scriveva in un foglio romano: " Il pubblico, quello che c' era , rado , ma di buona volontà, urlò, fischiò, gridò: basta,,. Se non che il " pubblico „ non è la combriccola, tanto meno la plebe assoldata al solo fine di fischiare o di batter le mani in teatro, a seconda i casi.
In ogni modo , non tutta la stampa allora si mostrò benevola alla commedia del Rapisardi: anche prima che questa venisse portata sulle scene, essa tenne una condotta deliberatamente ostile. Già, mentre che alle cantonate di Catania si leggeva l'annunzio della prossima rappresentazione, i fogli locali quasi lutti tacquero : i corrispondenti dei vari giornali di fuori si divertivano a snocciolare sciocchezze, riservandosi, a commedia finita, il diritto di votare il sacco delle insolenze.
A sentire i giudizi dei giornali d'allora, c'è da strabiliare a dirittura.
Diamo fugacemente una scorsa.
La Sera di Milano del 19 luglio ha da Catania: " La famiglia del signor Teofilo è una commedia in 5 atti brevissimi, la cui forma è semplice spigliata naturalissima „. E il corrispondente, dopo d'aver fatto a modo suo il riassunto della commedia, conchiude: " In complesso, un pasticcetto insipido, ad onta della forma accuratissima „. Però il critico ufficiale dello stesso foglio, quando la commedia fu data a Milano, scriveva in data 20-21 agosto: " Si può anzi affermare che l' autore si deve esser sforzato ad evitare in tutto il lavoro quelle situazioni che avrebbero potuto forzare l' attenzione del pubblico con l'effetto della condotta scenica. Restava quindi all'autore una unica via, lo studio dei tipi ; ed è appunto a codesto che egli si è attenuto. E in parte è riuscito. Il sig. Teofilo, la sig.ra Eufemia, il marito di Adele sono tre tipi profondamente studiati che risaltano dal fondo del quadro , e dei quali è impossibile non ammirare la buona fattura. Data la base su cui il Rapisardi ha eretto il suo edificio, nulla di più vero , di più assolutamente umano di quei tre ignobili individui... E questi tre tipi sono altrettante miniature finissime, che si possono o no applaudire , ma che si è costretti ad ammirare „.
Eppure, la Tribuna del 24 novembre è dì parere contrario , e sentenzia : " Per fare l' Aristofane bisogna anzitutto esser sereni come lui. E proprio al Rapisardi manca la serenità. Aristofane era un grande artista, aveva dello spirito, creava dei tipi, faceva delle commedie,,.
Già il Diritto del 20 luglio aveva fatto in anticipo queste malinconiche riflessioni : " Auguriamo all'illustre scrittore buona ispirazione e buon successo ; ma non nascondiamo che l' entrata nella palestra teatrale di ingegni vigorosi i quali hanno esaurito la loro fantasia in altre forme dell' arte, non c' ispira che una mediocre fiducia. Essi porteranno forse in teatro delle idee — e ciò è utile—ma sarà una rara fortuna se riusciranno a mettere insieme delle commedie possibili „
Con più schiettezza, se non con più dialettica, si esprime il redattore dell' Imparziale di Messina del 3-4 agosto : " Tutti coloro che hanno a cuore la gloria del Poeta sperano che questa commedia data dal Pietriboni rappresenti né più né meno una buona azione, e le buone azioni vanno dimenticate „.
Proprio così: né più né meno!
A conti fatti, si direbbe che i signori critici qualche volta non sanno neanche loro stessi che cosa vogliono e che cosa scrivono.
*
Ma il mal animo verso l' autore si spiega facilmente.
Come si sa , il nome del Rapisardi è sonato sempre condanna a ogni ingiustizia, a ogni volgarità, a ogni menzogna: il Poeta con la sicurezza che gli dava la coscienza intemerata, con l'occhio fiso a un ideale sublime, giudicando gli uomini del suo secolo, sentiva di compiere la sua missione di poeta civile, e poco si curava delle loro piccole ire. Or, giusto in quel tempo che la sua commedia si accingeva a fare il giro dei teatri d' Italia, si stampava l' Atlantide. Già qualche cosa si era venuta apprendendo circa il contenuto del nuovo poema, col quale l' autore intendeva flagellare e cacciare i mercanti dal tempio, mentre che con la commedia osava penetrare nella santità del loro focolare domestico. Naturale che, allora  più che mai, il personale risentimento della gente magagnata doveva trovare uno sfogo. Così, dopo la pubblicazione dell' Atlantide , l' inevitabile insuccesso della commedia a  Roma.
I criccajuoli dovettero certamente cacciare dal fondo del cuore un eroico sospiro di soddisfazione. Non ultimo quel della Tribuna, il quale ebbe a ricordarsi che dodici anni prima aveva avuto negato dal Rapisardi l' ambito lauro di poeta, a mal grado del suo " affetto grandissimo ,.. Egli era per la seconda volta vendicato.E potè largamente scodellare nel suo foglio tutto quel ben di Dio, non peritandosi di falsare sinanco il titolo della commedia: Il signor Teofilo !
Ma, la famiglia del signor Teofilo veramente l'autore ha voluto presentare sulla scena,
C è riuscito ?
È appunto questo che bisogna indagare.
*
Già dal titolo si rileva abbastanza il contenuto, o meglio, lo scopo della commedia, scopo altamente morale: " una carica a fondo contro la famiglia borghese, covo di ogni turpitudine legale, che col nome e il prestigio di santuario domestico pretende di essere intangibile e sacro „.
Ecco. Il sig. Teofilo , vecchio usuraio che per accrescere la sua casa, sicuro dell 'aiuto del buon Dio, usureggia al cento per cento e dà in prestito al giornalista Giuliano quattromila lire, inducendolo a falsificare la firma del padre, ricco; non manca anche di corrompere i professori perchè passi all'esame il suo figliolo imbecille o sbuccione, il quale volentieri studia.... con la cameriera, con quella cameriera a cui egli, sebbene vecchio, fa la corte e regala dei gingilli. Con tutto ciò, egli non vuole assolutamente che succedano scandali, che comprometterebbero la pace del suo santuario domestico.
E questa è anche la preoccupazione di sua moglie, la signora Eufemia, donna, savia e prudente: salvare le apparenze. Essa nella sua gioventù ha saputo far sempre le cose per benino, giacché per lei sia appunto in ciò l'arte l' ingegno la dottrina e la virtù di una donna a modo. Sicché dopo trent'anni di matrimonio, ella può dire che la sua " reputazione, grazie al cielo, è senza macchia „. E vorrebbe che la figlia Adele seguisse il suo esempio, contentandosi della sorte: poco importa se essa non aveva trovate nel marito l' uomo dei suoi sogni.
Ma la figlia invece, pur essendo stata educata in collegio, è una aperta ribelle: si mostra imbevuta di idee moderne ; parla di emancipazione, discute anche troppo, sebbene rettamente. Vorrebbe che " la donna potesse disporre di sé come l' uomo, che fosse posta in condizione di potere svolgere tutte le facoltà che la natura le ha dato; e non esser costretta ad assuefarsi al matrimonio, come a vangar la terra, a portar una croce, a vivere nell'ergastolo „.
In verità, il marito avvocato Benintendi, che un tempo era stato l'amante della suocera, non è più giovane: ha quarantacinque anni; è sazio della vita; mentre la moglie è appena ventenne ed è assetata d'amore. Se egli trascura i doveri coniugali, sa però, da uomo pratico, far bene i suoi conti. Son prossime le elezioni politiche : è conveniente accettare una candidatura : poiché, " quando non si è più giovani e la vita non ci sorride più, i pazzi si uccidono, i volgari si ubbriacano, i savi si buttano alla politica ,.. E poi, come avvocato , non sente il rimorso di aver opinioni, né ha " la malattia degli ideali ... Fiuta il vento. Sa che " quando si afferra una deputazione, i clienti crescono qualunque ne sia il colore „. Finisce col darsi al partito dell'ordine. E già si costituisce in casa sua il comitato: il giornalista Giuliano mette a disposizione il suo giornale.
In questa occasione l' Adele, avendo conosciuto Giuliano, s'illude di trovare in lui amore e gli apre tutto il suo animo. Scoperto dai genitori l'idilio, essa non recede ad onta dei consigli della madre; anzi si attacca di più all'amante, e a lui, in un ultimo abboccamento, fa, delle proposte decisive e.... scandalose: fuggire subito da quella prigione ove sente che " l'anima è costretta a gemere a mentire a ingannare a disprezzarsi ,,. Vedendo che il giornalista è titubante e si schermisce accampando la prudenza, lo investe con la tagliente ironia della donna delusa, e infine, additandogli la porta, gli ingiunge di uscire.
L'avv. Benintendi, avuto sentore del fatto, pensa di chiedere al tribunale la separazione per incompatibilità; ma le elezioni sono imminenti, il giornale di Giuliano è il più letto è diffuso. Dà tempo. Frattanto si riunisce il comitato, si discute della campagna elettorale, si concorda col giornalista il lavoro strategico: alla fine gli amici si dividono con un " arrivederci a domani „.
Nel punto che l'avvocato stringe la mano al giornalista, l'Adele, a veder tanta abiezione, irrompe nella sala,'' convulsa, invano trattenuta dalla madre, e vuole smascherar tutti, cantare in faccia a ognuno il fatto suo : si mostra decisa ad andar via da quella casa, ad affrontare le tempeste della vita, a lavorare, a morire; " ma libera, libera, libera 1 „
Il sig.   Teofilo,  intanto, scandalizzato, raccomanda di non dir niente a nessuno.
*
Tale la trama dell' opera condotta con semplicità di mezzi, senza arruffio di episodi, senza effettacci di scene da fiera, senza bombe finali; ma con accurato magistero di forma, con nobilissimo sentimento d' arte.
E balzano vive dalla bene inquadrata tela le figure degli attori principali: personaggi finemente delineati, caratteri rigorosamente veri e profondamente-umani. Non si dimenticano. Il sig. Teofilo, un bruto, un usuraio che arricchisce rasentando il codice penale; la signora Eufemia, una toppona accivettata che finge untuosamente; l' avv. Benintendi, un raffinato amorale che pur, a un certo punto, si domanda se ha una coscienza ; l' Adele, una donnina nevrotica , che sente lo spirito dei tempi nuovi e ha il coraggio di romperla coi pregiudizi del mondo.
Né è a dire che la facilità e la brevità dell' azione ne scemi l'originale potenza e impedisca di ritrarre argutamente, non che con cruda naturalezza, tutto l' orrore di un ambiente sociale corrotto. L' ironia penetra sottilmente, pervade i meandri dell'opera, diventa all'ultimò ammonimento e insieme condanna.
E si ride, massime nei primi atti, ai motti di spirito onde scoppietta abbondantemente il dialogo fresco, colorito, spontaneo; si ride alla vena di comicità schietta che zampilla da certe situazioni; ma il riso non è pieno compiacimento che erompe dalle viscere in una festività sonora: è bensì contrazione leggiera che appena increspa le labbra, quasi l' atroce spasimo di un singulto che trattiene le lagrime.
Onde la commedia, nel suo intimo significato, assorge all' importanza del dramma. Si tratta, è vero, di una famiglia borghese, tutto orpello, tutta vernice di onestà e di santità; ma par di sentire per entro il sordo crepolio di una società che si sfascia, il fremito incomposto di una età che si rinnova, la squillante voce della coscienza moderna che si libera dalla catena delle convenzionali menzogne.
*
Fu  detto che   questa commedia,   come tutte le altre opere, risente dei principi e del temperamento del Poeta, Ebbene: non è la sincerità il pregio peculiare di Mario Rapisardi? E che meraviglia se anche quest'opera porta tutta l' impronta del suo animo grande e generoso di tenace assertore e propugnatore imperterrito dell'elevamento morale della nazione e dell' umanità ?
Or è giusto convenirne che, com'egli ha dato all' Italia l'Atlantide, il poema satirico sociale, così la commedia satirica sociale non poteva darla altri che lui. - Alfio Tomaselli 

INTERLOCUTORI
Il Sig. Teofilo Caratòzzolo
La Signora EUFEMIA, sua moglie
Adele e ARIODANTE - loro figli
L' Avv. AURELIO BENINTENDI, marito d' Adele
Giuliano Della Spada, giornalista
Il Marchese e La Marchesa Del Gallo
ZAIRA, cameriera in casa Caratòzzolo
Un cameriere  in casa Benintendi.

(L' azione è in Italia, a' dì nostri)


mercoledì 18 marzo 2015

Federico De Roberto 1861/1927 "Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti ..."



"Il culto d’un popolo verso i grandi suoi morti è senza dubbio indizio della sua civiltà; ma, quando si pensi che molti di quei magnanimi a cui s’inalzano monumenti furono perseguitati e calunniati e odiati in tutte le maniere mentre durarono in vita, vien quasi voglia di conchiudere che molte che paiono manifestazioni di animi generosi non sono altro che misere ipocrisie, e gran parte di ciò che diciamo civiltà non è che industria d’inganni, onde un popolo si studia apparire quel che non è, non solo al giudizio degli altri ma di sè stesso.
Sarebbe perciò desiderabile, a decoro di una gente e ad onor vero dei grandi trapassati, che non ci si affaccendasse troppo a commemorare, a statuare, a monumentare coloro che furono grandi, e si guardasse invece di conformare i pensieri e le azioni nostre a quelle dei magnanimi, dico di coloro che tali furono veramente, non di tanti che prima e dopo morte usurparono tal nome, e fama e gloria ebbero di grandi non per fatti propri, ma per capriccio di fortuna che li pose in alto, e per adulazione di servi, che più adorano la fortuna che non rispettino la virtù.
Questa sarebbe da vero opera di nazione civile; ma i popoli, quantunque si dicano civili, seguiteranno probabilmente a far pompa di morti per coprire le miserie dei vivi: chè, inalzar marmi e bronzi costa soltanto danari, quando l’ingegnarsi di imitare i grandi costa tali sagrifici che, tranne pochissimi, nessuno è capace, non che di sostenere, d’immaginare". Mario Rapisardi

Convinto d'essere uno "scrittore fallito" ("Nulla resterà di me! Nulla"), De Roberto trascorrerà gli ultimi anni, specie dopo la scomparsa del Verga, preda del male oscuro dei nervi, di una desolata sconsolatezza.
[Catania,] Domenica, 6 [luglio 1902]
Ti scrissi ieri, Nuccia mia, ti dissi ieri la ragione del mio lungo silenzio, grave a te, grave a me altrettanto, e forse più, perché volevo e non potevo far molto per romperlo. Qualche cosa io vorrei pur fare per oppormi a questa lenta mina del mio spirito, della mia volontà; ma non ci riesco. Tutto mi pare inutile e vano. Non credo in niente, non spero in niente. Non ho che fare della mia vita, del mio pensiero. Sono un uomo che annega, sono un uomo perduto. Come descriverti ciò che accade in me, la confusione della mente, lo svanire della memoria, lo sfasciarsi dell'energia, le improvvise, irragionevoli, impeccabili irritazioni, le idee pazzesche che mi traversano il cervello, i silenzi che mi cuciono le labbra, le ansie, i furori impotenti, gli abbattimenti mortali? Spaventevole è che io abbia coscienza di queste cose, che io misuri a grado a grado questa rovina. Perdonami, compatisci, non mi rimproverare. Che posso fare? Io non ho saputo mai distrarmi al modo della folla: ora mi è tanto più impossibile. Del lavoro sono incapace. Le letture brevi non servono a niente; le lunghe mi confondono la testa. Questa città, questa gente, questi costumi mi sono odiosi ed esecrabili. Tu sei troppo lontana ed inarrivabile. Non posso far altro che piangere, come ho pianto, di me stesso, quasi fossi morto. Non posso far altro che guardare nel vuoto, immobile, con le mani in mano, come un fachiro come un mentecatto. Nuccia, fammi parlar d'altro; perché ti farei e mi farei troppa pena.   Che tu venga in Sicilia non lo credo: sarà una delle solite fantasie di quel tale. Ma se dovessi realmente compiere il viaggio, non venire a Catania con una compagnia odiosa e detestata. No, così non ti voglio vedere, qui, presso mia Madre. Avvertimi, piuttosto, e verrò io a trovarti, cioè a trovarvi!: Ma no: vedrai che non verrai: già tu stessa mi dici che la cosa è poco sperabile. E poi, è forse meglio non vederci niente che vederci così. - Sai quanto tempo ho impiegato, Nuccia mia, a scrivere questa paginetta? Un'ora e mezza; ho qui dinanzi l'orologio che misura lo scorrere del tempo omicida. - Non dire, Nuccia mia, che temi d'avermi dispiaciuto: lo vedi: tu sei la sola che riesci a trarmi da questa mia agonia: ne esco per troppo poco, è vero; non riesco ad altro che a fartene vedere l'orrore, è vero; ci ritorno subito, è anche vero; ma se non fossi tu, a chi aprirei il mio cuore, a chi mi confiderei? [Federico]
"La storia di un amore segreto dello scrittore è interamente conservato in un epistolario rimasto inedito per quasi un secolo, fra il De Roberto trentaseienne e la trentunenne Ernesta Valle, gentildonna residente a Milano, assidua habitué di elitari salotti (da Vittoria Cima a donna Virginia dei Borromeo, alla stessa Ernesta), moglie dell’avvocato siciliano, Guido Ribera. Fra sotterfugi, stratagemmi, astuzie, la corrispondenza si snoda dal 1897, periodo in cui iniziò la sua collaborazione al Corriere della Sera, fino al 1916: un carteggio che permette di seguire passo passo le tappe dell’itinerario scrittorio di De Roberto, negli anni più tormentati della stagione milanese, penetrando la sua officina nascosta, nella camera oscura dell’ispirazione, svelando progetti, fervori, traguardi, e soprattutto ansie, inquietudini, sconfitte". 

"Non è Nuccia che si prende questi chicchi; è Rico suo che glie li mette con la bocca nella bocca".



  • "L'artista si sente solo. Singolare ed aristocratico, vive a disagio in mezzo alla società democratica ed uniforme. Si sente da essa odiato come inutile, come superbo; e la disprezza. Pertanto le opere sue non si rivolgono ai più, ma ai pochi iniziati". F. De Roberto

Altro : 

Bibliografia di Federico De Roberto (1879/1955)