Francesco Paolo Frontini (Catania, 6 agosto 1860 – Catania, 26 luglio 1939) è stato un compositore, musicologo e direttore d'orchestra italiano.

«Bisogna far conoscere interamente la vera, la grande anima della nostra terra.
La responsabilità maggiore di questa missione dobbiamo sentirla noi musicisti perchè soltanto nella musica e nel canto noi siciliani sappiamo stemperare il nostro vero sentimento. Ricordatelo». F.P. Frontini

Dedicato al mio bisnonno F. P. Frontini, Maestro di vita. Pietro Rizzo

martedì 8 marzo 2016

"Chanson Sicilienne" di Giuseppe Senfett, tratto da Album de morceaux favoris di Francesco P. Frontini.

è disponibile l'album "Chanson Sicilienne" di Giuseppe Senfett, tratto da Album de morceaux favoris di Francesco Paolo Frontini.


1) GONDOLA BRUNA
2) PAGINA D'ALBUM
3) SERENATA ARABA
4) MENUET
5) RETOUR AU VILLAGE
6) CHITARRATA SICILIANA
7) CAPRICIEUSE
8) CHANSONNE SICILIENNE
9) CONFIDENCE AMOUREUSE
10) DESIR D'AMOUR
11) ULTIMO CANTO
12) BERCEUSE   
 qui



domenica 24 gennaio 2016

Introduzione allo studio della letteratura italiana discorso letto nella R. Università degli studi di Catania dal prof. M. Rapisardi 1871


Il concetto che della scuola aveva Mario Rapisardi è molto diverso da quello che hanno i più, che scambiano l'insegnamento con un qualunque mestiere.

Egli pensava che la scuola è un istituto di massima importanza nella vita pubblica, che essa deve essere fucina di valori morali e palestra di educazione delle giovani generazioni, riteneva che la scuola non può essere estranea alla vita, se di essa non si vuol fare un esercizio di espiazione ovvero un museo di fossili.



I.
Chi vuol cominciar bene, incominci da Dio. Adottiamo il precetto da buoni credenti, e coroniamo di rose e di mirto gli altari inconcussi della nostra divinità.
Il nume che invochiamo non si chiama Jéova o Sabaòtte, Eloa o Brama, Osiride, o Giove ; non si chiude nei misteriosi tabernacoli di un tempio; non si asconde nei gelosi recessi del firmamento; non abita i monti o le foreste circondato dalle tregende di Teuta, o assordato dai timballi di Bacco. Va libero e sublime per le vaste regioni dell' aria e della luce, e all' aria ed alla luce si mesce, ed è luce ed aria dell' anima e della vita; spazia pei campi della terra e domina popoli ed età: — vario sempre ed uguale, debole a un tempo e onnipossente esso agita e dispone le universe cose della natura, scuote e commuove l'urna delle nostre sorti, e regge ed intreccia il filo secreto di tutte le umane azioni. Voi l'avete già indovinato : esso si chiama 1' Amore.
« Omnia vincit amor, et nos cedamus amori ! » Come potremmo noi ragionar dell'Arte, senza trarre gli auspicii dall' Amore, questo divino generatore dell' Arte, e primo ed onnipossente artista dell' universo ? — Voi lo sapete, o Signori : l' anima umana è come un cembalo chiuso : il pianista dell'anima è l'Amore; esso sveglia i sentimenti e le facoltà nostre come l'aria sveglia le virtù dei fiori ; e non solamente li sveglia e li prova come l'artefice amoroso il suo caro strumento, ma li modifica altresì e li corregge, e le anime più schive riduce al sentimento del Bello e al culto divino della Verità.
Perocché l' Amore, come irrequieto desiderio dell' assoluto ed eterno mediatore fra lo spirito e la natura, non può, per essenza sua, altrimenti manifestarsi se non come un vuoto indefinito ed immenso che s'apre nell'anima e nella natura, come una innata e necessaria contradizione fra il mondo corporeo ed il razionale. Cosicché mentre si mesce come potenza consciente ed ordinata nelle incontaminate regioni dell' ideale, egli soffre e gode, ride e piange con l'umanità ; è cieco ad un tempo e veggentissimo, è istinto insieme e coscienza, è finito ed infinito al punto istesso, e tiene fra le mani una misteriosa catena, il cui primo anello si perde nell' estasi luminose dello spirito, e si sprofonda l'altro nelle torbide voluttà della materia.
Or siccome egli desidera o di conoscere, o di contemplare, o di realizzar l'assoluto, ed è religione, arte, o filosofia, secondo che egli crede, pensa, o sente ; così la ragione, il sentimento e la fede costituiscono il triplice campo su cui si esercita la sua potenza; e la religione, l'arte e la filosofia la triplice destinazione di tutte le umane facoltà.

II.
E simili a tre virgulti nati dallo stesso tronco, cresciuti sotto la stessa temperie di cielo, alimentati dalle stesse rugiade, intrecciano e confondono le radici e le frondi, ingombrano ed usurpano lo stesso spazio di terra e rubano al sole lo stesso raggio di luce; la religione, la scienza e la l'Arte hanno fra di loro di tali attinenze e connessioni nell' ordine razionale, si alterano e si modificano in guisa nell'ordine storico, che non si può contemplare ed investigar 1' una senza incorrer naturalmente nell'altra; non si può determinare e circoscrivere il campo di questa senza descrivere, o rasentar per lo meno i domimi e le regioni di quella.
Nel mondo orientale, per esempio, la religione assorbisce la vita. La filosofia non è che lo studio della natura e degli attributi di Dio; l'Arte la gigantesca e bizzarra manifestazione dell' infinito. E l' arte, la scienza, lo stato, la civiltà, la libertà, e la personalità umana tutto viene annientato dinanzi l' inerte e malinconica contemplazione dell' assoluto.
In Grecia al contrario: la religione diventa la creatura e l'ancella dell'Arte. Giove esiste finché sa prestare immagini al pittore, allo scultore, al poeta. Omero, Zeusi e Polignoto facevano senza saperlo la causa della religione. Che importa che Mercurio sia il protettore dei ladri e si faccia messaggero d'amore? Egli è snello e leggiero come un uccello; i suoi splendidi talari percorrono il cielo e la terra con la rapidità del baleno ; le sue forme sono eleganti e leggiadre e si prestano mirabilmente alle concezioni dell' artista: Fidia lo scolpisce, la Grecia lo adora. Perchè ricordare che i sacri penetrali d' Aniatunta e di Pafo siano talvolta polluti dal furtivo abbracciamento delle sacerdotesse di Venere; che Venere istessa presieda alle intemperanti voluttà dei suoi devoti, che essa sia debole ed imbelle da tollerar le ingiurie dei mortali e fuggire spaventata e ferita dinanzi al selvatico sdegno di Diomede? Ella è sorta candida e fresca dalle feconde spume del mare; il suo cocchio di madreperla tirato dalle innamorate colombe dell' Erice scivola leggero leggero sulla tersa e trasparente superficie dell' acque; le Grazie intrecciano le candide rose di Cipro alle morbide a-nella delle sue chiome, ed ella saetta col raggio delle sue pupille tutto ciò che vive nella terra e nel cielo.
« Te dea, te fugiunt venti, te nubila Coeli « Adventumque tuum, tibi suaveis daedala tellus « Summittit flores, tibi rident aequora ponti, « Placatumque nitet diffuso lumine Coelum.
Che importa infine che Aspasia sia una cortigiana ? Essa è bella, e Socrate va ad apprender da lei i delicati lenocinii della parola, e a dischiuder l'anima alle serene contemplazioni della bellezza. Chi domanda se Frine abbia fatto traffico del suo pudore ? I suoi giudici umiliano la fronte severa innanzi alle sue mirabili nudità; le sue forme bellissime si ritraggono nelle tele e nei marmi dai più famosi artisti del tempo; ella merita un posto nel tempio di Delfo : Astrea si è fatta serva di Venere; la bellezza si adora nel tempio istesso della Verità.
Cosicché, mentre nell' India e nell' Egitto gli uomini si studiarono con ogni mortificazione di innalzarsi fino alla Divinità, i Greci vollero a ogni costo che i loro Numi lasciassero l'Olimpo per assistere ai loro giuochi, alle loro cene, ai loro sagrificii, partecipar dei loro godimenti, delle loro debolezze, delle loro sventure. Alle piramidi d'Egitto e alle catacombe d' Elefanta, s'oppose il Portico e il Partenone; al Mahabarata l'Iliade, alla dottrina dei Veda la filosofia di Platone. - Ma tornò la stagione che la fede dovea riassorbire la scienza e la vita. Sulle rovine del mondo Romano erasi piantato il simbolo d'una croce : il gemito dei martiri era uscito dal seno delle catacombe di Roma.
E come ai tempi antichissimi di Pittagora e d'Empedocle la filosofia avea preso, il no-me di teurgia, e la verità della scienza ebbe mestieri del manto dell' aruspice e del sacerdote per esser inculcata ai contumaci mortali, così dileguata dopo il mille, la stolta paura dell' ultimo giudizio, la scienza, volendo pur tornare all'antichità, non seppe altrimenti liberarsi dall' incubo delle nuove credenze che dandosi in braccio ad una nuova foggia di filosofare; sciagurato fornicamento della scuola e di Dio: due autorità invece d'una: quella di Cristo e quella d' Aristotile.
Come poteva l'Arte non risentire gli effetti di quel mostruoso connubio ? La scolastica invase le sue regioni ; la poesia s'addormentò fra le acute sottigliezze degli Arabi per esser più tardi svegliata dalla procace serventesi dei Provenzali ; l' architettura rivolse al cielo il suo sesto acuto, innalzò la cima dei suoi campanili come per portare a Dio la voce più vicina della preghiera; e per uno scambio di parte assai singolare, chi seppe adoperar bene o scalpello e la squadra, scriver poemi ed alluminar cartapecore meritò d'essere assunto alle prime dignità ecclesiastiche : 1' arte di pinger tele, e di scriver versi diventò un ramo della liturgia.


III.
Ma l'Arte non potea viver lungamente nelle scuole e nei chiostri : essa non si compiace di riposo e di calma, non s'alimenta per natura sua di silenzio e di solitudine, ma vive e soffre e s' agita nella società.
Per questa e non per altra ragione si è considerata sempre come un apostolato ; per questo ha avuto i suoi persecutori e i suoi martiri, è stata chiamata col santo nome di religione, e sacerdoti ed istitutori di civiltà sono stati detti i poeti e gli artisti, i quali educando per mezzo dei sensi il pensiero, temperando le opinioni mediante gli affetti, hanno evangelizzato il bello ed il vero in tempi e fra popoli ad ogni bellezza avversi e nemici d'ogni verità. A studiar dunque 1' arte completamente sarà d'uopo investigar non solamente i rapporti e il legame, che essa ha potuto avere con le istituzioni sociali, ma il movimento che ha impresso alle nazionalità delle genti, e il ministerio ch'essa ha esercitato di fronte agli ostacoli di tempo e di luogo, e le lotte sostenute col pregiudizio e con la schiavitù, e le misere condizioni a cui 1' hanno talora obbligata o la falsa protezione dei principi o la maligna lusinga della popolarità.

IV.
Or perchè 1' Arte sia veramente sociale, ed eserciti una visibile influenza sui nostri destini, bisogna anzi tutto che sia vera. Ep-però è mestieri che essa attinga ispirazione dalla natura, e tragga argomento dalla realtà della vita.
Studiando il reale, noi sfuggiremo a quel falso e malinteso manierismo, che vorreobe ridurci alla semplice ed immediata espressione dell' ideale e tutto il bello riporre nella spiritualità; come penetrando nei recessi misteriosi dello spirito sapremo sollevarci dalla gretta imitazione della realità. L' Arte,' come l'umana natura, partecipa insieme del finito e dell' infinito. E se l'anima sua è l'idea, la forma è la sua naturale e necessaria sensibilità. Da ciò scaturisce che il culto della forma non è studio di pedanti, e che la perfezione della creazione artistica risiede nell' e-satto contemperamento dell' espressione e del contenuto.
E siccome lo stato naturale dell' uomo è la società, e l' umana personalità solamente si completa e si svolge nello stato sociale, così l'Arte ha da studiar l'uomo negli uomini, investigar negli uomini, e non nei libri, le tendenze, le aspirazioni, i costumi, i vizii e le virtù d'una nazione e di una civiltà. Il (...)
del tempio di Delfo sarà il motto della nostra bandiera.
Non rivolgeremo soltanto lo sguardo sulle orme impresse dalle generazioni mortali sulla faccia della terra, ma spingeremo il volo dell'anima attraverso i veli dell' avvenire; non canteremo la nenia sui trapassati, ma intuoneremo l'inno della redenzione. A questo patto noi saremo degni della nostra missione, divideremo i dolori e le speranze dell' epoca nostra, riusciremo insomma ad una vera e civile utilità.

V.
Nè l'utilità  dell' Arte è semplicemente morale.
A voler porgere orecchio a certi pregiudicati detrattori delle arti liberali, noi dovremmo vergognarci di attender seriamente allo studio di esse e di sprecare il nostro in gegno e la nostra fatica intorno ad un futile e quasi fanciullesco esercizio, in questo secolo segnatamente che tutto il lustro e la gloria sua ritrae addirittura dalle macchine, e dagli internazionali commerci ogni ricchezza ed ogni prosperità
Si parla degli Spartani, che non vollero sentire nè d'arti, nè di lettere, e i loro mobili fabbricavan con l'ascia, secondo le prescrizioni di Licurgo, e ogni merito della parola facean consistere nella concisa espressione del necessario. S'invoca l'autorità di Platone, il quale, non a caso, volle dalla sua repubblica bandire i poeti, razza di superbi e di vagabondi che vivono nell' ozio o nella mollezza, e deviano le menti degli uomini dall'esatto apprezzamento della serietà della vita. Ma noi proveremo che le Arti risvegliando il senso del bello, educando il gusto del popolo, giovano mirabilmente all' industria, abbelliscono le nostre manifatture, danno rinomanza alle nostre mode, ordine e varietà alle nostre vie, ai nostri edificii, ai nostri giardini.
Che 1' Attica il suo massimo splendore e la massima ricchezza ritrasse dall' Arte ; dall' Arte acquistarono reputazione e valore gli antichissimi figulini d' Etruria, i grafiti tosca-nici, le pietre dure di Roma, i vasi di Arezzo e gli alabastri di Volterra, i vetri soffiati di Murano e i mosaici di Venezia.
Che un quadro insomma, una scultura, un poema, non è, come volgarmente si dice, un valor morto ed improduttivo ; che gli artisti e i poeti non sono dei consumatori soltanto, ma dei produttori; che essi non producono esclusivamente dei valori morali, ma dei materiali, non solamente gentilezza di costumi e progredimento di libere istituzioni, ma delle cifre rispettabili. Che le gallerie di Roma e di Firenze non danno meno d'una fabbrica Qualunque di Manchester e di Lione, e le ditte Michelangelo Raffaello e C. danno forse qualcosa di pi delle speculazioni più ardite di qualunque borsaiuolo del giorno (Dall'Ongaro).

VI.
L' Arte dunque è bella, è vera, è sociale, è utile.
Ma se l'incarnazione del bello nel vero suppone una serie di evoluzioni e di sforzi, che noi diremo intrinseci e primitivi, e concernono l'impulso dell' idea infinita verso la sua coerente e determinata esteriorità, così quando l' espressiene è trovata e vuole inculcarsi nel campo della vita reale, essa non può non venire in collisione con tutti i pregiudizii e le colpe sociali, e tanto più troverà ostacoli da sormontare, e battaglie da sostenere quanto meno la società, nella quale si svolge, sarà ordinata secondo le norme naturali, e le leggi razionali del diritto.
Io non cercherò quindi ingannare ed illudere le giovani menti intorno ai triboli della nostra carriera; nè dissimulerò come l'esilio e la sventura, e l' abbandono dei mortali e la povertà siano spesse volte la ricompensa del più generoso ed incorrotto sacerdozio dell' Arte.
Ma dal seno della solitudine e del dolore, dall' invidia stessa o dall' indifferenza degli uomini sorgerà pur sempre il raggio d' una speranza, il sorriso d'una consolazione, la certezza d' un gaudio o d' un riposo. Alle contese ed invidiate contemplazioni del Bello, alle vigilate cure di realizzarlo nel mondo terrà sempre dietro quella dolce e serena fiducia nella nostra coscenza, che mai le anime gentili non abbandona; e ai dolori della miseria e delle infermità, ai sacrifica per l'arte pazientemente e con forte animo tollerati, renderà piena e solenne giustizia il tempo e il pentimento dei mortali e la gloria del nome e la ricchezza della fama avvenire:
« Solve metus ; feret haec aliquam tibi fama salutem !

VII.
E la società, giova bene sperarlo, andrà sempre più migliorando le sue condizioni, e con essa miglioreranno le condizioni e le sorti degli uomini di lettere e degli artisti. I quali non saran più costretti a viver derelitti e meschini, o a cercar un aiuto e un riparo nella protezione dei grandi : bivio funesto e non meno pericoloso per tutti; da poichè se la miseria affatica gli animi e isterilisce gli affetti e la fantasia, e pochissimi sono coloro che sanno resistere alle sue tremende agonie; la protezione infiacchisce ed umilia gl' ingegni, stempra il carattere e corrompe il cuore, ci toglie la coscenza degli altri e di noi, c' incatena alla menzogna, ci prostituisce nella servitù.
Noi non cercheremo dunque la protezione della ricchezza e della potenza, nè ci ostineremo per questo nella povertà, come quelli che siamo convinti, che gli agi e le sostanze dignitosamente acquistate ed usate con animo temperato e prudente, anzichè invilire la nostra missione, giovano più che altro alla indipendenza del nostro istituto, alla libertà delle nostre opinioni e alla sdegnosa condotta della nostra vita.
Noi non crediamo che la povertà abbia ad essere la miglior palestra del filosofo e il retaggio fatale dell' artista, anzi stoltissimo di tutti gli uomini abbiamo sempre tenuto Diogene, avvegnaché tutto il pregio e le consolazioni dell'umana filosofia non consistono nell' astenersi dai piaceri della vita, ma sì nel modo di saperli padroneggiare; e sostenere con animo abitualmente impassibile i disinganni e le avversità sia molto più agevole per avventura che non sia il rivolgerle a nostro morale avvantaggio e il trarne argomento a generosi ammaestramenti, e a fortezza d' animo ed incitamento a virtù.

VIII.
Scendendo poi ad un ordine più ristretto e ravvicinandoci particolarmente allo studio dell' arte letteraria, noi non potremo esentarci dal dimostrare la naturale attinenza fra le arti tutte, di cui quelle della parola sono una singola espressione e un aspetto. Un' espressione sì ed un aspetto, ma il più complessivo per avventura e sintetico. Poiché la poetica, come più libera ed immediata manifestazione dell' assoluto, abbraccia e comprende le principali modalità delle altre arti e può offrire contemporaneamente al pensiero lo spettacolo dei momenti diversi dell' intuito : il passato e il presente, il tempo e lo spazio, l'avvenire e 1' eternità.
Quando la letteratura degli studii superiori e delle università fu voluta ridurre ad un superficiale ed ozioso esercizio di rettorica e d'umanità, bastava esporre più o meno diffusamente le regole del bello scrivere, annoverare con più o meno di scrupolo le figure così dette di parola o di pensiero, leggere o commentar Petrarca a documento incontestabile della loro patavinità, invocar l' aiuto del P. Segneri o del P. Bartoli (padre sempre, già si intende), masticar qualche verso latino d'Orazio a foggia d'agnus dei, e impartire infine la , santa benedizione a solenne remissione dei peccati di pensiero o di parola, come le loro figure, che gli scolari avean potuto commettere fra una tentennata di capo ed un sonoro sbadiglio.
Per noi, o signori, lo studio della letteratura è tutt' altro. Io mi sarei vergognato di salir questa cattedra, se non avessi assunto con me stesso l'impegno di dimostrarvi, come la letteratura non sia semplice studio di forma ma di concetti, non di soli libri, ma di uomini, non maestra di lambiccate eleganze e di provocanti civetterie, ma solenne istitutrice di popoli ed esempio di virili costumi e documento infallibile di civiltà.
Per la qual cosa, mentre noi rivolgeremo le nostre cure all'investigazione delle forme differenti delle arti della parola, non trasanderemo di studiar l'armonia che tutte le obbliga ed affratella ; mentre discorreremo i principii e la storia gloriosa dell' arte nostra, noi andrem ricercando le più o men visibili influenze esercitate dalle antiche letterature e dalla lingua greca e latina sull' indole della nostra lingua e sullo spirito della nostra letteratura; mentre studieremo le glorie e gli errori, le vergogne e i trionfi del nostro passato, disporremo l'animo e l' ingegno alle più strenue battaglie dell' avvenire.

IX.
Or siccome lo studio delle diverse forme letterarie, s'incontra non solo ma s' intreccia intimamente con la storia dell' Arte, così noi combineremo la storia della nostra letteratura a quella delle differenti manifestazioni di es-, sa: coordineremo la storia delle grandi, produzioni artistiche a quella dei principii regolatori del bello ; uniremo sotto la medesima categoria nomi ed opere di diversi tempi e scrittori, e lasciamo volentieri a tutti altri la gloria dei sincronismi e delle biografie. Dovremo noi forse accettare il metodo di coloro, i quali traendo esclusivamente da una storia tutti i loro tipi, o formulando senza il soccorso di nessuna storia delle astratte e vaporose teorie, vorrebbero incatenare il genio alla loro autorità; vero letto di Procuste su cui si vuole adattare e circoscrivere questa creatrice e possente e veramente divina parte di noi, che si chiama la fantasia? — Io ve lo dico sin d' oggi, o Signori, ad onor dell' Arte e di me. 
Noi non riconosciamo altri tipi, altre leggi, altre teorie fuori di quelli che lo studio del vero ci detta: altra guida fuorchè il nostro gusto. Accettiamo gli ammaestramenti che la storia ci inculca, ma prima e sola autorità, il nostro cuore ! Noi non siamo qui per imporre tirannidi e freni al pensiero, ma per renderlo libero e indipendente secondo la sua natura. Accettiamo l'Arte sotto tutte le forme; ammiriamo il bello dovunque lo troviamo : nell'astro che sorge e sul mare che geme ; nel bacio dell'amore e nell'addio della morte; nel chiaro azzurro dei firmamenti e nella cupa solennità degli abissi. Qualunque voce, qualunque oggetto, ogni gemito dell' anima e ogni sorriso della natura, tutto ciò in somma che trovi un riscontro nel nostro pensiero, che muova una fibra del nostro cuore, agiti una penna della nostra fantasia, trovi e stabilisca rapporti fra le, destinazioni degli esseri e le loro apparenze, ritragga il perpetuo dualismo fra le cose dell' anima e della natura, tutto ch'è stato e potrà essere oggetto dell'Arte, e tutto formerà oggetto delle nostre indagini, del nostro studio, del nostro amore. Dai terribili clangori della tromba d' Omero noi passeremo alle tranquille armonie della zampogna di Teocrito e di Sannazzaro; dall' urlo disperato dei dannati di Dante al patetico lamento del romito di Valchiusa ; dalla bestemmia di Fausto e di Manfredo agli amori innocenti della Messiade; dalla placida rassegnazione di Pellico e di Manzoni alla disperata e sublime ironia del Leopardi.

X.
So che avrò molti ostacoli da sormontare, parecchi pregiudizii da combattere, e che gli studi forse, non il coraggio mi mancherà. So che i tempi sono manifestamente forieri di grandi riforme; che l'epoca nostra benchè transitoria lascerà di grandissime tracce e profonde nel seno della nuova civiltà; che l'Arte ha grandi battaglie da combattere, solenni destini da compiere, nuove persecuzioni forse da sostenere, ma il trionfo e la gloria non ci fallirà. Ond' io non voglio nè posso dissimularvi, o Signori, la dolce e profonda commozione dell'animo mio, da che m'è dato in questi momenti solenni di venir conferendo con voi quelle idee e convinzioni ch' io ho potuto formarmi di quell' Arte santissima, a cui, lo sapete, vado superbo d' aver consacrato, e sono ancor disposto di consacrare, le mie cure, i miei pensieri, gli affetti più cari della mia vita:
« Dum memor ipse mei, dum spiritus hos reget artus ! »
Voi non troverete prababilmente nei miei discorsi nè quella ricca suppellettile d' erudizione, che facilmente illude, e troppo facilmente s'acquista, nè quel fare solenne e quasi apostolico che con tanta leggerezza si assume e si vuol sostenere con tanta serietà. Vi par-lerò franco e sincero, smetterò, se è possibile, tutto ciò che possa sentir di didattico e di precettivo; non pretenderò d'insegnarvi l'Arte, ma spero però di farvela amare. Perocchè allo studio coscienzioso delle serene e civili discipline del bello è anzitutto bisogno d' intenderci e di affratellarci ad attinger rispettivamente coraggio contro la spregiata indifferenza dei tempi e gl' ingiusti rigori degli uomini e della fortuna. Ond' è ch' io invoco sin d' oggi, non solamente la vostra attenzione e la frequenza vostra, ma il vostro coadjuvamento e l'affetto vostro. Esso mi è di mestieri per esprimervi senza veli ed ambagi tutto ciò ch' io ho saputo sperimentare dell'Arte in quel tanto d' esercizio che ne ho avuto; e per valermi di quella franca ed onesta imparzialità che l'indole mia liberissima mi impone, e la libertà dei tempi e l'avvenire dei nostri studii.
. Stretti in tal modo nell' intemerato amore del bello e del vero, noi moveremo la guerra a tutti coloro che pretendono dommatizzare la legittimità dei loro istituti; sfideremo le folgori dei tanti pontefici massimi che si arrogano il diritto d' inculcare la loro letteraria infallibilità; disprezzeremo il diritto divino dei loro rabescati diplomi ; combatteremo insomma l'assolutismo sotto qualunque forma; cacceremo l'arte italiana dalle Accademie e dalle Scuole, come Gesù ebbe a cacciare i mercanti dal tempio.
Lo ripetiamo dunque, o Signori. Un completo perfezionamento letterario non si potrà mai ottenere, quando si voglia restringere i nostri studii ad una vuota esposizione delle regole del comporre, a un' arida descrizione delle forme letterarie, ad una analisi pedantesca e grammaticale, ciò ch' è sintesi miracolosa di pensiero e di civiltà. Da questo inesatto e grettissimo esclusivismo, dal pregiudizio sciagurato di allontanar l'Arte dal vero, di scompagnarla dalla vita reale, di ridurla a semplice rudimento o a patrimonio esclusivo di pochi, è venuto nascendo quello sconcio deplorabilissimo in cui è incorso il ministerio della letteratura, quella piaga vergognosa di tutte le arti moderne, e la negligenza e il disprezzo in che sono cadute.
Io fremo ed arrossisco a pensarlo. Noi troviamo pittori ignoranti e talvolta analfabeti costretti a trarre le loro ispirazioni dal più laido fondo della realtà; maestri di musica che non sono in grado d' intendere il melodramma che pretendono rivestir d'armonie; incisori che altra cosa non sanno che il mestiere di tagliare il rame ; scultori che ardiscono tuttora incarnare le loro ibride concezioni sotto le rancide forme della vecchia o della nuova mitologia; che scolpiscono Veneri bagnanti e Cristi discesi dalla croce mentre gl' Italiani vanno ad affrontar la mitraglia di Porta Pia, e Re Guglielmo il Conquistatore ordina di bombardare la capitale del mondo civile !  


martedì 19 gennaio 2016

Biografia di Domenico Tempio - Vincenzo Percolla ed. 1867

"Me non nato a percotere Le dure illustri porte, Nudo accorrà, ma libero Il regno della morte. Nò , ricchezze, nè onore Con frode o con viltà, Il secol venditore Mercar non mi vedrà".
PARINI


Domenico Tempio (Catania22 agosto 1750 – Catania4 febbraio 1821)



Chi sei ? chi fosti ?
Chi giudicar ti può? Qual fia la lode Degna di te ?


Il Tempio è famoso fra quanti vati illustrarono l'alloro nel sicolo dialetto.
Egli nasceva in una terra ove tutto è poesia : nasceva nella metà  del  secolo decimottavo in Catania, culla di grandi Uomini e di quel Cigno  peregrino i cui canti melodiosi avranno un eco in ogni cuore finché il sole starà. Sin dall'infanzia mostrò  esser dotato di un' anima focosa e concitata, e divenne il fanciullo più frugolino del suo vicinato. Crebbe;   ed il padre attese con tenera   diligenza a farlo  compiutamente istruire. Il giovinetto faceva  inarcar  le ciglia di stupore a'più schifi — Crebbe ancora—e negli studii più serii sfrenavasi ad un volo d' aquila sovra gli altri : apprese le lettere latine ed italiane, rettorica, filosofia ed i primi elementi delle scienze esatte con tale alacrità e discernimento da non temer paragone. Vero  è che  a'suoi dì qualche nube  della prisca barbarie aggravavasi tuttavia, qual massa di piombo, sulle menti d' alcuni de' nostri ; ma pure era sempre il secolo di Giangiacomo , di Montesquieu , di Voltaire , di Filangieri , di Beccaria, di Romagnosi, di Parini , di Foscolo , di Monti e di Botta — astri luminosi dell' alba d' un giorno novello ed avventuroso !.. ed una sola scintilla dell' immensa lor luce poteva sciogliere e dissipare pe' quattro venti la ruggine di cento secoli ; poteva diffondere il baleno della folgore sulle, tenebre più dense ed impermeabili della credula antichità.
Ed egli, imberbe ancora , apostatando il pessimo insegnamento, canonizzato dal prestigio della longeva ignoranza , quasi leone che da vecchia catena si sferri, seppe correre dietro il genio filosofico di quel secolo rigeneratore ; e lo seguì con maggior lena rinvigorito poi dall' esempio e dalla voce dell' immortal Ventimiglia e del Biscari , che , chiamando alla sant' opera il De Cosmis, il Gambino ed altri, gittarono le fondamenta d'un immenso e sublime Santuario, dove arder dovesse perenne, come il fuoco di Vesta , la face del vero sapere ; il quale, indi a non molto, dovea ripurgare delle passate scorie gl'intelletti del popolo, e richiamarli a novelli e migliori destini.
Fra tante belle conoscenze  due cose trassero a sé singolarmente il giovine Tempio : la storia e la poesia. Egli accoppiava  con bel nodo Livio ad Orazio , Tacito a Giovenale , Ovidio a Rollin, Virgilio  a  Goguet ,al Varchi, al Guicciardini, al Machiavelli. Ma quando meditò sulla Divina Commedia e sulla Gerusalemme Liberata ; quando scorse 1' Orlando Furioso ed . il Canzoniere del Cantore di Laura, oh allora vide di che poteva esser egli capace; e sentì che un torrente d'imagini gli corse ratto per le vie del cuore e della fantasia , e sentì che le sue fibra oscillavano commos se. Il Vate! egli tosto esclamò — oh il Vate   è l' eco pella voce di Dio ! — il Vate , come in una fonte d'acqua lustrale, può tergere e ripulire i costumi di un popolo ! !

Il padre volle opporsi a questa sua nobile vocazione con volerlo per sempre  dannato al penoso   studio della giurisprudenza: triste e comune sorte di quasi la più parte de'poeti più insigni ! — Ma il nostro Domenico si sarebbe contentato di stare inceppato piuttosto in una galea al   remo,   che rassegnarsi a quel cenno paterno : e difatti anziché dilombarsi curvo sulle polverose glosse del gelido Accursio, egli leggeva di celato il sommo Alighieri ed il Tasso. Talora   voleva esercitarsi aringando, come a pien popolo, o innanzi a Magistrati e trovava d'avere invece tradotto, senza avvedersene , un' egloga di Virgilio, un'ode del Venosino.   Sdegnatosi impertanto con se medesimo, sforzavasi risolutamente di dar sempre il bando alle muse;  e ad ogni istante gli rigurgitavano nel cuore rime e d'ogni maniera versi— e   gli   sgorgavano indi incessantemente dal labbro. Sì, egli  era   tradito dal suo genio : egli era Poeta  nato !  Ma  le  impressioni che aprivano  la sua  fantasia a quei   siffatti  slanci , non erano gli spiriti e i nani malefici, non gli spettri e le anime dannate , come suole ne' giovani. ma erano quelle della stessa natura ; erano le bellezze del mondo   esteriore ;   erano le scene   che   appresentano magnificamente il cielo , la terra ed il mare. Né potea rincontrarsi in oggetto della creazione senza sentirsi un interno guizzo di vene, senza inebbriarsi d'una gioia secreta, che l'invogliava ad ardue cose e gli suggeriva ad un tempo l'idea e la nota. Gli astri, gli alberi, le pianure , i colli, gli uomini, i monumenti avevan per lui una favella da pochi intesa ,   da nessuno udita.  In   essi  leggeva le speranze   d'una vita-avvenire, le sventure e le glorie d'un tempo che fu, i fasti ed i rovesci de' secoli — e il presente , e il futuro, e l'ispirazione, e l'armonia, e l'amore e Dio — Dio ch' è di tutte   cose  spirituali e corporee , domestiche e civili , profane e sacre alto ed   unico fondamento e sorgente.
Egli era dunque preso delle bellezze della natura obbiettiva ; n' era il pittore — n' era il cantore, ed in esse scopriva nuovi tesori poetici. Egli avea letto i classici ; e credendo d'imitarne le bellezze , creava anche da sé; s'ingegnava di ritrarre da'classici, perchè allora non era sorta questa moderna scuola che, scimiando dagli oltramontani , ha inaridito le sorgenti del vero bello , ed ha l'oro al fango sacrilegamente rimestato.
Ma poche furono le delizie della sua giovinezza. Giunse il tempo del disinganno doloroso della vita, e tutto gli parve cambiar di colore sotto il suo sguardo? stato abbastanza illuso : gli cadde la benda dagli occhi, e tosto s'accorse come dalla perfìdia degli uomini nasca quell' amara solitudine di cuore che ti rende misantropo. Allora quest'immenso teatro di maraviglie che ne circonda , più non valse a sedurlo gran fatto ; nel cielo più non mirò che un orribile campo di fiere tempeste ; nella terra non udì che gemiti e grida disperate ; nelle acque non trovò che marosi , naufragi e morte.
Ogni oggetto della natura perdette il suo primiero incanto — tutto tornò muto, freddo, nudo senza quelle foglie d'oro da cui era stato orpellato : da ciò una vita tutta privata e diffidente; un'esistenza più concentrata e solitaria — e l'anima dissugata, rannicchiandosi in sé stessa , non cominciò a pascersi che di cupe meditazioni. Piegò lo sguardo al suo secolo, e che vide? — vide la tirannide in seggio — vide l'idra feudale, non ancora abbatutta , saettar dalle fauci le sue lingue trisulci ed insanguinate, e guatar minacciosa e furente ; vide le leggi guerce, senza nerbo, in duplice linguaggio , e quasi sempre in gergo ; la libertà civile compressa , e divenuta un vocabolo senza realità di concetto ; le distinzioni di razza e di sangue dominanti oltremodo, come se i Baroni fossero preadamiti o non isfognassero egualmente dalla comun madre ; vide il popolo, perchè ignorante e senza esistenza politica , soperchiato dalla miseria e da' potenti : il bene pubblico fatto patrimonio esclusivo di alcuni soli voracissimi ; l' industria smessa affatto ; il vizio infame insignito d' onori e premi mal tolti e venali ; la virtù iniquamente bestemmiata. Ah sì, queste furono le condizioni in che Tempio dovette vivere — se non che la luce del buon insegnamento veniva a poco a poco rischiarando le nubi dell'ignoranza e molcendo di salutifero balsamo le comuni piaghe inasprite.

Egli n'ebbe l'anima vivamente commossa;   quindi sin d'allora non vagheggiò che un pensiero—quello di giovare dell'ingegno la patria ,   poiché ogni altro argomento gli era vano. Ma qual via doveva  egli tenere ? — porsi a scranna  e dettare alteramente  pre-cetti di morale e di virtù? svolger massime filosofiche in prò del ben pubblico e contro il vizio ?  Mai no : egli sapeva che tante volte gl' Istitutori delle cattedre non fanno che dire e gridare al deserto ; egli sapeva che i migliori libri non sono neanche scartabellati — Ma come dunque riuscir nell'intento? Col solo diletto — col poetare. Tolse a guida Flacco ed Aristofane — Esopo ed Anacreonte — Borni e Luciano, ed eccolo divenuto poeta civile —poeta nazionale. Pinse  al vivo nella  sua lingua vernacola il carattere , i costumi, i pregiudizii, le magagne  del   suo paese ; e ruzzando e ridendo svergheggiò acremente il vizio e la prepotenza ;  rese un diadema   di venerazione alla  povera virtù: turò il simulato labbro alla vile calunnia, profferse tributo di laude alla voce del Saggio, che tante fiate è derisa.
E sebbene il più delle sue opere da vane giullerie abbia pigliato materia ; sebbene gli argomenti da cui trae cagione di scrivere, non siano che alcuni casi ed aneddoti dappoco e sterilissimi , pure è colà che tu ammiri il suo genio impareggiabile , la sua immaginazione feconda , il suo estro poetico vivificante , la sua originalità ne'pensieri, nello stile e nel vezzo di berteggiare tutto suo ; è colà che rinvieni tanti eletti fiori dì filosofia e di morale sparsi e serrati in mezzo al fitto d' una messe di serio e di giocoso, d'eroico, di burlesco e di mordacità a bello studio gaia e bicipite, che sorprende e diletta, come nelle opere più gustose e venuste de' latini e de' greci. Ma qui pure i suoi versi ricchi di frizzi e di bei motti scorrono talvolta tinti da una vena di bile magnanima, che stringeva da gran pezza le viscere del vate; ed anziché appalesarti un' anima spensierata e folleggiante, ti rivela un genio indomito per dispetto ed estremamente irritato e quasi presso a consumare sè stesso. Nella sua poesia dunque sta tutta accolta la storia del suo cuore , delle sue passioni . de'suoi patimenti , delle sue speranze : ma sempre vi campeggia tuttavia la natura fisica, che fa spesso germogliare in lui gli ardimentosi concetti; egli non pensa e non sente che a seconda le idee esterne che gli entran per gli occhi. Di bellezze morali non è già scevro , ma le fisiche lo prendono maggiormente. Il creato si è aperto a' suoi piedi ; egli vi si slancia, lo percorre ... ed osserva, dipinge e canta versando , come da inesausta fonte , poesia, critica, popolarità, sarcasmi, amore, entusiasmo e derisione ; canta stampando ovunque le orme del suo Genio creatore. Vero è che nelle sue poesie sono scurrilità e lascivie: ma egli è forse peccato il mescer talvolta (per dirla con Flacco) stultitiam con-sitiis brevem?—E poi non è per insozzarci di quelle lordure ch' egli le mette in mostra : è solo perchè dalle turpitudini altrui l'animo nostro rifugga, ed al vivere onesto si componga.
Le composizioni del Tempio sono di vario genere, di vario metro, di vario colore. Trattò l'ode, l'anacreontica, il ditirambo, l'idillio, l'apologo, l'epitalamio, il dramma, il poema e tutto trattò : percorse tutti i metri — toccò tutte le corde. E qui è piano e festevole—là è satirico e maestro di frizzi ; qui franco , elevato e serio — là dolce ed amabile: qui brioso e lascivetto —là cantore e pittore: o per dir meglio ora è Virgilio ed ora Flacco—quando Teocrito e quando Berni—ora Aristofane ed ora Redi-ora Tasso ed ora Lucrezio. Oh davvero ch'egli era poeta
per eccellenza ! !
Ma vediamolo col fatto ; gustiamo a reciso qualche brano delle sue opere. Ecco il principio di un' Ode saffica sopra la necessità origine d'ogni bene, ch'è una bella imitazione dell' ode di Orazio — Iam satis terris nivis ec.

Ccu tirrimoti, strepiti e ruini 
Focu a li mini dunanu li trona, ; 
Lenta è la zona, e di lu celu rutti 
Su l' aquidutti. 
Giovi sdignatu fremi furibunnu, 
Voli lu munnu subbissari sanu , 
Ed a dui manu scarrica saitti 
'Ntra li suffitti. 
Eulu tutti scatinau li venti, 
Nè foru lenti , già pri l' aria sparsi, 
Feri a truzzarsi 'ntra li soi cuntrasti 
Comu li crasti. 
Lu gran Nettunu furiusu arraggia 
Contra la spiaggia , e lu marinu sali 
Va'ntra sipali, e pri la lunga praja 
Sborrica raja. 
Gonfiu Simetu li campagni scupa, 
Casi sdirrupa, gnuttica paghiara, 
E li massara , comu li larunchi, 
Natanu unchi. 
Cala Dittainu, e comu avissi sennu, 
(Giovi dicennu, iu non ci accunsentu) 
Va viulentu, e arrobba a li vicini 
Porci e gaddini. 
Dà Gurnalonga ad iddu , chi si unisci, 
Di petri lisci lu tributu,, qnannu 
Jungi, tirannu scanni, vanchi e tauli 
Pipi a li cauli !
Lu Judiceddu suttirraniu sbraca
Ogni ccruaca, e pr'unni curri e. passa 
Prijnchi, e scassa ccu lu so futuri 
Li sepulturi. 
Tutti li morti 'ntra la lorda scuma 
Natanu 'nsuma , e cui non sa natari, 
Non c'è chi fari, chi annijatu resta 
Da la timpesta.

Se non fosse per tema di riuscir troppo lungo, vorrei qui trascriver per intero questa bellissima ode saffica , in cui risplendono tutti i pregi d' una poesia veramente originale. Ma dal poco che qui ho recato , può ciascuno veder di che tempra siano codesti versi Tempiani, i quali portano in sé stessi l' impronta del genio. Queste prime strofe sono altrettante perle. Il Viceré Caraccioli se le faceva ripetere spesso dall'Arciprete Scrina, come cosa oltremodo pregevole ; e Saverio Mattei, il traduttore de'Salmi , non sapeva ristarsi dal leggerle di sovente e declamarle.
Né men belli per freschezza e novità d'immagini sono a stimarsi i due Ditirambi sul vino, de'quali uno ha molte belle imitazioni del Bacco in Toscana di Redi,  il primo comincia così :

Era la notti e già faceva scuru ; 
Ed ogni armali o sia di pinna o pilu 
A lu so nidu, o 'ntra lu jazzu duru 
Aggiuccatu durmeva , e facia chitu , 
Quannu Varvazza succidu ed impuru 
Pri la sudura. chi scurreva a filu, 
Doppu aviri durmutu una jurnata 
Si susi , e fa una longa pisciazzata

Nel secondo Ditirambo si hanno molte bellezze poetiche in diverso metro, ch'io qui tralascio per brevità Ne' Drammi poi e ne' Dialoghi il nostro Tempio ha fatto rivivere Aristofane,   Nel poemetto — Lu  Veru Piaciri — riluce una vivacità di colorito , che solo l'arte d'un diligente pennello poetico può dare. Nei-1' Ode Li Vasuni ha tutta la grazia , il brio e la delicatezza d' Anacreonte. Nelle favole ha tutta l' ingenuità di La-Fontaine e le grazie del Passeroni; e seno fra esse da ricordarsi come scelte : Lu Sdegnu, — La Superbia— La Faccitosta ed altre poche.
Nè alle poesie messe a stampa van di sotto per numero o per pregio le cose inedite ; le quali se più eleganti o più immaginose, se più nuove o più terse siano delle prime , non è facile giudicare. Sono fra esse dialoghi , canzoni , drammi e sonetti italiani e vernacoli, che ogni buon poeta stimerebbe un gran bene poterli dir suoi. È però rincrescevole che molti di questi componimenti, per le lascivie onde son lorde , non potranno veder mai la luce del giorno; sebbene l'autore non abbia tralasciato di cavar sempre da esse utilità morali ; e lo dice in aperto egli stesso:

Scrivu chi sunnu l' omini,
E fazzu a la morali
Di lu presenti seculu
Processi criminali. 
A quali signu arrivanu
Mia musa si proponi
Dirvi li brutti vizii
E la corruzioni ; 
Chi di la Culpa laidi
Tanti l' aspetti sunu,
Chi basta sulu pingirla
Per abborrirla ognunu.


Ma le ali del genio di lui non potevano raccogliersi così tosto lassù dove sale la più parte de'vati paghi dello scarso favor delle Muse ad essi impartito, e stanchi dell'altalena durata. No; egli qual aquila peregrina, poteva animoso slanciarsi in una plaga più sublime , poteva spaziare pel firmamento , varcare gli spazi infiniti delle sfere, e furando la fiamma di co-lassù , scuotere il mondo di maraviglia e d' ammirazione. E venne l'ora: e che aspetti? gli disse il genio — Scrivi e crea : egli scrisse , e creò un gran poema , la Carestia : il cui soggetto è la sommossa popolare seguìta in  Catania nel 1798 per le dolorose conseguenze della carestia di quell' anno. È qui da notare che quel poema non fu dapprima fatto a bello studio e con proposito, ma quasi di repente nato nel-1' occasione ch' egli scriveva una lirica a Nice sul cen-nato argomento. Scelse perciò il metro settenario col suo sdrucciolo alternato, proprio delle brevi composizioni di questo genere ; ma da che vide l'autore crescere mano mano il suo componimento, pensò , per non perdere il già fatto, di andare innanzi senz' altro e distendere tutti quei casi del tumulto, come gli capitavano a mente. Se è così , com' è verissimo , egli fece d' uno zipolo una lancia, come suol dirsi : ed oh le singolari bellezze che per ogni canto, per ogni strofe della sublime epopea rincontransi!. Sicché ben alta è la venerazione che la patria tributa alla Carestia del nostro Vate. Egli meritava di già una corona d' alloro per le sue rime : ma i venti canti del suo Poema son tuttavia altrettanti raggi di gloria pe'quali egli immensamente rifulge.
Tempio, scriveva il Prof. Longo , è il poeta della ragione, della filosofia, dell'immaginazione ; e ciò non pertanto è il Poeta del suo tempo e del suo paese. Egli fa servire le sue cognizioni storiche, filosofiche, politiche a dipingere gli uomini quali sono in sé stessi, co'loro vizi, colle loro virtù, secondo lo stato dei lumi e della civiltà e secondo l'educazione buona o rea, ricevuta nella puerizia, e l'istruzione grossolana o raffinata, propria, di ciascun ceto e di ciascuna condizione di persone. Tempio è il pittore degli uomini e de' costumi del suo tempo : voi nelle sue composizioni avete, la storia del suo paese , la storia di lui medesimo. I suoi argomenti non trattano che soggetti peculiari, non tramandano che avvenimenti, che aneddoti del suolo che lo vide nascere, e ch' egli sembra non avere abbandonato giammai. Che miglior cosa de'suoi Ditirambi? che cosa più animata, più graziosa , più piccante de' suoi Drammi ? — Che cosa più ardita , più pittoresca della sua ode saffica : La Necessità origine d'ogni bene? che maggior varietà ne'suoi poemetti ? che più vasto soggetto della sua Carestia-poema nazionale, poema che non è né classico né romantico , poema indefinibile , poema della più ardua difficoltà, poema ch'è nel tempo stesso epico, lirico, comico, allegorico e satirico?.


Il nostro Poeta visse  quasi nella solitudine.
Come appena s' avvide a quante bassezze ed a quanti pericoli conduca sovente il vivere in seno all' umana società , volontariamente si ritrasse dal consorzio degli uomini per menare un vivere più tranquillo e sicuro fra le sue mura domestiche. La sua vita civile quindi non presenta nessuna circostanza notevole: egli non ambì cariche ed onori ; visse con le sue poche fortune , e quasi dimentico de' raggiri di questo basso mondo. Non usciva di casa che rarissime volte , passando gran parte de' suoi giorni fra un crocchio di veri amici, che ne apprezzavano l'ingegno ed il merito : ed era fra essi ch' egli, ne' luoghi di ritrovo , dando spesso, per loro inchiesta, libero sfogo alla sua infiammata fantasia , creava quelle sue portentose liriche— Ebbe a lottare con l'avversa fortuna; e negli ultimi anni di sua vita si trovò in tali strettezze, che gli amici (siccome era debito loro) ebbero a soccorrerlo con una mensile contribuzione, sebbene egli fruisse altresì di parecchi assegnamenti vitalizii sulla Mensa Vescovile e sul patrimonio del Municipio. L'amicizia e la gratitudine furono da lui come cose
celesti venerate. Amico de' dotti e de' grandi del suo tempo , il merito vero di essi lodò ne' suoi Canti; ma non fu adulatore giammai ;  perchè  il poetico fuoco nell'adulazione si spegne, quasi face ell'onda. Fu marito e padre tenerissimo; fu cittadino integerrimo, e non aspirò che alla libertà della patria.
Era di complessione piuttosto vigorosa e d'alta statura ; chiaro e schietto di cuore e d' un carattere un pò sentito : il suo volto era notevole per una cert'aria di nobile gravità , che imponeva il rispetto e la confidenza : ma nel suo sguardo acutissimo dinotava un ingegno prepotente — un ingegno capace di Usare lo splendore de'cieli e le maraviglie della terra senza smarrirsi o titubare. Era lo sguardo del poeta che infoca la musa, come per leggere nel futuro.

 Il giorno 4 Febbraio del 1821 fu quello in cui l'anima  dell' ispiralo Tempio passò a sfera migliore ; e con lui,   starei per  dire ,   s'estinse  la nostra musa vernacola. La sua salma ebbe, sepoltura nella Chiesa di S. Giov. Battista: ma non un monumento che faccia a' posteri onorevole ricordanza del suo gran nome. Questo è il destino a cui gli uomini   ingrati   dannarono sempre la memoria de'Grandi. Ma tu, o Catania vetusta, madre di Eroi, madre  di sovrani intelletti, placa le Ombre degl' Illustri tuoi figli ! Onora il nome di Domenico Tempio, che per te è nome di gloria. Leva tra'lauri ed i trofei che li mercano riverenza dovunque, il simulacro al tuo gran Vate — al tuo Dante ! e ne avrai plauso altissimo non che dall' Italia , dalle più culte Nazioni del mondo.
                                                                                                       Catania 1867  Vincenzo Percolla 

martedì 22 dicembre 2015

Mario Rapisardi e l'amore di Amelia Poniatowski


(...)Casa Rapisardi lungi dai rumori e dalle beghe, era un tempio non dell'arte soltanto, entro il quale folgorasse come in un mondo chiuso eppure in relazione vivente e continua con tutto il mondo intellettuale, non solo italiano ma mondiale, il genio dell'artefice illustre, del pensatore ribelle; all'ombra della quercia immane, si effondeva altresì il profumo dli una, grazia fatta di soavità e di amore, la grazia, inestinguibile di Amelia Poniatowski. Chi frequentò quella, casa e mi esprime i ricordi ineffabili e le baldanze di una prima giovinezza, aperta tutta alle idealità dell'arte e ai fremiti generosi della vita, e che la vita poi afferrò e costrinse — ahimè — nelle sue ferree morse tanto lungi, come egli mi diceva rimpiangendo, da quei sogni quasi divini, un amico e discepolo caro al Maestro e Poeta per temperamento, per ingegno e per cuore, Francesco Nicolosi Raspagliesi, quella casa mi descrive come il ridotto delle muse impersonate in una, che delle antiche avesse avuto il vivido ingegno e delle nostre moderne lo spirito di umiltà, di abnegazione che va oltre ogni consueto limite e che comprende in tutta l'estensione della parola il vivere una vita per un amore. 

Amelia Poniatowski in quanti la conobbero suscitò fervida ammirazione per le qualità rare della mente e del cuore, che intorno al Poeta per venticinque anni le fecero profondere i tesori della sua natura ricchissima; ed Alfio Tomaselli appunto, poiché il Poeta, fu spento, conobbe in lei la compagna che sola poteva interpretare il suo sentimento, e consacrò in un vincolo civile quello spirituale già esistente nell'amore che congiungeva per generosità, venerazione, devozione la compagna e lo scolaro intorno al Grande, fiaccola viva ed accesa dei più puri ed elevati sentimenti.
Alfio Tomaselli sposò Amelia Poniatowski; ma, come sempre, poiché un avverso destino sembra contrastare duramente agli umani i sogni più belli, Amelia Poniatowski in breve morì, e con la sua dipartita, mentre, se esiste un mondo dell'al di là, certamente di questo migliore e più felice, ove le anime elette si ritrovano, ella, andò a raggiungere novamente quella del Grande cui già aveva donato tanta parte di sé, lasciò bensì nella solitudine e nel pianto inconsolabile il secondo compagno il quale, forse, si era ripromesso, nella sua dedizione alla donna gentile, di darle col suo affetto quella parte di gioia ch'era potuta sfuggirle in una, vita troppo chiusa,  trascorsa senza varietà di colore presso' un uomo che, forse appunto perchè di eccezione, non era quanto a carattere d'umor sempre lieto, e riversava, come avviene, le sue inquietudini e i suoi travagli interiori, che il Rapisardi ebbe molti, anche senza volere sulla creatura più amata. Amelia Poniatowski era d'altra parte la sola, che potesse accogliere tutta la piena spesso amarissima dei vari affetti e degli orgasmi che turbavano l'animo del Rapisardi. Vissuto questi, come dice il Tomaselli, sempre fuori e di sopra dalle competizioni di piazza; schivo degli onori come anche degli strisciamenti; disgustato e diffidente in seguito alle ingiuste lotte mossegli contro da ogni sorta di avversari; contrario egli a tutte le fazioni politiche e religiose; temperamento diritto ed intero, è facile immaginare i dolori, le amarezze, i fastidi di mille generi sofferti tra le calunnie, le contumelie, gli scandali attraverso la doppia bruciatura del suo «Lucifero», eseguita l'una dal tipografo Barbèra, l'altra dall'Arcivescovo di Catania, e le lotte per la pubblicazione del « Giobbe », e quelle per le « Poesie religiose », e i sequestri delle poesie più significative sui vari giornali, e i processi, da cui a mala pena poterono salvarlo devoti ed illustri amici, quali il Bovio e il Saffi e l'insigne Graziadio Ascoli.

Amelia divideva con lui ogni, amarezza ed ogni fatica. Tra le «amorevoli gentilezze» e le "affabilità preziose" di lei, egli appariva più florido, diveniva più bello. Allietava ella in ogni modo le sue solitudini: gli leggeva libri, redigeva e raccoglieva corrispondenza, svegliava i silenzi con la musica fascinatrice, era insomma l'anima vivente, pietosa e giuliva della tranquilla casa lungi dai rumori, spa-ziante, « tra gli orti e i campi aprici » —come dice lo stesso Poeta — ove traevano in pellegrinaggio nella raccolta ombra uomini insigni di tutti i paesi ed amici e discepoli, ma ove trascorrevansi altresì lunghissimi periodi di solitudine, e da cui egli il Maestro non uscì affatto più, nemmeno in carrozza, per tutti gli ultimi anni, schivando quasi con passione di vedere ogni gente, di far conoscenze nuove, infastidito da ogni sorta di malanni che gli vietavano la gioia, infastidito dalla stessa luce che, pur troppo, quantunque egli amasse moltissimo, gli era divenuta insopportabile, accrescendogli la quasi quotidiana emicrania. L'impareggiabile creatura assisteva il Poeta in tutto. Dal dì che lo conobbe, 20 maggio 1885, giorno che il Rapisardi ricorda con indicibile emozione :

O fausto giorno
Che consentisti di venirmi a fianco !
Per incanto d'amor giovine torno

sino al giorno ultimo della sua vita, 4 gennaio 1911, ella gli consacrò l'esistenza, facendo di due vite, quella del Maestro declinante e battuta dall'avverso destino, e la sua, fiorente e ricca d'ogni celeste dono, di bellezza, di grazia, d'intelligente e spirituale bontà, una vita unica e sola, venendo ringagliardita la prima di tutti i tesori di giovinezza e di amore che erano rinchiusi nella seconda. 
Alla vicinanza di Amelia, Rapisardi riaprì l'anima, come un fiore. Una limpida vena scaturì novamente e più meravigliosamente dal cuore suo. Le « Poesie religiose » furono per la maggior parte della nuova ispirazione. Da indi innanzi vivificata dalla donna gentile fu tutta, la sua produzione.
Dopo il 20 maggio 1885, dopo i primi mesi dalla benedetta unione, mesi di letargo, come egli dice scrivendo al suo Reina nei primi dell'86, una nuova polla abbondantissima si manifesta, e dalle parole di lui ai raccoglie tutta l'intima e gaia resurrezione :
« Mi son finalmente rimesso a poetare, egli scrive, e le poesie religiose fioccano: figurati, ne ho scritto sei in meno di quindici giorni ». 

Ma lontano da Amelia si sente sfinito. Essendosi dovuto allontanare una volta da lei, per venire a Roma il 28 settembre dell'86, dopo 33 ore eterne di viaggio, le scrive : " Mi pare un anno che sono lontano da mia madre e da te, oggetti carissimi della mia vita", e più sotto « ho maledetto il momento d'essere partito», e attribuendo alle tenere cure di lei forse questo infiacchimento, che rivela invece il grandissimo prezzo del tesoro ritrovato e ch'egli nella sua appassionata esclamazione mette in rilievo : « io non mi sento più io : tutto è mutato agli occhi miei, tutto mi è caduto dal cuore, fuorché il tuo dolcissimo amore, che spero mi accompagnerà fino all'ultimo istante della mia vita ».
Altrove, sempre nella stessa circostanza e già sulla via del ritorno, ma trattenuto in quarantena (13 ottobre '86, da Napoli) ancora ad Amelia, che invita a raggiungerlo a Reggio : « Ho bisogno, anzi necessità di te: che la malinconia e la tristezza s'è talmente impossessata di me, che mi par di perdere la testa ». 
 
Intanto, dopo aver dato all'Italia «una forma nuova di poema, l'epopea del pensiero», il poema filosofico, eccolo a darle il poema satirico. Già sono apparse — altra fatica — le poesie di Catullo, interamente tradotte, ed ecco nel giugno 1891, scrivendo al Reina, annunciargli «sette canti già belli e finiti dell'Atlantide ». Sette canti ohe sono, come egli dice, « sette flagelli di scorpioni rotati con braccio d!i ferro e con riso di Lucifero su tutte le menzogne e le perfidie e le viltà del secolo ». Né basta; che un'altra novità è alle viste : la versione del « Prometeo' liberato » di Shelley, pubblicata nel '92. Dello stesso anno ancora sono l'« Empedocle » ed altri versi.
Come si vede, a fianco della sua benevola fata, egli non perde il suo tempo. Proseguendo, una commedia « La famiglia del signor Teofilo » intitolata, poi « Un santuario domestico » è rappresentata per la prima volta in Catania nel '93 dalla Compagnia Pietriboni. Nel '95 al 28 dicembre è pronta l'intera traduzione metrica delle « Odi » di Orazio, di cui manda come primizia il « Carme secolare » a Felice Cavallotti.
E continua la sua operosità in mille modi. Nella raccolta postuma delle « Nuove foglie sparse » sono molte delle poesie scritte nell'ultimo decennio di vita, come pure poemetti, epigrammi, iscrizioni e prose trovansi nelle altre due raccolte : « Poemetti e iscrizioni » e « Pensieri e giudizi ».
Ancora quando travagliato, dal male : « Cinque anni io sono stato — scrive a Edmondo De Amicis nel '97 — fremendo e spasimando, tra le spire di .un perfido male, e se non mi fossi io stesso condannato agli ozi forzati, e non avessi avuto l'assistenza generosa di questa nobile creatura ohe m'è compagna, il suicidio avrebbe spezzato il mio cuore, e la mia ragione travagliata da pubblici e da privati dolori si sarebbe inabissata nel baratro della pazzia», ancora la Musa. va a visitarlo qualche volta,, quella Musa, ch'egli abbraccia e bacia.
piangendo. Una collana di sonetti « Nozze immortali » è pubblicata nel 1898 dalla « Nuova Antologia ». « Non ostante i soliti acciacchi » corre non di meno sempre dietro « ai fantasmi dell'Ideale ». Ma il male con la fine è ormai alle porte. Ora egli si limiterà a scrivere ad amici, a conoscenti, a sollecitatori ed ammiratori. Amelia lo sorregge e l'accompagna nell'altro travaglio. Come ricordavo sopra, ella gli è d'accanto ognora, scrive per lui, corregge, legge, interpreta, annota. Non v'è lavoro che non porti ormai l'impronta delle sue mani, non v'è ispirazione che non rasenta la perpetua freschezza, del suo sorriso.  M. A. Personne

* Nuova Antologia anno 59 - 1° luglio 1924

http://rapiasrdi.altervista.org/la_contessa_lara.htm